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qui m’adduce. — Sì, o sire,» rispose modestamente il dervis; «se non m’inganno, è la malattia della principessa che mi procura questo immeritato onore. — Appunto,» replicò il sultano. «Mi donereste la vita se, come spero, le vostre preghiere ottenessero la guarigione di mia figlia. — Sire,» soggiunse il dabben uomo, «se vostra maestà vuol farla venir qui, ho fiducia, coll’aiuto di Dio, di poterla perfettamente risanare.
«Il principe, esultante di gioia, mandò tosto a prendere la figlia, la quale comparve non molto dopo; accompagnata da numeroso seguito di donne e di eunuchi, e velata in maniera che non le si vedeva il volto. Il capo dei dervis ordinò le si tenesse sulla testa un braciere, e non appena ebbe posti i sette peli sui carboni accesi, che il genio Maimun, figlio di Dimdim, proruppe in grandi strida, senza lasciarsi vedere, e lasciò libera la principessa. Portò questa in primo luogo la mano al velo che le copriva la faccia, e lo sollevò per vedere ove fosse. — Dove sono?» sclamò; «chi m’ha qui condotta?» A tali parole non potè il sultano trattenere l’immenso suo giubilo, abbracciò la figliuola, e le baciò gli occhi; baciò pure la mano al capo dei dervis, e voltosi agli ufficiali che lo accompagnavano: — Ditemi il vostro parere; qual ricompensa merita chi ha così guarita mia figlia?» Risposero tutti che meritava di sposarla. — Anch’io il pensava,» ripigliò il sultano, «e da questo momento lo creo mio genero.
«Poco tempo dopo morì il primo visir; il sultano pose in sua vece il dervis, e morto il medesimo sultano senza prole maschia, radunatasi la milizia ed i vari ordini religiosi, il dabben uomo fu d’unanime consenso proclamato sultano....»
Il giorno che spuntava obbligò Scheherazade a fermarsi, ma il dervis parve a Schahriar degno del-