La vite, l'acquavite e la vita dell'operaio
Questo testo è stato riletto e controllato. |
Serie 6a LA SCIENZA DEL POPOLO Vol. 34.
Raccolta di letture scientifiche popolari fatte in Italia
BIBLIOTECA A C.i 25 IL VOLUME
LA VITE, L’ACQUAVITE
E
LA VITA DELL’OPERAIO
PEL
Prof. LIVI
LETTURA
fatta nella gran sala dell’università di siena.
la sera del 14 gennaio 1868
MILANO
E. TREVES & C., Editori della BIBLIOTECA UTILE
1868.
La riproduzione e la traduzione dello letture pubblicate nella Scienza del Popolo, sono riservate dalla ditta
E. TREVES A C., EDITORI |
Milano. Tip. Internazionale.
Al Chiariss. Professore Cavaliere
LUIGI MUSSINI
Amico carissimo.
Sono qui che studio da mezz’ora a trovar parola per dedicarti questa lettura su La vite, l’acquavite e la vita dell’operaio. Tu artista tutto spirituale ed amante della pura bellezza, tu assegnato e parco nelle cose del vivere, e nemico d’ogni esagerazione, che hai che fare con l’acquavite, i briachi, le bettole, le carceri, gli spedali, e simili miserie tutt’altro che artistiche?
Io intendo: l’arte vera, che non tira a solleticare i sensi, ma a educar l’intelletto, può entrare anche in queste miserie della vita, ed entrarvi da pari sua. Anzi ora mi sovviene, che visitando giorni sono il tuo studio, vidi incominciato a sbozzare da te, che hai sempre intendimenti civili ne’ tuoi lavori, il padre Spartano che insegna al figlio l’astinenza con lo spettacolo d’uno schiavo briaco. Qui, come vedi, molto mi verrebbe da dire per te e l’arte tua; e la materia per la lettera sarebbe trovata: ma questo non è il luogo.
Ti lascio dunque, pregandoti ad accettare, qualunque sia, questa Lezione, come segno di quell'alta stima e amicizia sincera ch’ebbi sempre per te. Me felice, se queste mie povere parole potranno raggiungere in parte lo scopo civile, che tu hai voluto dare alla tua tela, e che la tela, ne son sicuro, fra le tue mani raggiungerà.
Voglimi bene, e credimi cordialmente
Siena, 24 luglio 1868.
il tuo affez. Carlo Livi. |
LA VITE, L'ACQUAVITE
E
LA VITA DELL’OPERAIO
1. Le lezioni popolari alla China. 2. E in Europa. 3. Ragione di questa lezione. 4. Quante cose belle sono nel vino. 5. E quante brutte: la bettola. 6. Un briaco. 7. Un po’ di morale sul bere e il ribere
8. Che amabile pianta, la vite. 9. Bacco, chi sia. 10. Nuovamente della vite; donde venne; ove prosperi. 11. Quanti ingredienti sono nel vino: quant’acqua. 12. Quant’alcool. 13. Nel vino c’è anche da mangiare. 14. Acidi, eteri, ecc. 15. L’uomo può stare senza vino? Secondo... Ma chi lavora dee bere. 16. A modo però. 17. Oh se l’uomo sapesse fare a modo sempre! 18. Un pazzo che si dà la morte. 49. Quanti savi che fanno altrettanto.
20. E il veleno sta nell’acquavite. 21. Chi la trovò e la battezzò. 22. Consumo dell’acquavite. 23. In Italia meno male. 24. Ma in Inghilterra! 25. In Svezia, in Germania! 56. In Francia! son cose da piangere. 27. Sono cifre da far paura. 28. Di nuovo un briaco. 29. Stragi dell’acquavite in America. 30. In Inghilterra. 31. In Svezia. 32. L’acquavite ingrassa i manicomi, le carceri e i cimiteri. 33. Rende i corpi più cagionevoli alle malattie. 34. E gli guasta fino in terza e quarta generazione.
35.Rimedi Le Società di temperanza. 36. Meglio, istruire, educare il popolo. 37. L’Italia però ha ben altro male: l’infingardaggine. 38. E abbisogna disciplina L’esercito gliela può dare. 39. La campagna del 1867. Viva l’esercito!
40 Ma parliamo di cose liete. 41. Un grazioso palazzo in Siena. 42. Quattro vecchi che vi abitano. 43. Chi sono questi vecchi. 44. E gli ospiti loro. 45. Come ridurre i quattro a otto, dieci e venti. 46. Si dice male delle doti. 47. Una vera festa popolare.
Gentili Donne e Signori, Operai carissimi.
1. Vi è nessuno fra voi che sia stato mai nella China?.. No? Non importa. Saprete però che in cotesto paese, lontano le migliaia di miglia da noi, v’è una civiltà antichissima, raffinata, ma tutta a modo di quella gente strana e curiosa. Molte delle nostre costumanze civili e galanterie, che noi crediamo nate e cresciute modernamente in Europa, compresi i bigliettini da visita, le strenne pel capo d’anno, la carta moneta, e simili graziosità, i Chinesi, le hanno da migliaia e migliaia d’anni. Fino le lezioni popolari, questa istituzione benefica spuntata fra noi si può dire da ieri, nella China fiorisce e fruttifica chi sa da quanto tempo. Così almeno ho trovato in un certo libro di missionari gesuiti, stampato l’anno scorso a Malines, libro però del quale sulla mia coscienza non oserei garantirvi la veracità in tutto e per tutto.
Or bene, negli anni di Confucio non so bene quanti, in una certa città della China, chiamata Sien-fù, vi fu un professore d’igiene, il quale una bella sera salì in bigoncia per parlar lì sul muso a quegli eterni e ostinatissimi fumatori d’oppio, nientemeno che contro l’oppio medesimo. Ci voleva grande coraggio, grande arte, grande eloquenza, per andare a toccare così sul vivo cotesta gente, in un’abitudine così inveterata, per convertirla a far a meno dell'oppio, il compagno, l’amico, il conforto, la consolazione di ogni buon Chinese. Difatti, per quanto il professore s’ingegnasse di prendergli a modo e verso, un romorio sordo di disapprovazione dai quattro canti della sala accompagnava sul primo lui che diceva. Ma poi tanto fu il garbo del dire e la forza del ragionamento, tanta la scossa che ne ebbero le menti degli uditori, a sentire specialmente i danni e le conseguenze funeste dell’oppio, che applaudirono furiosamente il professore, e giurarono, giurarono solennemente li nella sala, che mai più si sarebbero accostati alle labbra la fetida pipa. Da quel giorno infatti, in quella città, vedere un fumatore d’oppio era caso raro: i più avviziati fumavano in segreto; e se per disgrazia in qualche strada segreta, o uscendo da qualche caffè, si imbattevano nel professore, con la pipa in bocca, erano lesti a nasconderla dietro le reni, o sotto le vestimenta.
2. In Europa certe conversioni non sono da sognarsi neppure. L’anno scorso, se vi rammentate, in una di queste sere, mi permisi dire, così fra parentesi, qualche cosa sul sigaro. Ebbene, il giorno dopo, tutta Siena fumava come il giorno avanti: gli amici miei, gli stessi miei colleghi, gli stessi scolari venivano ingenuamente a fumarmi sul viso. Io espongo la cosa nella sua cruda realtà: non crediate che io provassi un gran disinganno. Sapeva bene che io non mi trovava a Sien-fù. Fra popoli civili le conversioni e i miracoli non sono più di moda.
