Decadi

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Curiosità e paura Vecchio walzer

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Decadi.

1850.

Quanto era bello il lago di Como sulla fine di quel settembre ardente! Non ancora i battelli a vapore, che lo solcano ora senza posa, interrompevano la placidità misteriosa delle acque verdognole e dei folti giardini incornicianti le rive col molle fluttuare di rami, simili in vaghezza alle chiome disciolte di una bella addormentata.

Un'aria di sogno avevano pure le ville, emergenti appena dal roseo velo delle azalee e dal profumato intreccio dei gelsomini; con quei nomi di donna scritti in fronte, alcuni scintillanti del lampo corrusco di una gemma, altri soavi e teneri come un fiorellino di bosco, altri ancora inquietanti come un enigma, o battaglieri come una sfida, o voluttuosi come una carezza. Così recente era l'eco delle folli [p. 199 modifica] passioni annidate tra quelle ville che tutta l’aria ne sembrava impregnata; e più assai che nella antica città della Tracia s’avrebbe aspettato di udir quivi cori nascosti di Efebi e di più o meno giovani ninfe cantanti estasiati il verso di Euripide:

Re dei celesti e dei mortali, Amore!

Pensavano a questo i due giovani adagiati in uno stretto sandolino, che essi guidavano con negligenza a rari colpi di remo, assaporando la sottile ebbrezza dell’abbandono sulle acque?... L’amore tiene un grande posto in una esistenza di vent’anni. A questo dunque, e a cento altre cose; o più probabilmente ancora a nessuna. La divina giovinezza canta, scroscia, ride, si espande; uccello, fonte, raggio e fiore tutt’insieme, senza sapere, senza cercare il perchè.

E il sandolino girava lento la punta di Torno lasciandosi a destra la romantica Pliniana, movendo diritto verso Nesso selvaggia appollaiata sulla rupe in attitudine di falco. Altre barche salivano da Como, scendevano dalla Tremezzina, in quel pomeriggio delizioso d’autunno, tra il profumo dei giardini, sotto l’arco dei terrazzi che sporgenti sul lago [p. 200 modifica] offrivano alla brezza del vespero incombente la fioritura anche più capziosa delle figure femminili appoggiate alle balaustre; varie e suggestive nelle loro vesti dai colori teneri di cielo, di mare, di rose; con quel movimento delle braccia arrotondate sul parapetto e delle testine sfumate sul fondo dell’aria con morbidezze inattese di pastello; qualche ventaglio agitato in alto, e dei trilli, degli scoppi di risa gioconde, delle note di cembalo uscenti dalle finestre....

A un certo punto il sandolino rallentò più ancora, sfiorando quasi il muro di cinta di una villetta nascosta sotto larghi ciuffi di caprifoglio.

— Sempre?... — chiese sorridendo uno dei giovani.

— Bisogna pure passare il tempo, — rispose l’altro colla stessa intonazione gioconda.

Colui che rispose era il proprietario del sandolino, Giulio Sorisi, studente. Il suo amico, Paolo Cattaneo, non soggiunse nulla accontentandosi di seguire cogli occhi la manovra del sandolino intorno alla villa.

— Pare che non vi sia alcuno, — disse Giulio, — giriamo Balbianello. A Lenno troveremo certamente le signorine Cairati, o quando mai ci lustreremo la vista colla Ghita di [p. 201 modifica] Azzate. «Questa o quella per me pari sono....» con quel che segue.

— Chi ci impedisce di raggiungere Bellagio?

— Forza di remi allora.

— Sarei contento di vedere, passando, l’inglesina della Cadenabbia. Non mi faccio nessuna illusione, ma poichè mi accontento di vederla!

— Non bisogna — sentenziò Giulio Sorisi — chiederci troppo spesso se ciò che ci piace è, oppure non è, illusione. Se ci piace basta.

— Sì, — sospirò il Cattaneo, — finchè abbiamo vent’anni.

— Sempre avremo vent’anni.

— ?...

Giulio Sorisi, bello, forte, audace, si rizzò quant’era alto lasciando sgocciolare il remo che descrisse nell’aria un semicerchio lucente.

— Ne dubiti? Io sono sicuro. Quando tu sappia evitare la malattia, il dolore, la povertà — morirai — questo non lo nego, ma fino all’ultimo giorno ti sarà dato godere di te stesso e della vita. Gli anni non contano allora.

