Le Mille ed una Notti/Storia del secondo calendero figlio di re
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DEL SECONDO CALENDERO FIGLIO DI RE.
«Mia signora,» le disse, «per obbedire al vostro comando, ed insieme spiegarvi per quale strana avventura diventai guercio dell’occhio destro, fa duopo vi racconti tutta la storia della mia vita. Era appena uscito dall’infanzia, che il re mio padre (poichè dovete sapere, o signora, che nacqui principe), scorgendo in me molto spirito, nulla risparmiò per coltivarlo, avendo presso di me chiamato quanti uomini esistevano nei suoi stati, dotti nelle scienze e nelle belle arti. Appena seppi leggere e scrivere, imparai a mente tutto l’Alcorano (1), quel libro mirabile, che contiene il fondamento, i precetti e le regole della nostra religione; e all’oggetto d’istruirmene a fondo, lessi le opere degli autori più accreditati che lo illustrarono co’ loro commenti. Aggiunsi a tal lettura la conoscenza di tutte le tradizioni raccolte dalla bocca de’ nostri profeti dai grandi uomini loro contemporanei. Nè mi contentai d’imparare tutto ciò che riguarda la nostra religione, ma feci inoltre uno studio particolare delle nostre storie, e mi perfezionai nelle belle lettere, nella lettura de’ nostri poeti, nell’arte di far versi. Mi applicai alla geografia, alla cronologia ed a parlare puramente la nostra lingua, senza però trascurare alcuno degli esercizi convenienti ad un principe. Ma la cosa che più mi piaceva e nella quale precipuamente riuscii, era formare i caratteri della nostra lingua araba, e vi feci tai progressi, che superai i professori tutti del nostro regno, che acquistata eransi maggior riputazione nello scrivere.
«La fama mi fece più onore che non meritassi, poichè non si accontentò di spargere la voce de’ miei talenti negli stati del re mio padre, ma la spinse fino alla corte delle Indie, il cui possente monarca, voglioso di vedermi, inviò un ambasciatore con ricchi donativi per domandarmi a mio padre, ch’ebbe grande soddisfazione di tale ambasciata per più ragioni, essendo persuaso che nulla convenisse meglio ad un principe della mia età, quanto l’andare a far conoscenza delle corti straniere; e d’altronde era contento di procacciarsi l’amicizia del sultano delle Indie. Partii dunque coll’ambasciatore, ma con poco seguito, stante la lunghezza e difficoltà delle strade.
«Era un mese che ci trovavamo in cammino, quando scoprimmo da lungi un gran nembo di polvere, diradato il quale vedemmo comparire cinquanta cavalieri ben armati. Erano ladroni che spingevansi alla nostra volta di gran galoppo....»
Scheherazade a questo passo vide il giorno, e ne avvisò il sultano, che tosto si alzò; ed ansioso di sapere ciò che accadrebbe tra i cinquanta cavalieri e l’ambasciatore delle Indie, il principe aspettò la notte successiva con impazienza.
NOTTE XLI
Era ormai quasi giorno, allorchè Scheherazade riprese la storia del secondo calendero in questi sensi:
— «Signora,» proseguì il calendero, parlando sempre a Zobeide, «siccome avevamo con noi dieci cavalli carichi del nostro bagaglio e dei donativi che in nome del re mio padre io doveva fare al sultano delle Indie, ed eravamo in pochi, ben comprenderete che i ladroni non mancarono di venirci arditamente incontro; non essendo in istato di respingere la forza colla forza, dicemmo loro che eravamo ambasciadori del sultano delle Indie, e speravamo nulla tenterebbero contro il rispetto che gli dovevano. Credemmo di salvare così i nostri equipaggi e la vita; ma i malandrini ci risposero con insolenza: — Perchè vorreste che rispettassimo il sultano vostro padrone? Noi non siamo suoi sudditi, nè ci troviamo neppure sulle sue terre.» Sì dicendo, ci attaccarono: io mi difesi il meglio che potei; ma sentendomi ferito, e visto che l’ambasciatore e la gente della scorta erano stati gettati a terra, approfittai delle poche forze del mio cavallo, anch’esso ferito, per allontanarmi. Lo spinsi finchè potè portarmi, ma mancatomi esso sotto d’improvviso, cadde morto di stanchezza e del sangue perduto. Me ne sbarazzai prontamente, ed osservando che nessuno m’inseguiva, pensai che gli assassini non avessero voluto allontanarsi dal fatto bottino.»