3. Stasera vorrei parlare del vino, o per dir meglio, dell’abuso del vino. Io mi so bene (e il cielo mi guardi dal credere in contrario), io mi so bene che in questa sala non vi ha nessuno che in qualità di sacerdote o di sacerdotessa sacrifichi a Bacco. Ma questo invece giova tanto più allo scopo mio, inquantochè se io parlassi a de’ bevitori (mi perdonino per un momento l’ipotesi queste gentili Signore), le mie parole rimarrebbero lettera morta, qui fra queste quattro pareti, sotterrate sotto gli sbadigli fetidi di alcool di un uditorio avvinazzato e sonnecchiante. Invece parlando a persone costumate e temperate e civili, è sperabile, anzi io lo chiedo, che uscite di qui spezzino il pane delle mie parole a chi più ne ha bisogno; e con i consigli autorevoli, con i conforti benevoli, co’ severi rimproveri, con gli opportuni richiami, con quell’affetto, con quella sagacia, che si fa tutto a tutti, spargano nella classe povera e rozza una larga semenza di bene, che dalla mia parola sola e nuda non sarebbe certo da attendersi. In così lieta speranza io più volentieri incomincio.
4. Il vino! quante cose belle e liete ci rammenta il vino. Le mense non si rallegrano, se non scende a brillare ne’ bicchieri e ne’ calici; l’ospitalità non è contenta, se non comincia dal mescervi quest’umore giocondo; si adonta se voi gliel rifiutate; l’amicizia non sa fare a meno di offrirvelo: al cozzo de’ bicchieri, i brindisi e gli augurii pare che prendano slancio più vivo: fino a’ banchetti ufficiali, imperatori, re, ministri e cavalieri non si riguardano dall’accompagnare i viva con lo spumante Sciampagna. Al vino domanda l’operaio la forza, il vecchio la vigoria, il convalescente la salute, il poeta l’estro, l’oratore la parola, il soldato il coraggio, l’innamorato la ebbrezza dell’amore... Il vino è letizia, è verità, è vita..! degno veramente che la favola antica lo dicesse portato da un Nume: degno che la società moderna se ne faccia anima e sangue. Chi oserebbe dir male del vino?
5. Eppure, o Signori, lasciamo i ditirambi e le dorate fantasie. Chi mi vuol seguire, mi segua: mi segua in una delle buie e luride vie delle città: entriamo in quella bettola, che ci si annunzia già per quel lume fioco sulla porta, per quelle fioche grida che ci vengono confuse all’orecchio. Coraggio, apriamo l’impannata!..
Dio mio! In che bolgia infernale noi siamo caduti! Quai faccie, quai gesti, quali bestemmie! Sono esseri umani questi raccolti ad un desco, in mezzo a questo fumo, a quest’aria che soffoca? è questo il linguaggio della ragione? è questa la creatura fatta a similitudine di Dio?
6. Osservate quella sconcia figura dalle guance infocate che si è levata su barcollando, e stringendo nella mano convulsa un bicchiere: egli si gorgoglia nella strozza parole che voi non intendete, e che i compagni accolgono con risa oscene. Eccolo, egli si avanza vacillante con le chiome arruffate, le vesti scomposte, e con le pugna minacciose verso di noi. Ah! egli è caduto: e cadendo ha percosso miseramente del capo sul pavimento: e dalla bocca escono sangue e vino e bestemmie: ma egli è senza parole e senza sensi!
Malgrado la faccia orribilmente sfigurata, voi lo riconoscete. Egli è quell’operaio un tempo così onesto, così educato, così dedito alla famiglia e al lavoro. Egli è in preda da pochi mesi alla viziosa abitudine; e quanto è mutato da quello sposo e padre amoroso, il quale non conosceva altro che casa e lavoro, che si riduceva la sera co’ figli a novellare o leggere qualche buon libro, che gli avvezzava ad amare Dio la patria ed il prossimo, che avea un pensiero per ogni bisogno della famiglia, un cuore per ogni generoso sentire, una mano soccorrevole per ogni sventura! Egli si lasciò vincere dalla miserabile passione del bere; ed eccolo fatto sordo alle voci della coscienza e del dovere; eccolo dimentico della propria dignità d’uomo, di cittadino, d’operaio; eccolo ridotto alla pari d’un bruto, nel brago d’ogni sozzura.
7. Signori, come mai nel fondo d’un bicchiere ponno trovarsi tanti mali? Come mai in una bevanda così gradita e cercata dall’universale si annida tanto veleno? Perchè la Provvidenza volle unificare in un medesimo umore una sorgente di salute e di godimenti, ed una sorgente di malanni e di miserie? Lasciamo stare la Provvidenza, noi che vi crediamo; e diciamo che il Creatore non poteva trattare con maggiore dignità la creatura umana, quando, postala tra il bene e il male, le diè un’anima libera, perchè tra l’uno e l’altro, da sè medesima, con le proprie forze si decidesse. Ora ad ogni passo della vita, possiamo dire, l’uomo si trova in questo bivio; ed ogni passo può essere vittoria della ragione sull’istinto, od una sconfitta. Fino a mensa l’istinto e la ragione vi accompagnano: bevete due dita di bicchiere, voi la date vinta alla ragione, fate da uomo, e da uom virtuoso: vuotatelo tutto, l’istinto vi ha le mani ne’ capelli, e può trascinarvi dove ha trascinato l’uomo della bettola.
8. Ma lasciamo la morale. Noi che per ora grazie al Cielo, non ci siamo venduti a Bacco, torniamo a passeggiare tranquillamente, securamente all’ombra della vite, per dimandarle le ragioni del bene e dei male che essa arreca all’uomo. Qui, dove coll’occhio possiamo salutare festanti e superbi di vigne gli ameni colli del Chianti, di Montepulciano e di Montalcino, vorremmo, se ci riescisse, non esser severi con questa pianta simpatica, e col suo amabilissimo umore: ma la verità innanzi a tutto.
9. Io non starò qui a farvi la presentazione di Bacco, un nume bastardo di Giove, assai buffo, assai brutto, assai sconcio, sempre briaco, che si fa sempre accompagnare da un osceno corteggio di Baccanti, di Sileni, di Satiri. Piuttosto vi dirò, come sia mente di taluni filosofi, che la greca sapienza nel Bacco della favola volesse appunto personificare un qualche valent’uomo che portasse fra noi dall’Oriente, insieme con altre culture utili, quella della vite; o sivvero avesse in animo di rappresentare simbolicamente la potenza multiforme nascosta in seno della natura vegetale, potenza che sveglia e addormenta, fortifica e indebolisce, vivifica e uccide. Ma io di queste cose non me ne intendo, e tiro avanti.
10. La vite, questa pianta che fa lieti e ricchi i nostri colli ed i nostri piani, che adombra di pampini e conforta co’grappoli, ne’ graziosi pergolati, i nostri orti, che si arrampica scherzevolmente a rivestire le pareti delle case villereccie fin sopra i tetti, questa pianta insomma che oggi ci si è fatta così dimestica e amica, non è nata fra noi: essa ci venne, chi sa quanti mai anni sono, dall’Asia meridionale. Le sue specie sono innumerabili: e i vignaioli distinguono benissimo dall’esame solo de’ tralci e delle foglie, le varietà coltivate nel loro paese. Il clima, ed insieme col clima la natura del terreno, l’esposizione, e l’inclinazione, il modo di cultura valgono a dare all'umor della vite qualità diverse.
