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segno che me lo recassero, scrissi sur una grossa pesca alcuni versi di mia composizione, attestanti la riconoscenza mia al sultano; la lettura che ne fece, quando gli ebbi presentata la pesca, aumentò il suo stupore. Levata la mensa, gli fu recato certo liquore particolare, del quale mi presentò un bicchiere, ch’io tracannai, e su cui poscia scrissi altri versi, i quali spiegavano lo stato in cui, dopo infiniti patimenti, mi trovava. Il sultano lesse anche quelli, e sclamò: — Un uomo che sapesse fare altrettanto, sarebbe superiore ai più grandi uomini.

«Fattosi quindi recare un giuoco di scacchi (1), mi domandò per cenni se sapessi giuocare, e se volessi farlo con lui. Baciai la terra, e portando la mano sulla testa, gl’indicai ch’era pronto a ricevere tanto onore. Guadagnò egli la prima partita, ma io vinsi la seconda e la terza, e scorgendo che ne dimostrava qualche dispiacere, per consolarlo, scrissi una quartina che gli presentai, ed in cui diceva che due potenti eserciti erano venuti alle mani un intiero giorno con grande ardore, ma che alla sera avevano fatto pace, e passata la notte tranquillamente insieme sul campo di battaglia.

«Tante cose sembrando al sultano molto superiori a tutto ciò ch’erasi veduto od inteso della destrezza e dello spirito delle scimie, non volle essere solo testimonio di siffatti prodigi, ed avendo una figliuola chiamata Dama-di-beltà: — Andate,» disse al capo degli eunuchi, ch’era presente ed addetto al servizio della principessa, «andate, e fate venir qui

  1. Il giuoco degli scacchi è un’invenzione indiana, e fu recata in Persia, secondo gli autori, nel secolo XVI dell’era nostra. È probabile che la parola scacchi derivi dalla persiana Schah, che significa re. I Persiani, per dire Scacco matto, si servono dell’espressione Schah mat: il re è morto.