— Egli è che non sta in noi evitare ciò che tu dici. [p. 202 modifica]

— Si può sempre quando si vuole.

— Frasi.

— No, volontà decisa.

— Non viviamo soli.

— Chi ce lo impedisce?

— Dobbiamo pure amare.

— Non ne vedo la necessità.

— Non ami tu?

— Niente affatto. Sono amato ed è fin troppo. Anche di questo si potrebbe far senza.

— Con tali massime si distrugge la società.

— Baie! Per tenere insieme la compagine umana bastano certi riguardi ed alcune abitudini.

— Sei crudele.

— Al contrario facilito il modo di essere felici.

— Incominciando con una rinunzia.

— Sì, ma per anteporvi una conquista. Non mi vorrai sostenere che l’amore valga la libertà.

— L’amore è l’istinto più prepotente della natura.

— E la libertà? E la libertà? Che me ne farei dell’amore senza libertà?

— Che me ne farei della libertà senza amore?

— La libertà è condizione prima ed [p. 203 modifica] invariabile di felicità; quando siamo liberi, l’amore può andare e venire a suo ed a nostro piacere.

— Quello non è vero amore. Capirai tu stesso un giorno che l’amore più di ogni altro sentimento anela ad una estrinsecazione che lo renda immortale. Sarà il giorno in cui amerai davvero.

— Io e quel giorno non ci incontreremo mai!

La baldanzosa sfida tagliò l’aria, rimbalzando d’onda in onda, fino a lambire i boschi delle due rive. Sui terrazzi delle ville si continuava a ridere ed a scherzare; gli abiti femminili impallidivano nel crepuscolo, mentre si stendevano dai monti fasci di velo violacei e la prima falce della luna saliva sull’orizzonte.

1860.

Milano era in festa.

Da porta Venezia al Duomo, il Corso, tutto pavesato e imbandierato spiegava le sue ritorte di nastro multicolore tra una folla ebbra delle recenti conquiste; folla di ricchi e di poveri accomunati da una medesima gioia, fieri di una vittoria che aveva ridato ad ognuno una patria; quel popolo milanese [p. 204 modifica] semplice, ridanciano, un po’ sensuale, che rialzandosi dal lungo servaggio della dominazione straniera riprendeva tutti i suoi diritti al tripudio ed alle feste, in quel primo carnevale di liberi scioglieva finalmente senza ritegni l’inno tradizionale al sabato grasso.

Non era più il caso dei grossi testoni in forma di zucca simboleggianti l’aborrito tedesco, maschera preferita negli anni decorsi a guisa di protesta e di sfogo; e neppure l’ingegnoso ravvicinamento di tre mascherine una vestita di bianco, l’altra di rosso, l’altra di verde per far balenare almeno un istante agli occhi degli oppressi la cara bandiera italiana, in barba alla polizia che non ci capiva nulla. Il carnevale del 1860 affacciandosi alla nuova vita aveva la spontaneità e l’irruenza dei giovani; voleva il piacere per il piacere.

I balconi sgargianti di drappi, carichi di donne ravvolte in bianchi veli per proteggere il volto dai coriandoli, accoglievano pure gruppi di ufficialetti francesi le cui uniformi rosse e oro spiccavano da lontano additandoli alla simpatia di tutto un popolo; neppure i «chasseurs de Vincennes» per quanto la loro divisa di un cupo azzurro filettata di giallo fosse meno brillante di quella dei compagni, sfuggivano alle ricerche patriotticamente [p. 205 modifica] appassionate delle giovani milanesi; nè si può credere che i milanesi, per quanto sentissero fortemente il loro debito di riconoscenza verso gli alleati, se ne stessero inerti accanto alle loro belle. Ne seguiva un intreccio vivacissimo di botte e di risposte, di assalti e di difese, di combinazioni strategiche rimpiattate dietro il getto abbondantissimo dei coriandoli fra i quali volavano fiori, aranci, dolci, e bigliettini amorosi.