Non crediate però che la vite vegeti da per tutto: pianta gentile ed allegra, ama i paesi dove il Cielo sorride alla terra, i climi temperati. Portate a piantare un magliolo del vostro Brolio o di Montepulciano fra le nebbie d’Inghilterra o di Russia, anche in terreno fertilissimo, vi muore d’uggia e d’inedia: portatelo in Egitto, se arriva a farvi l’uva, quel sole cocente ve la secca prima che maturi. L’Italia, come il paese più sorriso dal sole, dovrebbe essere la terra della vite, del vino per eccellenza: ma la nostra infingardaggine, la nostra ignoranza manda in malora questa come tante altre benedizioni della natura. Una delle tante ragioni, anche questa, per cui non andiamo a Roma!
11. Il frutto della vite è l’uva: il succo dell’uva fermentata è il vino. Voi non avete mai pensato, miei cari popolani, voi non sapete forse, quanti ingredienti ci sieno nel vino: ve lo dirò io.
In primis vi dirò cosa che vi farà inarcare le ciglia: nel vino c’è ordinariamente quasi l’80 al 90 per 100 d’acqua. (Per carità non dite nulla a’ vinai, perchè non prendano troppo coraggio a imitare, colla loro arte, la natura). L’acqua era necessaria, altrimenti il vino non avrebbe potuto essere bevanda dissetante: era necessaria per tenere a freno un altro elemento tutto fuoco e spirito, che si trova nel vino, l’alcool, o acquavite, come voi solete chiamarlo.
12. L’alcool è quello che nel ber vino vi conforta lo stomaco, vi eccita i nervi, vi scioglie la lingua, vi rallegra la fantasia; ma badate, è anche quello che vi ubriaca, vi inebetisce e vi uccide: è il brillante e il tiranno della compagnia; salta dal comico al serio con un’ agilità maravigliosa: non ve ne fidate. I vini che danno più alla testa ne contengono di più, vale a dire dal 16 al 24 per 100, come la Marsala, la Madera, la Malaga, l’Oporto: altri dal 16 al 10, come il Frontignano e i vini del Reno; e da 10 al 6 come il Tokai d’Ungheria, il Bordò, e i vini del Piemonte.
13. Nel vino non c’è da bere solamente, ma anche da mangiare; vale a dire contiene anche delle sostanze nutrienti, quali sono lo zucchero, la destrina, delle materie che i chimici chiamano albuminoidi, molti sali. Ecco perchè il buon vino nutre e sostenta; ecco perchè il vecchio lo chiama il suo latte; ecco perchè con un buon bicchiere di vino sullo stomaco, l’operaio può far a meno anche di qualche libbra di pane.
14. Il vino contiene anche degli acidi, e tra questi rammenterò l’acido carbonico, che lo rende spumante, e fa saltare in aria i tappi alle bottiglie di Sciampagna e di Montalcino: l’acido tannico, e tartrico, e malico, i quali, quando non soverchino in quantità, fanno i vini amaricanti, tonici, austeri, quelli che, sebbene non grati tanto al palato, arrivano, come voi dite, allo stomaco, e lo refocillano, lo consolano: tali sarebbero il Bordò ed il Barbera. Contiene finalmente, il vino, degli eteri, e tra questi rammenterò l’etere enantico, che è quello che serve a dargli grazia e squisitezza, e lo rende, siccome il celebre vino del Reno, di facilissima digestione.
15. Ora che noi ci siamo fatti venire l’acquerugiola in bocca col solo mentovare i nomi dei vini più celebri, domanderò una cosa. È egli necessario bever vino? può vivere l'uomo senza di esso, vivere (s’intende) sano e robusto? Per uno fra voi che veda accennare che sì, ne veggo cento accennarmi di no. Chi mi accenna di sì, non macchiò mai l’acqua del sangue amabile dell'uve: ma badate bene, cotesti non potranno essere che qualche signore, di vita molto misurata e tranquilla, qualche signorina delicata e nervosa: mi par di vederli. E costoro hanno ragione. Essi non sono costretti, come voi popolani, a faticare di braccia e di schiena: essi si trovano ogni giorno la tavola imbandita di buone vivande: poco movimento nella macchina, dunque (perdonatemi il paragone volgare) poco bisogno di unger le rote: per essi il dio Bacco è come un nume senza religione. Ma per voi, che faticando molto di muscoli, consumate molta materia muscolare e molta forza, e perciò avete bisogno quasi continuo di reintegrare l'una e l’altra, non sarà certamente l’Igiene che vorrà venire a negarvi la soddisfazione, il diritto, di metter il fiasco paesano sulle vostre mense.
16. Bevete dunque, o miei buoni operai: ma bevete con la vostra moglie, co’ vostri figli, in mezzo al giulivo e innocente conversare della famiglia, ed il vino vi si convertirà in sangue, in forza, in allegria. Bevete, bevete poco, pochissimo se così piace alla vostra borsa, ma bevete del buono. E quando non potete beverne tutti i giorni, bevetelo un giorno sì e un giorno no, ma bevetelo che sia figlio legittimo della vite, non un intruglio del vinaio o del droghiere; e così potrete dire davvero d’aver bevuto alla vostra salute.
17. Fortunato l’uomo se sapesse usare a modo e verso de’ doni della Provvidenza! Felice l’umanità, se ad ogni libertà sapesse e volesse assegnare un confine, e dire: io non lo passerò. Quanti meno mali corporei, quanti meno mali morali contristerebbero la faccia della terra! Credetelo a me, che ne ho fatta e ne vo’ facendo dolorosa esperienza tutto di, due terzi dei mali, per non dire di più, l’uomo se li lavora con le proprie mani: egli è brigante a sè medesimo.
18. Saranno due o tre anni, in una locanda di Castellammare, là sul deliziosissimo golfo di Napoli, una bella mattina di aprile, fu trovato morto nella propria camera, col capo tagliato, in un lago di sangue, un forestiere che vi abitava da una ventina di mesi. Nessuno era mai entrato nella sua camera, perchè egli la custodiva gelosamente: solamente quella mattina v’entrarono, dopo aver atterrata la porta a forza di scure; e videro una cosa più spaventevole anche del cadavere medesimo, videro una piccola mannaia nascosa dietro una tenda, e insanguinata pur essa. Quell’infelice aveva impiegato in segreto què’ venti mesi a metterla su, da sè medesimo; e quella mattina da sè medesimo vi si era decapitato.
19. Signori, egli era un povero pazzo! Ma quanti, che si stimano gran savi, chiusi alla ragione, come il povero pazzo nella propria camera, non si preparano da loro medesimi una morte più dolorosa e atroce di quella, o un vivere che è peggio che morte? Il vino che dovrebb’essere ristoro e forza e salute della gente che lavora, per quanti non diviene fonte di mali, di miserie e di morte?
20. È tempo che noi ci facciamo ora a considerare gli effetti dell’abuso di esso. Il male e il bene, voi lo sapete, lo fa, non il vino per sè medesimo, ma l’alcool che egli contiene, quello che voi chiamate acquavite, quello che noi dicemmo il brillante e il tiranno della compagnia. È con l’alcool più o meno allungato con acqua, mascherato ora con quell’essenza, ora con quell’altra, che si compone quella lunga e brutta tregenda che porta il nome di liquori. Sicché tutto quello che sarò per dire, riferitelo non al vino solamente, ma all’acquavite più specialmente e ai liquori.