Qui avvedendosi Scheherazade ch’era giorno, si fermò. Ah, sorella!» sclamò Dinarzade; «quanto mi duole che tu non possa continuare sì bella storia! — Se non fossi stata oggi tanto pigra,» rispose la sultana, «ne avrei detto di più. — Or bene,» ripigliò Dinarzade, «sarò domani più diligente, e spero che indennizzerai la curiosità del sultano di ciò che gli fe’ perdere la mia negligenza.» Schahriar si alzò senza dir nulla, ed andò alle sue ordinarie occupazioni.
NOTTE XLII
Non mancò Dinarzade di chiamare la sultana più presto del giorno precedente, e Scheherazade continuò il racconto del secondo calendero:
— «Eccomi dunque, o signora,» disse il calendero, «solo, ferito, privo d’ogni soccorso, in un paese sconosciuto. Non osai riprendere la strada maestra per tema di ricadere nelle mani dei ladroni, e fasciata alla meglio la mia ferita, che non era pericolosa, camminai il resto del giorno, e giunsi appiè d’un monte dove, a metà del pendio, vidi una grotta. Vi entrai, e passai colà tranquillamente la notte, dopo aver mangiato alcune frutta da me raccolte strada facendo. Continuai a camminare i giorni successivi senza trovar luogo ove fermarmi; ma dopo un mese, scopersi una popolosa città vantaggiosamente situata, ed irrigata da più fiumi che trovavansi nei dintorni, per cui vi regnava perpetua primavera. I piacevoli oggetti che mi si presentarono allora alla vista, m’empirono di gioia, e sospesero per alcuni momenti la tristezza mortale in cui era immerso vedendomi ridotto in sì misero stato. Abbronzati aveva il volto, le mani ed i piedi, che il sole mi aveva quasi bruciati; rotti a forza di camminare i calzari, e costretto a procedere a piè scalzi, e gli abiti mi cadevano a brani.
«Entrai nella città per informarmi del luogo in cui era, e mi diressi ad un sarto che lavorava nella sua bottega, il quale, per la mia gioventù e l’aspetto dinotante ben altro da quel ch’io appariva, mi fe’ sedere vicino, e mi domandò chi fossi, donde venissi, e qual affare mi avesse là condotto. Gli confidai quanto m’era accaduto, nè feci difficoltà alcuna a scoprirgli la mia condizione. Il sarto mi ascoltò attentamente, ma quando ebbi finito di parlare, in vece di confortarmi, accrebbe il mio affanno. — Guardatevi bene,» mi disse, « dal confidare a chi che sia quanto mi narraste, poichè il monarca che regna in questi luoghi è il più acerrimo nemico del re vostro padre, e vi farebbe, son certo, qualche oltraggio, se sapesse il vostro arrivo in questa città.» Non dubitai della sincerità del sarto quando m’ebbe nominato il principe; ma siccome codest’inimicizia fra mio padre e lui non ha rapporto alcuno colle mie avventure, accontentatevi, signora, che la passi sotto silenzio.
«Ringraziai il sarto dell’avviso, accertandolo che mi rimetteva intieramente ai suoi consigli, e che non sarei per dimenticare giammai i servigi cui sarebbe per prestarmi. Or come pensò che non dovessi mancare d’appetito, mi fece recar da mangiare, e mi offerse alloggio in casa sua: io accettai.