Carri di maschere percorrevano il corso seguiti da veicoli d’ogni genere; carrozze signorili, vetturette da nolo, carrettelle, biroccini, volantini, musiche intonate e non intonate, pagliacci, uomini vestiti da donna, trombette, tamburelli, zuffoli; e una marea ondeggiante di popolo e di cappelli schiacciati, di pastrani bianchi dal gesso dei coriandoli, ma tutti con una voglia matta di divertirsi, di far chiasso, di pazzarellare.

Uno dei carri dove il brio appariva più indiavolato non era di vaste proporzioni e conteneva appena otto maschere, ma di tale sobria eleganza nel costume e straordinaria ricchezza nel getto di fiori e di dolci che tutti gli occhi erano rivolti a loro. Quando per la terza volta riapparvero sul corso, con una provvista sempre rinnovata di gettoni che [p. 206 modifica] andavano a cadere con traiettoria sicura ai piedi delle più belle, cento manine inguantate applaudivano, cento cuoricini si sarebbero gettati dai balconi per cadere fra quelle braccia.

— Affemia, — disse Giulio Sorisi che si trovava fra gli otto, — ecco una bella giornata!

— Ho le braccia rotte a furia di gettare roba, — soggiunse un altro della compagnia, — temo che questa sera la Gigia non sarà contenta di me.

— Io invece, — replicò il Sorisi, — non mi sento affatto stanco; ed è fortuna perchè dopo pranzo devo mettermi in giubba per andare alla Scala, poi ho tre feste da ballo dove mi aspettano....

— E la cena con Mimì? — saltò su un terzo.

— Giusto, la dimenticavo. Ci faremo stare anche quella.

— Ma perchè non è venuto con noi il Cattaneo? — chiese qualcuno.

Rispose Giulio Sorisi, dopo di essersi chinato a raccogliere un mazzolino di violette lanciatogli da un balcone:

— Non mi parlate di Cattaneo.

— Ma perchè?

— Perchè è un asino. Figuratevi che in pieno carnevale gli è venuta la funebre idea di [p. 207 modifica] fidanzarsi sul serio. Sul serio, domando io! come se non ci fosse la quaresima per questa sorta di esecuzioni.

— Oh! povero Cattaneo! — esclamarono in coro.

— Versiamo una lagrima sulla sua fine prematura.

Così concluse Giulio Sorisi afferrando una bottiglia di «champagne» e versandone in un calice che sollevò poi galantemente nella direzione d’onde gli era venuto il mazzolino.

1870.

Giulio Sorisi stava ritto sulla prua del bastimento che fa la traversata da Calais a Dover. Era ancora un bell’uomo Giulio Sorisi. La quarantina arrotondandogli le membra aveva rispettato i suoi capelli raccolti sulle tempie con molta cura e vergini di nevi moleste.

Lo sguardo vivace, i baffi rialzati, la carnagione fresca attestavano tutt’insieme di forze sapientemente distribuite e di una costante ricerca del piacere. Vestiva con eleganza sicura di sè un soprabito di mezza stagione nella tonalità delicata del color lavanda, aperto [p. 208 modifica] sopra un panciotto che non faceva una grinza e sotto il quale cadevano in perfetto a piombo i pantaloni di fina stoffa inglese. Una delle sue mani scompariva nel guanto grigio di pelle di daino; coll’altra, nuda e scintillante dei raggi di un magnifico brillante infilato al dito mignolo, sosteneva un piccolo canocchiale da tasca appuntato sulle bianche scogliere dell’Inghilterra che già si intravedevano lontanamente.

La giornata di giugno palpitava diafana e luminosa; la Manica era tranquilla come un lago. Quasi tutti i passeggieri stavano all’aperto respirando la sottile brezza marina che appena gonfiava i leggeri tessuti degli abiti femminili.

— E noi che abbiamo sempre temuto la traversata della Manica come una delle più pericolose! — esclamò una voce ingenua che partiva da una famiglia di italiani.

Giulio Sorisi dissimulò, sotto una lieve smorfia, la compassione un po’ altezzosa che gli ispiravano quei viaggiatori novellini. Egli andava a Londra ogni due o tre anni almeno, fermandosi un mese a Parigi, avendo già visitate le principali città d’Europa. Discretamente provvisto di beni di fortuna, l’eredità di uno zio era venuta ad accrescere il suo [p. 209 modifica] patrimonio permettendogli il lusso dei frequenti viaggi.