21. Pare che i Chinesi e gl’Indiani conoscessero il modo di preparare bevande spiritose con la distillazione del vino, e la fermentazione de’ cereali: ma furono gli Arabi che dopo il mille si fecero maestri di questa preparazione, e imposero a questo liquore il nome di alcool, che vuol dire in loro lingua il sottilissimo: e fu due secoli dopo, cioè nel secolo XIII, che un celebre medico francese, Arnaldo da Villanova, un armeggione che area fino profetato la fine del mondo per l’anno 1335, lo mise in gran voga, come un medicamento miracoloso, buono fino a ringiovanire e prolungare la vita; e lo chiamò enfaticamente, con due parole latine, aqua vitae, cioè acqua di vita. (I Francesi sono famosi per gettar là de’ paroloni, che poi fanno il giro dei mondo, rimanendo disgraziatamente allo stato di paroloni, o facendo a rovescio di quel che la parola significherebbe). Fatto sta che la famosa acquavite è divenuta oggi acqua-di-morte. Balzac, un altro francese, ma d’altra tempra che Arnaldo da Villanova, uno scrittore che dipinge con la penna, ha detto benissimo: — Voi vi spaventate del cholera: ma l’acquavite è ben altro flagello.
22. Prima di passare a dirvi la strage che fa dell’umana famiglia questo flagello, contentatevi che io brevemente vi dimostri le forze che e’ mette in campo in Europa e in America. Voi non sapete il nemico tremendo che ha di fronte oggi la società nostra. Prendiamo i paesi che l’acquavite tiene più soggetti alla sua tirannia.
23. L’Italia, fortunatamente, in questa rassegna ha da arrossire meno di tutte le altre nazioni civili, non mica per virtù d’animo maggiore che noi abbiamo, ma in grazia di questo clima che ci riscalda. Difatti noi non abbiamo bisogno, come gli abitanti del settentrione, di far tanto fuoco dentro il nostro corpo, per riparare al freddo esterno: noi, tanto meno faticatori di que’ popoli lassù, abbiamo meno bisogno di eccitare i nervi e i muscoli co’ bicchierini: sicché la sobrietà per noi è una virtù che ci costa poco e nulla: non ce ne tenghiamo! A chi costa davvero è agli Inglesi, a’ Tedeschi, agli Svedesi, agli Americani del Nord: ma appunto perchè costa molto, pochi l’hanno. State a sentire cifre che vi faranno raccapricciare.
24. L’Inghilterra si mette in corpo, anno per anno solamente, da 180 milioni di franchi in liquori: Londra sola per 75 milioni, Manchester per 25, e Glascovia, città men popolosa, ma situata più verso il freddo, 30 milioni. Il popolo Inglese, diceva Owen nel 1853, ha speso in liquori, dal principio del secolo presente, il doppio del denaro che occorrerebbe per pagare il debito nazionale dell’Inghilterra, che era in allora di circa 19 mila milioni. Non si può negare che il popolo i suoi denari non gli spenda giustificati.
25. La Svezia, paese di poco più di 3 milioni, ma più freddo assai dell’Inghilterra, si fabbrica annualmente per 200 milioni di litri d’acquavite, e se la beve quasi tutta per sè, che è quanto dire quasi 70 litri a testa. Lo Zollverein, ossia tutta la Confederazione germanica, si fabbrica e si consuma anno per anno nientemeno che 340 milioni di quarti d’acquavite. Il Belgio fate conto che si tracanna ogni anno per 36 milioni di litri di gin o spirito di ginepro. Nel 1863 vi erano distretti nel Belgio, e vi sono tuttora (Liegi, Hainaut, Namur), che avevano una bettola per ogni 40 abitanti.
26. La Francia produce ogni anno per 150 milioni di litri di acquavite. Dal 1825 al 54 Parigi ha più che raddoppiato nel consumo de’ liquori: nel 54 se ne beveva, per grazia di Dio, per più di 15 milioni di litri, vale a dire più di 14 litri a testa. Giulio Simon ha contato che Amiens, città popolata il doppio di Siena, si mandi nello stomaco ogni giorno 80 mila bicchierini di acquavite, cioè un valore di 4 mila franchi, ossia per 3 mila chilogrammi e mezzo di carne, ossia per 12 mila chilogrammi di pane: ossia gli operai d’una sola città si levano di tasca annualmente la piccolezza di 1,400,000 franchi per il bel lusso di puzzare d’acquavite, e imbestiarsi per tutta la vita...!
27. Questi conti vi fanno ridere, ma fanno pur troppo anche piangere. Venite meco ora, colla statistica alla mano, a vedere quali effetti, tutta cotesta gran massa di liquori spiritosi, che potrebbe formare un fiume da irrigare tutta la nostra Maremma, quali effetti produca sulla salute, sulla prosperità e moralità pubblica. Saranno altre cifre da farvi rabbrividire. Riguardando coteste cifre, che crescono e crescono ogni anno, ci prende uno sgomento indefinito; e non si sa davvero dove condurrà mai la povera umanità questa passione del bere.
Noi Italiani, siccome dissi, per ora siamo ben lontani da cotesta alluvione tremenda: ma anche fra noi ogni anno che passa segna disgraziatamente un numero maggiore di botti e botticelii di acquavite, di rum, che entrano nel nostro bel paese; mentre lasciamo andare via i nostri vini migliori. Bel giudizio! Ragione anche questa, per cui non andiamo a Roma.
Ma vediamo dapprima i guasti che il vino, l’acquavite, i liquori tutti inducono nell’organismo d’un individuo, e poi vedremo il male che fanno, al gran corpo sociale in sè e nella sua discendenza.
28. Signori, nulla vi ha di più dolente e di più schifoso d’un uomo, il quale si studia tutto giorno di soffocare in sè la scintilla divina, di sperdere la ragione, la coscienza, la libertà, tutti i doni della provvidenza, tutti i cari diletti del vivere, per il miserabile gusto di farsi attraversare l’ugola e l’esofago da un bicchierino d’acquavite. Dianzi noi ci siamo messi a contemplare lo spettacolo miserando d’un ubbriaco. Accompagnamolo fino a casa, se il cuore vi regge. Vediamo che cosa sarà domani di questa macchina fradicia e barcollante, che vomita zozza e bestemmie; che cosa sarà fra un anno, fra cinque, fra dieci.
Vedete, alla povera moglie che gli va incontro sollecita e trepidante non sa dire che vituperi: a’ poveri figli che lo stanno a guardare in un canto muti impauriti, lancia male parole ed imprecazioni. Essi piangono, la moglie piange; egli solo ride oscenamente, grida, minaccia, gesticola, mette tutta la casa sossopra: vede con l’occhio allucinato mille figure or allegre or paurose: nell’orecchio ha sempre il rumore dell’orgia di poco fa: quel povero cervello è in un turbinìo tremendo di fantasmi. Finalmente il sonno: lo prende: ma quello non è il sonno benefico, ristoratore dell’operaio buono e contento; che va a letto ringraziando il cielo di avergli dato anche per quel giorno pane e lavoro; che ha avuto le carezze e i baci de’ figli; che cerca nel talamo gioie benedette e benedetti riposi, e trova le une e gli altri. Quel sonno è qualche cosa che confina con la morte. Da quel talamo egli non si leverà domani agile, forte e sereno; no. Alla dimane la mente è intenebrata e confusa; l’occhio fosco e torbido; le membra pese e cascanti. Sonnolento, accigliato, torvo, iracondo, eruttando fuor dalla gola suoni che qui non devono aver nome, lanciate altre maledizioni alla moglie ed a’ figli, ed altre bestemmie alla Provvidenza, esce fuori di casa e si avvia al lavoro.