«Pochi giorni dopo il mio arrivo, osservando egli ch’io era abbastanza rimesso dalla fatica del lungo e penoso viaggio, nè ignorando che la maggior parte dei principi della nostra religione, per precauzione contro i rovesci della fortuna, imparano qualche arte o mestiere onde servirsene in caso di bisogno, mi domandò se ne conoscessi alcuno con cui campar la vita senza stare a carico altrui. Risposi che sapeva l’una e l’altra legge, ch’era gramatico, poeta, e soprattutto che scriveva a perfezione. — Con tutto ciò che mi venite dicendo,» ripigliò egli, «non guadagnereste in questo paese neppure un tozzo di pane; nulla è qui più inutile di simili cognizioni. Se voleste seguire il mio consiglio, vi direi di vestire un abito corto; e siccome mi sembrate sano e robusto, potrete andare nella foresta vicina a far legna; vorrete poi ad esporle in vendita sulla piazza, e vi assicuro che ve ne formerete una piccola rendita, con cui campar la vita indipendente da ognuno. Per tal mezzo, vi porrete in grado di attendere che il cielo vi si mostri propizio, e disperda il nembo di mala fortuna che contraria la vostra felicità, e vi sforza ad occultare la nascita vostra. M’incarico di trovarvi una corda ed una scure.» Il timore d’essere riconosciuto ed il bisogno di vivere mi costrinsero a prendere tal partito, malgrado la sua bassezza e la fatica che seco portava. Subito il giorno dopo il sarto mi comprò una scure ed una corda con un abito corto; e raccomandatomi ad alcuni poveri uomini, che nella medesima guisa guadagnavano il vitto, li pregò a prendermi con loro. Andai alla foresta, e nello stesso giorno ne riportai sul capo un grosso carico di legna, che vendetti mezzo scudo d’oro della moneta del paese; perchè, quantunque non lontana la selva, la legna non lasciava d’esser cara in quella città, a motivo della poca gente che si dava pensiero d’andarne a tagliare. In poco tempo guadagnai molto, e restituii al sarto il danaro per me sborsato.
«Era già più d’un anno che viveva in tal maniera, quando un giorno, essendo penetrato nella foresta più innanzi del solito, giunsi in un sito ameno, ove postomi a tagliar legna, strappando una radice d’albero, vidi un anello di ferro attaccato ad una botola dello stesso metallo. Levai immantinente la terra che la copriva, l’alzai, e mi si presentò una scala per cui discesi colla mia scure. Giunto in fondo, mi trovai in un vasto palazzo che mi destò grande ammirazione per la luce che lo rischiarava quasi fosse stato sulla terra, nel luogo meglio soleggiato. M’inoltrai per una galleria sostenuta da colonne di diaspro, con basi e capitelli d’oro massiccio, ma vedendomi venire incontro una dama, mi parve essa d’aspetto sì nobile e disinvolto, e d’avvenenza sì straordinaria, che stogliendo lo sguardo da ogni altro oggetto, mi diedi unicamente a contemplarla.»
Qui Scheherazade cessò di parlare, vedendo ch’era giorno; Dinarzade allora le disse: — Mia cara sorella, ti confesso che sono contentissima di ciò che ci hai oggi raccontato, e m’immagino che quanto rimane non sia meno maraviglioso. — Nè t’inganni,» rispose la sultana, «poichè il resto della storia di questo calendero è più degno dell’attenzione del sultano mio signore di tutto ciò ch’egli ha udito finora. — Ne dubito,» disse Schahriar; «ma lo vedremo domani.»
NOTTE XLIII
Anche questa notte Dinarzade fu diligentissima, e la sultana, per soddisfare alla premura della sorella, si pose a raccontare ciò che avvenne nel palazzo sotterraneo tra la dama ed il principe. — Il secondo calendero,» continuò essa, «proseguì così la sua storia:
«Per risparmiare alla bella dama,» disse, «la pena di venire fino a me, m’affrettai a raggiungerla, e mentre le faceva una profonda riverenza, essa mi disse: — Chi siete? Uomo o genio? — Sono uomo,» le risposi rialzandomi, «e non ho coi geni verun commercio. — Per qual avventura,» ripigliò essa con un sospiro, «vi trovate voi qui? Sono venticinque anni che vi dimoro, e in tutto questo tempo no ho veduto altr’uomo fuor di voi.
