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nella sua casa parecchie cellette, nelle quali in poco tempo stabilì una numerosa comunità di dervis. In breve la sua virtù lo fece conoscere, e non mancò di attirargli un’infinità di persone tanto del popolo che delle più distinte della città; in fine, ciascuno l’onorava e lo teneva estremamente caro. Venivano molti altresì da lontano per raccomandarsi alle sue preghiere, e tutti quelli che partivansi da lui, propalavano le benedizioni che credevano di avere, per suo mezzo, ricevute dal cielo.

«La sua fama essendosi sparsa anche nella città nativa, l’invidioso n’ebbe sì vivo cordoglio che abbandonò casa ed affari, determinato di farlo perire. A tal uopo si trasferì al nuovo convento di dervis, il cui capo, già suo vicino, lo accolse con tutti gli immaginabili segni d’amicizia. L’invidioso gli disse essere venuto espressamente per comunicargli una faccenda importante, di cui non poteva parlare che in segreto. — Affinchè,» soggiunse, «niuno ci ascolti, passeggiamo, vi prego, qui nel cortile, e poichè si avvicina la notte, comandate ai vostri dervis di ritirarsi nelle loro celle.» Il capo dei dervis secondò il desiderio dell’ospite.

«Vedutosi l’invidioso solo col dabben uomo, cominciò a raccontargli cose indifferenti, camminando l’uno accanto all’altro pel cortile, finchè, giunti sull’orlo della cisterna, gli diè una spinta, e ve lo gettò dentro, senza che alcuno fosse testimonio di sì scellerata azione. Ciò fatto, si allontanò celeremente, ed uscito dal convento senza essere veduto, tornò a casa contentissimo del suo viaggio, e persuaso che l’oggetto della sua invidia più non fosse in vita; ma egli s’ingannava assai....»

Scheherazade, vedendo spuntare il dì, non potè proseguire. Si sdegnò il sultano della malizia dell’invidioso. — Bramo grandemente,» disse fra sè, «che