Ma qual lavoro da una mente così sconvolta, da braccia fiacche e tremolanti! E quel lavoro più scarso e stentato è tanto pane di meno, è tanto maggior dolore e miseria per la povera famiglia. Non per questo, quando il turpe vizio è preso, si arresta sulla mala via: il bere diviene un bisogno imperioso, una passione irresistibile: l’abisso chiama l’abisso. Che diverrà mai questo coppo avvelenato d’acquavite, d’assenzio, di zozza? quest’anima che si condanna ciecamente all’abbrutimento e al suicidio? Io non ve lo dirò, chè il cuore mi rifugge: andate a dimandarlo agli spedali, ai manicomi, alle carceri. Ecco le cifre tremende.
29. Negli Stati Uniti d’America, in quel popolo che noi credevamo così felice, ed a modo e verso in ogni cosa (perchè non abbiate a credere che le repubbliche serenissime non s’imbriachino e si abbrutiscano alla pari degli stati felicissimi monarchici), sentite i bei frutti che in dieci anni hanno portato le bevande spiritose. Io lo dirò con le parole, anzi con le cifre eloquenti, di un dotto benemerito Americano, Eduardo Everest.
In dieci anni l’acquavite, in America,
ha imposto alla nazione una spesa di 3 miliardi,
ha ucciso 300 mila persone,
ha mandato 100 mila bambini alle case di ricovero,
ha mandato non meno di 150 mila persone in prigione,
ha fatto impazzare non meno di mille individui,
ha fatto commettere non meno di 1500 assassinii,
ha cagionato non meno di 2 mila suicidi,
ha spinto all’incendio e alla distruzione di 50 milioni,
ha fatto 200 mila vedove, e 1 milione di orfani.
30. In Inghilterra si calcola che 50 mila persone muoiano all’anno per effetto di stravizzi nel bere: in Germania 40 mila, in Russia 10 mila. In Inghilterra due terzi della poveraglia sarebbero avanzo di bettole. A Edimburgo di 27 mila poveri, 20 mila sono o sono stati briaconi. A Glascovia tutti i sabati che Dio manda in terra, 10 mila persone, vanno a letto o cascano per le strade, conce da’ liquori; e ogni anno vi si arrestano per il vizio dell’ubbriachezza circa 20 mila donne.
Queste due città della Scozia, ricchissime e cultissime, si son date una sfida: han voluto sapere chi dava in un anno più briaconi. Ebbene Edimburgo, che fa 166 mila abitanti, ha dato 9318 casi d’ubbriachezza (vale a dire) un briaco per 18 persone: Glascovia con 333,607 abitanti, 26 mila briachi: cioè 1 ogni 13. Rallegriamoci con Glascovia. Sempre in Inghilterra, nella prigione di Parkunt, su 500 carcerati 400 si sarebbero dati all’ubbriachezza fino da giovinetti. Il cappellano della prigione di Northampton nell’anno 1852 giunse a sapere, che di 300 malviventi rinchiusi nel primo semestre,
62 aveano speso per settimana in bevande spiritose da 3 a 12 franchi;
15 da 12 franchi a 21;
10 se gli erano bruciati tutti in liquori.
Sempre in Inghilterra, nell’anno 1862, 95 mila persone, che è quanto dire 260 al giorno, venivano prese per il petto dai policeman, e portate in tribunale come briache: 63 mila erano riconosciute colpevoli, e di queste, 56 mila venivano semplicemente ammonite, 7 mila circa condannate alla prigione.
31. In Svezia il numero de’ delitti e de’ suicidii si è veduto crescere in ragione diretta del consumo de’ liquori. Ora in quel paese è calcolato che ogni 30 morti, fra i 25 e i 50 anni, v’è un suicida.
32. Numerosa caterva di gente è anche quella che dalla bettola si avvia ai manicomii. Quel dotto Americano che vi ho rammentato dianzi, Eduardo Everest, mette a mille almeno nel corso di dieci anni quelli degli Stati Uniti d’America che affogarono ne’ liquori il bene dell’intelletto, e lo persero. Io credo che vi sia sbaglio d’un zero per lo meno: cioè, invece di mille, sieno dieci mila, che è quanto dire mille per anno. Difatti il D. Rusch ammette lo stravizio del bere, come causa, in un terzo circa de’ malati ricoverati nel manicomio di Pensilvania: ma statistiche recentissime fatte in America danno anche una proporzione più forte. In Inghilterra il Prichard e l’Esquirol attribuiscono a questa medesima cagione la metà de’ casi di pazzia. E lo stesso afferma il D. Macnisch per l’Irlanda e la Svezia. La Russia poi porterebbe il vanto su tutti i paesi; l’acquavite vi darebbe a’ manicomi l’ottanta per cento; e nel grande asilo di Pietroburgo in 997 pazzi accolti in dieci anni 837 sarebbero stati consumatori di liquori. Anche per la Germania i dottori Bergmann e Jacobi danno cifre piuttosto considerabili. In Francia si crede che l'abuso delle bevande spiritose dia il venti per cento di pazzi.
Aveva ragione dunque quel gran chimico del Liebig a dire, che l'alcool «per il suo potere sui nervi è come una cambiale tratta sulla salute dell’operaio, che gli convien sempre riavvallare, senza mezzi per saldarla. Egli consuma così il suo capitale in luogo de’ frutti, e di qui inevitabilmente il fallimento del suo corpo.»
Miseria dunque, delitto, suicidio, pazzia, abbrutimento, ecco come tante orribili scene di questa orgia sociale, la quale comincia ridendo, cantando, saltellando, al suono de’ bicchieri nella bettola, e va a finire rapidamente, passando traverso le carceri e gli spedali, fra i pianti, le bestemmie e gli alti guai, non compianta, inonorata, maledetta anche, nella polvere d’un cimitero. Quale spreco di salute, di forza, di ricchezza, di prosperità, di vita!... Quale scempio della povera umanità! E tutto questo perchè? Ripetiamolo: per farsi traversar l’ugola e l’esofago da un bicchierino d’acquavite. 33. Nè il male si ferma qui. Se viene una pestilenza, i primi ad esserne colpiti, i più fieramente colpiti, i più soggetti a morire sono gli ubbriaconi. In Francia, tutte le volte che è stata visitata dal cholera, si videro sempre i bevitori solenni perire i primi sotto quel flagello tremendo, e morire per mancanza di reazione vitale. Qui in Siena, nell’estate decorsa, quando a noi medici una certa domenica mattina, venne voglia sull’ora delle nove, così per non saper che fare, d’inventare una certa malattia che si fa chiamare il cholera, (sì, signori, noi non curiamo le malattie, nè mettiamo la vita per salvare la vita altrui; noi le inventiamo solamente per certi grassi guadagni che poi ci dividiamo), ripeto quando ci venne voglia d’inventare il cholera, la prima vittima, se vi rammentate, fu quell’infelice che si chiamava Talento, ed al quale pur troppo talentava il bere! Anche fuori di epidemie, nelle malattie ordinarie, non solamente gli ubbriaconi, ma i forti bevitori anche, sono quelli che più stentamente e più difficilmente guariscono, che hanno convalescenze più lunghe, e più forte bisogno d’una cura tonica e ricostituente.