«La mirabile sua beltà, che mi aveva già dato nell’occhio, la sua dolcezza e la civiltà colla quale mi accoglieva, spinsermi a dirle: — Mia signora, prima d’aver l’onore di soddisfare alla vostra curiosità, permettete di dirvi che mi compiaccio infinitamente di questo impreveduto incontro, il quale mi porge occasione di consolarmi nell’afflizione in cui mi trovo, e di rendervi forse più felice che non siate.» Le raccontai fedelmente per quale strana combinazione vedesse in me il figlio d’un re nello stato in cui le compariva davanti, e come il caso m’avesse fatto scoprire l’ingresso della sua prigione magnifica, ma, secondo tutte le apparenze, noiosa. — Aimè! principe,» diss’ella sospirando di nuovo, «avete ben ragione di pensare che questa prigione, tanto ricca e pomposa, non lasci d’essere, un noioso soggiorno; i luoghi più deliziosi non riescono mai graditi quando vi si sta contro voglia. È impossibile che non abbiate mai udito parlare del grande Epitimaro, re dell’isola di Ebano, così chiamata a cagione di quel legno prezioso che in abbondanza produce. Io sono la principessa sua figliuola. Il re mio padre aveami scelto per isposo un principe mio cugino; ma la prima notte delle nozze, in mezzo alle feste della corte e della capitale del regno dell’isola d’Ebano, prima che fossi consegnata al marito, un genio mi rapì. In tal momento svenni, e quand’ebbi ripreso l’uso de’ sensi, mi trovai in questo palazzo. Stata lungamente inconsolabile, il tempo e la necessità mi avvezzarono a vedere e soffrire il genio. Sono venticinque anni, come già accennai, che qui mi trovo, ove posso dire d’avere a mia disposizione quanto è necessario alla vita e può contentare una principessa che amasse solo lo sfarzo e gli abbigliamenti. Ogni dieci giorni il genio viene a passare una notte con me; nè viene più di sovente, adducendo per iscusa, esser egli unito ad altra donna, la quale avrebbe gelosia se venisse a scoprirne l’infedeltà. Nondimeno, se ho bisogno di lui, sia di giorno o di notte, non appena tocco un talismano, situato all’ingresso della mia camera, che il genio compare. Sono oggi quattro giorni ch’egli è venuto; laonde non lo aspetto che di qui ad altri sei. Potreste dunque rimanervene cinque con me per tenermi compagnia, se vi piace, ed io procurerò di trattarvi secondo il grado ed il merito vostro.
«Io mi sarei stimato troppo felice d’ottenere un sì gran favore domandandolo; per rifiutarlo dopo sì cortese offerta. La principessa mi fece dunque entrare in un bagno, il più comodo e sontuoso che si possa immaginare, e quando ne uscii, in vece del mio abito, ne trovai un altro ricchissimo che indossai, non tanto pel suo valore, quanto per rendermi più degno di stare con lei. Sedemmo sur un sofà coperto di magnifico tappeto e guarnito d’origlieri del più bel broccato delle Indie; dopo qualche tempo essa mise sopra una tavola delicatissimi cibi. Mangiammo insieme, passammo dilettevolmente il resto della giornata, e la notte mi accolse nel suo letto.