Come egli aveva argomentato fin dalla prima giovinezza, un saggio metodo di vita conservava mirabilmente la sua salute. In ogni cosa — diceva egli con Voltaire — nulla di troppo nè di troppo poco. Bere fresco all’estate, caldo quando soffia la tramontana; digerire, dormire, prendersi qualche spasso e infischiarsi di tutto il resto.

Questa amabile filosofia trapelava da tutta la persona di Giulio Sorisi, ed aveva ragione di qualsiasi altro sentimento o impressione, sempre fuggevole in lui, sempre sottoposta ad una fredda disamina del proprio tornaconto.

Quando il piroscafo fe’ sosta allo scoglio di Dover, Giulio Sorisi, da uomo pratico, attraversò rapidamente il pontile e raggiunse il treno pronto per Londra, stazione Charing-Cross. Fu uno dei primi ad arrivare e si scelse il posto migliore sui larghi cuscini di stoffa fiorata. Ma l’aspettativa, al solito, fu un po’ lunga e per ingannare il tempo egli si pose a rileggere una lettera di Paolo Cattaneo, che aveva ricevuto a Parigi, proprio all’istante di partire. Diceva la lettera: [p. 210 modifica]

«Caro amico,

«Non ho potuto disimpegnare prima la commissione che tu mi lasciasti di rendere alla signora*** il ritratto e la corrispondenza. Mia moglie, dando alla luce il quarto figliuolo, si è messa in fine di vita; per una intera settimana perdetti la testa assolutamente fra il dolore e le brighe di tale angosciosa situazione, non trovando subito la nutrice per il neonato; e come non fossero bastati i guai, la compagnia di Assicurazioni sulla quale mi ero intestato per lasciare in qualche agiatezza la mia famiglia (cogli impegni della giornata) fallì, defraudandomi di cinque a sei mila lire già anticipate. Altre piccole seccature ebbi ancora, delle quali non ti parlo per non annoiarti troppo. Infine, appena mi fu possibile, mi recai col prezioso deposito dalla signora *** e ti tranquillizzo subito sui dubbii che tu avevi di scene e di seccature, perchè la signora si mostrò, non solo rassegnata, ma quasi in placida aspettativa di questo scioglimento. Tutto è andato nel migliore dei modi; sei proprio un uomo fortunato. Continua dunque di buon animo il tuo viaggio, sta allegro e divertiti, tu che lo puoi fare». [p. 211 modifica]

— Quel povero Cattaneo! — pensò Giulio Sorisi, sdraiandosi sui cuscini. — Asino di un Cattaneo, è andato a pescarsene dei fastidi!

Involontariamente Giulio Sorisi pensò pure che lui non aveva nè moglie, nè figli, nè assicurazioni sulla vita e tirò un respiro profondo che gli diede una sensazione piacevolissima.

E quella faccenda della signora *** terminata così bene?... Giulio Sorisi era solo nel treno. Balzò in piedi con slancio giovanile fregandosi le mani, cantarellando un’arietta che aveva udito poche sere prima a un «café chantant».

1880.

Un tepido salotto in via della Spiga, a Milano. I mobili di mogano, come si usavano qualche anno prima; le poltrone ampie e comode coperte di velluto verdone: un tappeto rosso e nero fissato coi chiodi intorno al pavimento; una lampada a gaz protetta da un gonnellino di seta; un franklin acceso; in un angolo il tavolinetto per il thè; un pianoforte; libri e giornali in giro; sopra una mensola un mazzo di narcisi e di garofani. [p. 212 modifica]

La padrona di casa deve essere stata una gran bella donna; lo è ancora, un poco, e vorrebbe parerlo molto, acconciata con arte in una vestaglia color avorio stretta qua e là da nodi di velluto violetto; i capelli giudiziosamente conservati in una tinta di mezzo fra il castano e il bruno che si potrebbe anche credere naturale; un leggerissimo strato di minio sulle guancie, impercettibile, quasi un rossore rimasto di tempi lontani. Vedova di due mariti riconosciuti, e di qualche altro meno noto, la signora sta compiendo l’abile manovra marinaresca di un burchiello avariato che vuole finalmente mettersi a riposo in porto. Non frequenta più nè teatri nè balli; dichiara di amare molto la sua casa e gli amici fedeli, rappresentati per il momento da un amico unico ma prezioso: Giulio Sorisi.