34. A me medesimo incresce andarmi fra tali e tante miserie ravvolgendo. Ma qui non finisce la storia dolorosa de’ guai che va tirando addosso all’umana famiglia lo smoderato uso de’ liquori alcoolici. Tremendo veleno, fra quanti mai se ne conoscono, è cotesto, che avvelena non solo la vita del bevitore, ma anche quella de’ figli, e de’ figli de’ figli suoi, e gli punisce, innocenti, delle colpe paterne.
Voi non lo crederete forse, ma la statistica lo rafferma ogni giorno più: da questi corpi fracidi e marci di zozza, già vecchi a 40 anni, nascono povere creature fradicie e marcie pur esse, che lasciano questo mondo molto per tempo; o sivvero nascono e vengono su figli imbecilli, stupidi, idioti, epilettici, che vanno al manicomio, finché la paralisi generale, o qualche altro malore, non gli conduce al sepolcro: o sivvero nascono e vengono su figli con inclinazioni perverse, vagabondi, crapuloni, bestemmiatori, sanguinari, la cui fine è nelle carceri e negli ergastoli. Questo degradamento fisico e morale si è veduto talvolta continuare fino alla quarta generazione: ma allora il misero rampollo di questa stirpe miserrima, un bambino esile, malaticcio, ebete, idiota, non arriva allo stato adulto, e così quella stirpe si estingue!
35. Signori. La società ha di che paventare di questo nemico che si è assiso nel mezzo di essa: essa ha il diritto, anzi il dovere di difendersi. I filantropi, gli economisti, i medici igienisti, i parlamenti, i governi, v’hanno pensato e ci pensano seriamente. Le società così dette di temperanza hanno fatto qualche cosa, ma non tutto. Nate nel 1813 agli Stati Uniti, portate in Europa nel 28, esse si diffusero ne’ paesi più bevitori, vale a dire in Inghilterra e in Germania: ma i frutti non corrisposero interamente alle speranze e allo zelo degli uomini di buona volontà. La temperanza è madre di molte virtù: ma è anche figlia di certe altre: e quando queste non si son fatte vive ancora, la temperanza non può crearsi da sè medesima: sarebbe poco meno che un miracolo.
36. Per me non vi è davvero che un rimedio solo, istruire, educare il popolo. Io ritorno a quello che vi dissi anco nella prima lezione. Noi siam fatti d’anima e di corpo: il corpo ha istinti, bisogni che si partono dalla materia che lo rimpasta: l’anima ha sentimenti, affetti, idee. Ma chiudete al popolo ogni spiraglio di luce intellettuale, tenetelo a capofitto nell’ignoranza e nella superstizione, o sivvero dategli ad intendere che non c’è provvidenza, nè Dio, nè anima, nè vita futura, che tutto quaggiù è materia e forza, forza e materia, condannatelo ad esercitare brutalmente i suoi muscoli, senza levare mai gli occhi ai cielo, è naturale, egli non sentirà che i bisogni della vita corporea, egli non cercherà che il loro soddisfacimento, senza guardare se dietro ad esso venga la miseria, l’abbrutimento, il delitto, la malattia, la morte.
37. Fortunatamente in Italia, malgrado l’ignoranza che le passate signorie lasciarono in eredità al nostro popolo, malgrado que’ famosi milioni di analfabeti, (non 17 veh!) non abbiamo a lamentare lo strazio e il grande scempio fisico e morale che l’acquavite fa altrove nella famiglia sociale. A noi un altro veleno ci serpe nelle vene e nelle midolle, che tutti più o meno abbiamo quanti siamo in questo benedetto stivale, anzi tanto più quanto più giù discendiamo; veleno che tutti dobbiamo sforzarci a levarci di dosso; che minaccia la nostra vita politica, economica ed intellettuale; che non ci fa andare a Roma, nè fa venire Roma a noi; che ci riporta in casa lo straniero a dettarci la, legge; voglio dire l’ignavia e l’infingardaggine nostra.
38. E contro questo male, il quale non può andar via a forza di esorcismi e di parole e di lezioni serali, tanto è radicato e universale, l’Italia non ha oramai che un rimedio, la disciplina. Ma per ora questa disciplina l’Italia non può impararla che in una scuola, sola: l’esercito.
Signori, Lo dirò francamente: io sono innamorato di questa splendida e gigante personalità, che si chiama l’esercito. Perdonatemi dunque questo sfogo amoroso; a taluno potrà forse parere fuor di luogo; e sia pure: ma agli innamorati (e talune di queste signore potrebbero dirmelo), non si domanda la logica ne’ loro discorsi. E poi non stiamo qui conversando tra noi familiarmente? A che badare dunque alle regole rettoriche?
Signori. In nove anni da che si lavora a rifare o a disfare questa povera Italia, una sola istituzione ha fatto sempre il suo dovere; una sola istituzione è uscita con onore, nella prospera come nell’avversa fortuna, l’esercito. Custoza e Lissa furono due grandi infortunii nazionali. Ma quale esercito al mondo potè vincere sempre? nessuno. E quanti eserciti poterono, anche non vincendo, dire: l’onore è salvo? pochissimi.
39. Ma l’esercito nostro nel disgraziatissimo anno decorso ha trovato modo di rifarsi di quel che avea perduto nel fatale 66. Senza che nessuno gliel comandasse, col senso squisito del bene, potè scoprire un altro campo ad esercitarvi il proprio valore, e vi si gettò con ardimento magnanimo. Nessun esercito tentò mai al mondo una campagna simile: il nostro la tentò, e vinse. Io parlo del cholera che afflisse l’Italia meridionale e la Sicilia. Là l’esercito intraprese la guerra nuova contro la peste e la miseria, e peggiore d’ogni peste e miseria, la superstizione e l’egoismo feroce. Posato il fucile, il nostro soldato andò per le case in traccia di malati; li trovò senz’anima viva d’intorno; li consolò, li assistè, raccomandò loro l’anima, gli portò morti al sepolcro. Per le vie, per i campi trovò gente affamata, e spartì con essi il suo pane e il suo soldo giornaliero, e ne ebbe benedizioni, ma più spesso maledizioni, perchè quel pane fu creduto avvelenato. In quelle orgie di sangue, ordite dal sospetto e dal pregiudizio popolare, e fomentate dalla malignità retriva, il soldato entrò di mezzo, afferrò le mani fratricide, gridando pace, pace: assalito egli medesimo, si difese, ma non ferì. In quella diserzione universale egli prese il posto del farmacista, del fornaio, del prete, fino del sindaco e del giudice, fino del becchino, che tutti fuggirono. Egli solo rimase, e quando, affranto delle fatiche, si sentì prendere dal crampo fatale, strinse la mano al suo capitano e al suo colonnello, e con la serenità del giusto, con la rassegnazione d’un martire, se ne morì. Queste sono le grandi vittorie che ci compensano delle ultime vergogne e sventure nostre; vittorie che valgono bene i prodigi de’ fucili Chassepot, vantati da un disgraziato generale della nazione che si fa chiamare la grande: vittorie che allietano e inorgogliscono, non un popolo solo, ma l’umanità tutta quanta, perchè l’umanità ci guadagna in dignità, in valore ed in perfezione.