«La domane, siccome cercava tutti i mezzi di piacermi, mi servì a pranzo una bottiglia di vino vecchio squisitissimo, e volle per compiacenza berne con me. Riscaldata ch’ebbi la testa da quel liquore delizioso: — Bella principessa,» le dissi, « è troppo tempo omai che ve ne state qui sepolta viva; seguitemi, venite a fruire della luce del vero giorno di cui siete da tant’anni priva. Abbandonate la falsa luce della quale qui godete. — Principe,» mi rispose sorridendo, «lasciate un tal discorso. Ho in non cale la più bella luce del mondo, purché di dieci giorni me ne doniate nove; cedendo il decimo al genio. — Principessa,» ripigliai allora, «ben veggo che il timore del genio vi fa parlare così. Quanto a me, lo temo sì poco, che corro a far in pezzi il suo talismano col libro magico che vi sta sopra. Ch’ei venga allora, io l’aspetto. Per quanto valoroso e formidabile possa egli essere, gli farò sentire il peso del mio braccio. Giuro di sterminare quanti geni vi sono al mondo, e lui pel primo.» La principessa, che ne sapeva le conseguenze, mi scongiurò di non toccare il talismano. — Sarebbe il mezzo,» mi disse, «di perderci entrambi. Conosco i geni assai meglio di voi.» I vapori del vino non mi permisero di ascoltare le ragioni della principessa, talchè dando un calcio al talismano, lo ruppi in più pezzi.»
Terminando coteste parole, Scheherazade, notato che albeggiava, tacque, ed il sultano si alzò. Ma non dubitando che il talismano spezzato non venisse seguito da qualche straordinario avvenimento, risolse d’ascoltare il resto della storia.
NOTTE XLIV
Qualche tempo prima dello spuntar del giorno, Dinarzade, svegliatasi, sollecitò la sorella a proseguire il racconto; e questa subito continuò la storia del secondo calendero:
«— Appena il talismano fu rotto, il palazzo tremò con uno spaventevole fragore simile a quello del tuono, accompagnato da lampi raddoppiati e da grande oscurità. Quel terribile fracasso dissipò in un attimo i fumi del vino, e mi fe’ conoscere, ma troppo tardi, il commesso errore. — Principessa,» sclamai, «che significa ciò?» Essa mi rispose tutta spaventata e senza pensare alla propria disgrazia: — Aimè! è finita per voi se non fuggite.
«Seguii il suo consiglio; ma fu tanto il mio spavento che dimenticai scure e pappucce (2), ed aveva appena raggiunta la scala, da cui era disceso, quando il palazzo incantato si spalancò per far adito al genio. Domandò esso in collera alla principessa: — Che cosa vi è accaduto? e perchè mi chiamate? — Un male al cuore,» rispose la principessa, «mi costrinse ad andar a prendere la bottiglia che vedete, e ne bevvi due o tre sorsate; per disgrazia ho fatto un passo falso, e caddi sul talismano che s’infranse. Non è altro.
«A quella risposta, il genio, incollerito, le disse: — Siete un’impudente, una bugiarda. Quella scure e quelle pappucce perchè trovansi qui? — Non le ho mai vedute prima d’ora,» soggiunse la principessa.
«Coll’impeto col quale siete venuto, le avrete forse prese con voi, passando per qualche luogo, e qui recatele senza badarvi.
«Non rispose il genio se non con ingiurie e percosse, delle quali io intesi il romore. Non ebbi la fermezza di udire i pianti e le strida della principessa sì crudelmeme maltrattata. M’era già spogliato dell’abito da lei fattomì indossare, e ripreso il mio, che aveva portato sulla scala il giorno precedente all’uscire dal bagno, finii così d’ascendere, tanto più dolente ed impietosito, in quanto ch’io era la cagione di quella disavventura; e che sacrificando la più vezzosa principessa della terra alla barbarie d’un genio implacabile, erami reso colpevole ed il più ingrato degli uomini. — Vero è,» diceva tra me, «ch’ella è prigioniera da venticinque anni; ma fuor della libertà, null’altro aveva a desiderare per essere felice. Il mio cieco trasporto mette fine al suo benessere, e la sottopone alla crudeltà d’un demonio spietato.»
Abbassai la botola, e ricopertala di terra, tornai alla città con un carico di legna che allestii senza sapere cosa mi facessi, tanto era turbato ed afflitto.