Egli entra nel salotto col passo sicuro dell’abitudine e della confidenza. La cameriera in anticamera lo ha aiutato a togliersi il soprabito ed egli stira le braccia per mettere a posto i polsini.

— Un freddo cane!

— Buona sera, Giulio.

— Buona sera, Clotilde.

Sorisi si avvicina alla signora e le stringe la mano lunga e morbida, accuratissima, con [p. 213 modifica] qualche riflesso madraperlaceo di bianco di Spagna non bene cancellato.

— Vuol nevicare certamente, — ripete Giulio.

Una poltrona lo attende, anzi «la» poltrona; la sua; quella a cui ogni sera Clotilde sprimaccia il guancialino e raddrizza il merletto. Egli vi si stende senza guardarla, ma il movimento, solitamente vivace, gli è rotto a mezzo da uno stiramento delle reni che gli fa torcere la bocca.

— Che è stato? — si informa Clotilde con premura.

— Non so.... forse un reuma. Diavolo di un freddo, quest’anno, non finisce mai. Ah! ma qui si sta bene. Belli quei garofani.

— Nevvero?

La signora si alza, leva un garofano dal vaso e lo infila all’occhiello di Giulio, indugiando, sorridente, facendogli il solletico lungo la guancia.

Egli si stende morbidamente sulla poltrona, socchiudendo gli occhi come un gattone che fa le fusa. La signora si rannicchia un istante sul bracciuolo e gli mormora, col braccio intorno al collo:

— Giuggio, Giuggio, Giuggio mio....

Poi, lesta, si svincola, quasi temendo di soggiacere a una grande tentazione; e questo [p. 214 modifica] scherzo civettuolo stuzzica piacevolmente il cinquantenne don Giovanni che la minaccia col dito, sorridendo.

— Sai, — dice la signora rimettendosi al suo posto, — che nessuno de’ tuoi amici si conserva così bene come te? Ho visto ieri Fabietti.... una pancia! E Rossi, quale precoce decadenza! Non so nulla di Cattaneo; che ne è avvenuto?

— Mah! Una volta aveva i bambini da condurre a scuola; ora che i bimbi sono alti come lui, c’è la signorina da portare a passeggio; se poi per avventura lo si incontra senza o l’una o l’altra delle suddette appendici, si può stare sicuri che ha un involtino in mano; uno di quegli involtini misteriosi legati con una fettuccia color di rosa che è il distintivo borghese dei padri di famiglia. Ed ha sempre fretta. Sono in tanti ad aspettarlo.... mah! Non tutti a questo mondo sanno comporre la propria vita con giudizio.

La signora assente con un grazioso movimento del capo; prendendo da un astuccio d’argento a portata di mano una sigaretta, la accende, e la offre all’amico; indi ne prepara un’altra per sè, e per alcuni istanti scompaiono entrambi fra le nuvolette profumate.

Forse pensano anche alla stessa cosa: alla [p. 215 modifica] dolcezza sibaritica della loro unione che dura da parecchi anni senza fastidi e senza scosse. Ella gli offre tutte le sere una sigaretta e una tazza di thè. Egli un dono ragionevole due volte l’anno: a Natale e a Santa Clotilde. Più dieci lire a Marietta, la cameriera.

Il fumo del tabacco fino riempie la stanza, misto all’odore sensuale dei narcisi; la fiamma di ceppo scoppietta allegramente nel franklin; all’ombra della gonnellina di seta della lucerna la vestaglia color avorio della signora ha una morbidezza suggestiva, sì che i larghi nodi di velluto violetto sembrano farfalle addormentate nel calice di una ninféa....

Giulio Sorisi, adagio adagio per non ridestare la fitta nelle reni, allunga i piedi sotto il tavolino e li appoggia sulla pelle di mongolia che vi sta sotto. Un tepore piacevolissimo è nell’aria del salottino chiuso.

1890.

L’opera di Wagner ha richiamato al teatro della Scala il più eletto pubblico milanese.

Il grande musicista tedesco non si discute neanche più. Per intelligenza o per snobismo le signore sono le prime a mostrarsene [p. 216 modifica] entusiasmate e dietro a loro, nei palchetti, dove già esse presero posto in attitudini pensose di Brunechildi e di Walkirie, gli uomini, ritti, attenti, silenziosi, gravi, hanno l’aria di sacerdoti presenzianti a un sacro rito.