Signori, io vado a bello studio ricercando tai fatti, perchè in questi giorni in cui la grande malata sta peggio, in questi giorni, pur troppo dolorosi, giova il riconsolarsi di qualche buona speranza1.
E badate, parlando d’esercito Italiano, io parlo del popolo italiano, del vero popolo, che suda pe’ campi, nelle officine, sui libri, e non della oziosa ciurma briaca. Che se nel popolo non ci fosse stoffa, l’esercito non sarebbe; voglio dire, se nel popolo nostro non fossero germi di virtù, come vorrebbero i nemici d’Italia, neppure queste splendide geste si vedrebbero. Omai si vede chiaro, alla grande malata non manca per guarire che una cosa sola: la mano ardita, forte e sapiente d’un medico, o d’un chirurgo meglio, che la levi dalle mani de’ ciarlatani e de’ barattieri. Noi l’avevamo questo medico, ed ora è polve in una tomba di Santena. Oh se la morte non ce l’avesse rapito!
40. Ad ogni modo ho fede nel bene e nel progresso della mia patria e della umanità. Ritorniamo al nostro soggetto. Dianzi io vi ho contristato pur troppo con lo spettro dell’ubbriachezza: ci siam veduti sfilare dinanzi a migliaia, barili e bariglioni di acquavite, e dietro ad essi una schiera interminata di gente, barcollante, sconvolta, immelensita, lurida nelle vesti che si avviava o alle carceri, o ai manicomi, o agli spedali, o ai cimiteri. Povera gente! Possibile che a spettacolo sì triste ed umiliante non abbiamo da contrapporre un’immagine di bene, che ne riconsoli e ne conforti di buona speranza per le sorti avvenire del nostro popolo?
41. Sì, miei cari e buoni operai. Il pensiero mi vola in questo momento ad un modesto, ma lindo e grazioso palazzetto, dalle verdi persiane, situato in una parte remota e tranquilla di Siena. Guarda con la sua fronte a ponente, ed ha dinanzi un vasto giardino, il più vasto credo di quanti ne abbia questa città. Di là l'occhio spazia da presso su’deliziosi colli di Marciano, di Belcaro, di Monistero, festanti di ville, di vigne e d’oliveti, a cui tengono dietro più lontano le selvose pendici della Montagnola, e nell’ultimo orizzonte le ardue cime di Gerfalco e di Montieri.
A queste scene vaghissime di natura si mescolano mirabili aspetti dell’arte senese; poiché volgendo l’occhio a destra, tu vedi drizzarsi sopra i tetti e campeggiare nell’azzurro del cielo, candide e leggiere le cuspidi e le guglie del vicino Duomo, e a cavaliere di Fontebranda su ripido scoglio, ardito e severo il tempio di S. Domenico; e più indietro il dilettoso passeggio della Lizza, così caro anche all’anima fiera del tragico Astigiano.
42. Entrando dentro in cotesto asilo quieto ed ameno, dove l’aria e la luce inonda da tutte le parti, si rimane piacevolmente colpiti dalla nettezza, dall’ordine, e dall’aria di confortevole comodità che da per tutto vi spira. Ma assai più rallegra e consola vedervi venire innanzi quattro buoni vecchi, dalla ciera rubiconda, sereni d’aspetto, lindi nelle vesti, che vi conducono, lieti e orgogliosi di quella loro dimora così bella, così comoda, a visitarne ogni sua parte: tanto comoda e bella che, appena entrativi, durarono molti giorni a piangere di consolazione e di contento, tanto riposato e dolce vivere loro imprometteva.
Ma chi sono cotesti vecchi fortunati? E chi aperse loro quest’asilo di pace?
43. Chi sono cotesti vecchi? Essi sono gli onorati veterani del lavoro, uomini che non si macchiarono mai la fronte di colpa veruna, cittadini che rispettarono la legge, e non andarono mai a tirar sassate ne’ vetri, operai infaticabili, intelligenti, cui non si attaccò mai alle mani la roba del padrone, mariti fedeli e padri esemplari che non conobbero mai giuoco, nè bestemmie, nè bettole, nè bordelli, nè tumulti di piazza. Io m’inchino a questi nobili tipi di virtù popolana che, a traverso le difficoltà de’ tempi e le tentazioni della povertà, seppero mantenere puro il cuore e la mano.
44. E chi aperse loro questo invidiabile asilo di pace2? La Compagnia della Misericordia. A’ non toscani, a’ subalpini specialmente, riesce facile ridere e motteggiare dietro a questa società d’uomini che vanno fuori avvolti in cappe nere, ed a viso coperto, per il gusto unico (si crede) di portar malati allo spedale e morti al camposanto. E anch’io vorrei vedere levate quelle cappe nere, vorrei vedere volti scoperti, vorrei insomma tolte di mezzo queste apparenze di medio evo, di cui in Toscana, e in Siena specialmente, ve n’ha assai, e che fanno ridere e malignare la gente grossa che non sa vedere oltre la buccia3. Ma quando ripenso che in tempo di peste o di cholera, sotto quelle cappe nere, e il popolano e il ricco, e l’uomo divoto e il giovane galante, e il liberale e quello no, facevano a gara a portare i cholerosi al Lazzaretto e i cadaveri al cimitero, mentre altrove gli uomini scappano o imbestiano, o si giunge appena con grandi dispendii a improvvisare dei monatti sudici e feroci; quando ripenso che, spogliati delle cappe nere, si mettevano a servire ed assistere per le case coloro che, non volevano abbandonare il tetto paterno; quando ripenso che coteste cappe nere mi corrono di fitto inverno alla campagna, sotto la pioggia e la neve, di giorno e di notte, a raccogliere chiunque cade colpito da qualche grave disgrazia o malore; quando ripenso ai molti malati poveri, sovvenuti da coteste cappe nere di medicinali, di ristorativi, di biancherie, d’assistenti: quando ripenso che a cotesti visi coperti è venuta in mente l’idea altamente civile, santamente democratica, d’aprire un ricovero all’operaio vecchio, impotente ed onesto, oh allora dimentico il taglio e il colore della veste, per benedire di gran cuore all’opera di carità; allora m’avvedo che si può progredire benissimo sulla via della civiltà, camminando sull’orme de’ nostri padri, avendo l’accorgimento soltanto di gettare via via nella fiumana del tempo certe vesti e forme logore e cadenti che non s’adattano più co’ nostri tempi.
Sì l’istituzione d’un asilo pe’ vecchi operai impotenti è senza forse la più umana, la più bella, fra quante ne potesse pensare la civiltà odierna. Essa corona quello stupendo edificio di beneficenze cittadine, a cui ogni generazione che passa nella gentile città vostra, o Senesi, vuol portare una pietra; stupendo edificio, il quale attende dal senno e dalla carità vostra ulteriore aggrandimento e perfezione.
45. Ma que’ quattro vecchi, vi dico, mi stanno fitti nel pensiero e nel cuore. E penso anche a’ molti onesti, impotenti, bisognosi alla pari di loro, che non seggono a quella gaia mensa, che non riposano in que’ candidi e morbidi letti, che non respirano l’aere vivificante della carità cittadina. Ma, o non si potrebbe trovar modo che i quattro diventassero gli otto, i dieci, i venti? Io intendo, Roma non si fece in un giorno (E neanche in un giorno ci si va). Simili istituzioni non vengono su come i funghi: ma hanno bisogno del tempo per radicare e maturare. Pure vediamo, se dalla conversazione di questa sera uscisse qualche cosa di praticamente buono e giovevole alla onorata povertà e alla veneranda canizie dell’operaio impotente. Mi parrebbe questo, non un allontanarsi dal tema, ma un completarlo. Ben misera ambizione sarebbe in vero la mia, se a queste parole mie non sapessi dare altro scopo che quello di solleticarvi per un’ora le orecchie.