«Il sarto, mio ospite, dimostrò gran gioia al rivedermi. — La vostra assenza,» dissemi, «m’ha cagionato molta inquietudine, a motivo del segreto della vostra nascita che mi confidaste. Non sapeva più cosa pensare, e temeva che qualcuno non v’avesse riconosciuto. Lodato sia Iddio del vostro ritorno!» Lo ringraziai dello zelo e dell’affetto suo; ma non gli palesai la mia avventura, nè la ragione per cui tornava senza scure e senza pappucce. Mi ritirai quindi nella mia stanza, ove mi rimproverai mille volte la commessa imprudenza. — Nulla,» andava dicendo, «avrebbe pareggiato la felicità della principessa e la mia, se avessi saputo contenermi, e non infranto il talismano.» Mentr’io m’abbandonava a tali affliggenti pensieri, entrò il sarto, e mi disse: — È giunto un vecchio, ch’io non conosco, colla vostra scure e le vostre pappucce, da lui trovate, a quanto dice, sulla strada; egli ha saputo dai vostri compagni, che vengono con voi al bosco, che abitavate qui; venite, egli vuol parlarvi, e conseguarvele in persona.» A tali parole cangiai di colore, e fui preso da un tremito generale; stava il sarto per chiederne la cagione, quando d’improvviso il pavimento della stanza si spalancò, ed il vecchio, il quale non aveva avuto la pazienza di aspettare, ci comparve davanti colla scure e le pappucce. Era il genio rapitore della bella principessa dell’isola d’Ebano, il quale erasi così trasformato, dopo averla trattata con estrema barbarie. — Io sono il genio.» ci diss’egli, «figlio della figlia d’Ebli, principe dei geni. Non è questa la tua scure?» soggiunse volgendosi a me; «non sono questo le tue pappucce?»
Scheherazade qui vide il giorno, e cessò di parlare, il sultano trovava troppo bella la storia del secondo calendero per non volerne conoscere il resto, e si alzò coll’intenzione di udirne il seguito al domani.
NOTTE XLV
Il giorno seguente, Scheherazade, per appagare la sorella, curiosissima di sapere come il genio trattasse il principe, si mise a proseguire di tal modo la storia del secondo calendero:
— «Signora,» egli disse a Zobeide, «avendomi il genio fatta questa interrogazione, non mi diè tempo di rispondergli, nè l’avrei potuto fare, tanto la sua spaventevole presenza avevami sbaordito. Presomi a mezzo il corpo, mi trascinò fuor della stanza, ed alzatosi in aria, mi sollevò fino al cielo con tal forza e celerità, che m’avvidi più presto d’essere salito a tanta altezza, che della strada fattami da lui percorrere in un batter di ciglio. Scagliossi in pari guisa verso la terra, ed apertala col battere del piede, vi si sprofondò, e tosto mi trovai nel palazzo incantato davanti alla bella principessa dell’isola d’Ebano. Ma aimè! quale spettacolo! vidi una cosa che mi trafisse il cuore: la principessa, ignuda e bagnata di sangue, stava distesa al suolo, più morta che viva, e colle guance innondate di lagrime. — Perfida,» le disse il genio, presentandomi a lei, «non è questo il tuo amante?» Vols’ella su me un languido sguardo, e rispose tristamente: — Non lo conosco; non l’ho mai veduto prima d’ora. — Come!» ripigliò il genio; «è desso cagione che tu sii nello stato in cui giustamente ti trovi, ed osi dire che non lo conosci? — Se non lo conosco,» tornò a rispondere la principessa, «volete ch’io dica una menzogna, che sia cagione della sua rovina? — Ebbene,» disse il genio, sguainando una sciabola e presentandola alla donna; «se mai nol vedesti, prendi questa scimitarra e troncagli il capo. — Ahi!» sclamò la principessa; «come potrei eseguire questo crudel comando? Le mie forze sono estenuate in modo, che non potrei alzare un braccio; e quando pur il potessi, come avrei il coraggio di dare la morte ad un uomo che non conosco, ad un innocente? — Cotesto rifiuto,» disse allora il genio alla principessa, «mi fa conoscere tutta la tua reità.» Poscia, volgendosi verso di me: «E tu,» mi disse, «non la conosci?
«Sarei stato il più ingrato e perfido degli uomini, se non avessi avuto per la principessa la medesima fedeltà ch’ella serbava per me, che pur era la causa de’ suoi mali. Laonde risposi al genio: — Come dovrei conoscerla, se non l’ho mai veduta prima d’ora? — Se così è,» ripigliò egli, «prendi questa sciabola e tagliale la testa. A questo solo prezzo ti rimetterò in libertà, e sarò convinto di quanto mi assicuri. — Assai volentieri,» rispos’io. Presi dalle sue mani la scimitarra....
— Ma, sire,» disse Scheherazade fermandosi, «è già giorno, e non devo abusare della tolleranza di vostra maestà. — Sono maravigliosi avvenimenti,» disse fra sè il sultano; «vedremo domani se il principe ebbe la crudeltà di obbedire al genio.»
NOTTE XLVI
Sul finire della notte, Scheherazade, per soddisfare all’impazienza di Dinarzade, le disse: — Ecco come il secondo calendero proseguì il suo racconto:
«Non crediate, o signora, che mi avvicinassi alla bella principessa dell’isola d’Ebano per obbedire al barbaro ordine del genio, ma io lo feci al solo fine di farle comprendere, con cenni, per quanto erami possibile, che siccom’ella aveva la fermezza di sacrificare la sua vita per amor mio, io non mi sarei rifiutato d’immolare la mia per lei. Comprese la principessa il mio disegno malgrado il suo dolore e l’afflizione sua, me lo fe’ conoscere con uno sguardo obbligante, e mi fece intendere che morrebbe volentieri, e ch’era ben contenta al veder me pure determinato di morire per lei. Indietreggiai, allora, e gettando a terra la sciabola: — Sarei,» dissi al genio, «biasimato in eterno da tutti gli uomini, se avessi la viltà di trucidare, non solo una persona che non conosco, ma tanto più una dama, come quella che veggo, nello stato in cui si trova, prossima ad esalare l’anima. Voi farete di me quanto vi piacerà, essendo a vostra discrezione; ma non posso obbedire al barbaro vostro comando. — Ben veggo,» soggiunse il genio, «che amendue vi beffate di me, ed insultate alla mia gelosia; ma dal trattamento che vi farò, conoscerete tutti e due di che sono capace.» A tai detti, afferrò il mostro la scimitarra, e tagliò una mano alla principessa, la quale non ebbe che il tempo di darmi un eterno addio coll’altra; poichè il sangue già perduto, e quello che perdeva allora, lasciolla vivere appena pochi momenti dopo quest’ultima crudeltà, alla cui vista smarrii l’uso dei sensi.
«Quando tornai in me stesso, mi dolsi col genio perchè mi facesse languire nell’aspettazione della morte. — Ferite,» gli dissi, «son preparato a ricevere il colpo mortale; da voi lo attendo come la maggior grazia che possiate farmi.» Ma in vece di accordarmela, rispose: — Ecco in qual guisa i geni trattano le donne sospettate d’infedeltà. Essa ti ha ricevuto qui; se fossi certo che mi avesse recato maggiore oltraggio, ti farei perire sull’istante; ma mi contenterò di cangiarti in cane od in asino, in lione od in uccello. Scegli una di queste metamorfosi; te ne lascio padrone.
«Coteste parole mi posero in qualche speranza di placarlo; laonde: — O genio,» gli dissi, «moderate il vostro sdegno, e poichè non volete togliermi la vita, concedetemela generosamente. Ricorderò sempre la vostra clemenza, se mi perdonate, del pari che il miglior uomo del mondo perdonò ad un suo vicino che mortalmente lo invidiava.» Il genio mi chiese che cosa fosse accaduto fra que’ due vicini, dicendomi che avrebbe avuta la pazienza di ascoltare tale storia. Ecco come gliela raccontai. Credo, o signora; non vi sarà disaggradevole se anche a voi la narro.