Ecco, mi viene un’idea. Badate, io non intendo di darvela come buona: intendo di metterla alla discrezione del senno e della prudenza di chi in queste materie ne può sapere tanto più di me. Dio voglia che io dica bene.
46. È un fatto, che Siena da capo all’anno conferisce alle fanciulle da marito un’infinità di doti. Ora la istituzione de’sussidi dotali ha fatto, come tant’altre, il suo tempo: e questo non lo dico io, lo scrivono i più sapienti economisti, e lo ripete oggi il buon senso popolare: e un buon fiorentino del trecento, quando gli Italiani pensavano col loro cervello e parlavano con la loro lingua, non con cervello e lingua di fuoravia, scriveva che di dota mai si fece bene niuno. Nate le doti in tempi, in cui il lavoro non si credeva altissimo dovere morale, pernio del vivere sociale e molla della felicità vera, gettate là nel popolo povero come un lecco, dice il Tommaseo, ad invogliare di nozze e fermare gli animi vagabondi, oggi le doti non corrispondono più agli intendimenti benevoli de’ pii testatori. Oggi anzi, s’e’ tornassero a rivivere, vi chiederebbero essi medesimi di disfare il loro testamento, di rivolgere ad altro scopo la loro beneficenza.
Difatti, come credere oggi che poche monete date per giuoco di sorte, o per giuoco di raccomandazioni e di raggiri, che non bastano spesso a coprire le spese delle nozze e del letto nuziale, possan valere a felicitare un connubio, ad allontanare un pericolo, a premiare o garantire la virtù? Voi non lo crederete certamente. Voi crederete piuttosto che quelle poche monete, come suole, fra il popolo, de’ guadagni fortuiti, se ne vadano sovente in fronzoli e gozzoviglie. Voi crederete piuttosto che quelle poche monete vagheggiate così dalla speranza ne’ popolani cervelli, valgano piuttosto a sottrarre uno stimolo al lavoro, e a fomentare quella ignavia ed infingardaggine che è, com’io vi diceva, il male nostro peggiore; voi crederete piuttosto che dote vera a popolana vergine, dote non consumabile mai e perenne ne’ figli, sia la sua virtù e l’operosità sua.
Ora se tutto questo è vero, com’è verissimo, perchè non si ha il coraggio di abbandonare la vecchia usanza? perchè il medio evo non cede anche qui alle ragioni de’ tempi? Le vostre figlie, operai, credo rinunzieranno volentieri al magro gusto di farsi imborsare, quando sia data loro speranza che quel denaro possa andare a consolare gli ultimi anni del loro genitore cadente. Ad esse poi posso insegnare un mezzo sicuro per ottenere quel tanto che il capriccio e la sorte potrebbe loro negare o concedere: veglino un’ora di più la sera sul lavoro, e in un anno la dote è ricuperata.
47. Permettetemi che io vi rappresenti una scena, e finisco davvero. Siamo nel giorno della festa nazionale, la domenica prima di giugno. Ma perchè la festa sia vera, mi figuro lo straniero fuori d’Italia (ahi quanto è duro ripetere oggi questa parola!); mi figuro aperte tutte le strade che menano a Roma, meno le scorciatoie; mi figuro sanate o prossime a risanare le piaghe della grande malata. La campana della Torre chiama i cittadini ad una solennità civile; la piazza è gremita di gente; il palazzo è imbandierato a festa; le bande suonano allegramente! Nella gran sala che ricorda lo splendido passato della città vostra, o Sanesi, il magistrato del Comune ha raccolto il fiore della cittadinanza. È il Comune, a cui stanno le sapienti e generose iniziative, che oggi si sostituisce sapientemente a un fanciullo bendato, per premiare egli medesimo, non chi comincia, ma chi ha finito il compito suo, per premiare ciò che di premio può essere più degno su questa terra, una vita spesa nel lavoro, nella temperanza, nella virtù.
Eccoli questi buoni vecchi! Eccoli questi valorosi avanzi della fatica! Una salva di applausi gli accoglie: il sindaco ne dice i nomi od i meriti, e a nome della città gli dichiara degni di premio. I loro nomi poi vengono banditi solennemente dai veroni del palagio; e il popolo esulta festosamente, perchè in que’ vecchi vede premiato sè stesso. Essi discendono in piazza, e accompagnati dal sindaco e dal fiore de’ cittadini, in mezzo alla folla plaudente, vengono condotti all’asilo.
Entrate fidenti, o buoni vecchi. Voi che lavoraste nel corso lunghissimo degli anni vostri, venite a riposarvi. Voi che non beveste mai acquavite, venite, sedetevi a questa mensa, dove l’umore della vite scende a confortare lo stomaco e a giocondare la mente. Voi che non bestemmiaste mai o rinnegaste la provvidenza, nè offendeste mai le leggi umane e divine, godetevi in pace la vostra vecchiaia, benedetta dagli uomini e dal cielo.
Addio.
Direttori della Scienza del Popolo | Editori: |
P. GRISPIGNI, L. TREVELLINI, | E. TREVES & C. |
in firenze. | in milano. |
Note
- ↑ Quando fu detta questa lezione, a’ primi dell’inverno, pur troppo il presente era triste, tristissimo si offriva il futuro. La parola Roma ricorre sovente nella lezione: e in quelle parole amare che mi escirono dalla bocca, prego il lettore a sceverar bene sempre le ruffianerie ratazziane, le ladronerie della canaglia, per le quali non c’è marchio che valga, da’ forti intendimenti e le gesta virtuose d’una gioventù degnissima di migliore fortuna.
- ↑ Fu aperto l’anno 1866, e vi furono ospitati di primo quattro vecchi. A questi giorni moriva un’egregia donna, una certa Assunta Mulinacci, stata serva in case signorili, la quale lasciò tutto il suo al nuovo Asilo: erano circa 3000 lire, accumulate a forza di risparmi, di legali e di lasciti de’ vecchi padroni. Quando dal popolo escono simili esempi, è lecito sperar bene dell’avvenire di questa istituzione.
- ↑ Del medio evo, è verissimo, ce n’è assai in Toscana, ne' monumenti, nelle istituzioni, nelle costumanze: chi non lo vede? E ciò per una ragione storica molto semplice; chè la Toscana ebbe un medio evo ricchissimo e splendidissimo: essa arrivò allora, come a’ tempi etruschi, a farsi grande e adulta in arti, lettere e industrie, mentre altre parli dormigliavano ancora o non si spoltrivano. Oggi ne porta i beni ed i mali: e il guaio questo di nascere troppo presto: i venuti dopo si sentono leggieri di medio evo, perchè allora non si fecero vivi. Bella forza! Ma la Toscana custodendo gelosamente il buono antico, ha mostrato sempre voglia di spogliarsi del cattivo: lo mostrò fin da mezzo il secolo scorso, quando prima assai dell’89, senza chieder permesso alla Francia, senza prender la tromba e far rumore, osava affermare e metter in pratica i così detti principii dell’89: lo mostrò a’nostri giorni, dopo Villafranca, quando difese sè medesima per cominciar a fare l’Italia.