La sinfonia di apertura è già incominciata, quando un vecchio signore, entrando da una porticina laterale alla platea, trova tutte le sedie occupate, tutti gli occhi rivolti sulla scena e il padiglione di tutte le orecchie così intensamente teso in un sacro raccoglimento che egli non osa farsi avanti, e mormora tra sè: Diavolo! Questo non è più un teatro, è una chiesa.

Nella impossibilità di farsi avanti, e per non turbare la religiosa attenzione del pubblico, il vecchio signore si rassegna a stare in piedi fino alla fine dell’atto; posizione piuttosto incomoda perchè non ha nessun punto d’appoggio, e perchè dalla porticina laterale gli piomba sulla nuca una corrente d’aria fredda. Un po’ per questo, un po’ perchè da tanti anni non è più venuto alla Scala, il vecchio signore, che non si trova a suo agio, non riesce a gustare la musica di Wagner. Bisogna anche dire che l’udito non gli serve più così bene come una volta, e che certe delicatezze istrumentali gli sfuggono. Corretto, educato, il suo contegno [p. 217 modifica] non lascia trasparire l’interno malcontento, ma sotto i baffi grigi spioventi alla Napoleone III, egli mormora: Ah! il mio Verdi! Ah! il mio Rossini!

Appena gli è concesso di muoversi, cioè quando cala il sipario, egli si affretta a andare in cerca del suo posto numerato e nella smania di potersi finalmente insediare pesta i piedi al suo vicino di poltrona.

— Pardon, signore, scusi.... Questi sedili sono così stretti.

Risponde l’altro:

— È il pubblico che li fa diventare stretti. Quanta gente! Un magnifico teatro.

— Sì, sì, — biascica il vecchio signore per compiacenza: ma in fondo non è molto soddisfatto. Aveva in mente una sala sfolgorante di luce e di occhi femminili, carica di elettrici sorrisi e di bianche spalle offerte al desiderio. Ora gli sembra che una nebbia veli ogni cosa in giro. Frega e rifrega col guanto la lente del suo canocchiale e guarda, meravigliato di non trovare nessuna bella donna. Non è invece l’opinione del vicino che esclama con enfasi ingenua:

— Franca la spesa di venire a Milano apposta solamente per lo spettacolo affascinante che offrono i palchi. [p. 218 modifica]

Il vecchio signore dà una occhiata di commiserazione al provinciale, un giovanottone bianco e roseo che sembra una mela appiola. Non avrebbe voluto continuare una conversazione della quale non gli importa nulla, e che non è nelle sue abitudini, ma siccome gli ha pestato un piede, si crede in obbligo di cortesia e soggiunge per fargli piacere:

— Il signore viene da lontano?

— Da Pizzighettone, per servirla.

— Pizzighettone?... Avevo un amico di questo paese. Povero Cattaneo, è morto.

— C’era infatti un Cattaneo che si portò qui cassiere, credo, o segretario in una Banca.

— Lo ha conosciuto, lei?

— Oh! non io, mio nonno!

Il vecchio signore rimane male, stringe le labbra e si liscia in silenzio i baffi napoleonici facendo la melanconica riflessione che una volta i giovinotti avevano maggior spirito. Giura in pari tempo che a teatro non lo pigliano più. È forse quella la sua Scala? la Scala de’ suoi trionfi e delle sue serate memorabili? Una musica che somiglia a dell’algebra per violino, cantanti che non cantano, sala noiosa piena di sconosciuti; neppure un volto noto a cercarlo colla lanterna; le signore poi così magre!... [p. 219 modifica]

Una rimembranza sentimentale gli fa alzare gli occhi verso un palchetto di terza fila; è là che egli vide per la prima volta Clotilde.... vestita di nero, con una rosa scarlatta sulle nevi del seno. Possibile che sia morta anch’essa? È proprio morta la dolce amica, come morì Cattaneo, come muoiono tutti i giorni intorno a lui le persone che era solito a vedere, a salutare....

Un’ombra si muove in fondo al palchetto. Clotilde? No, è una dama rigorosamente abbrunata, un po’ curva, coi capelli bianchi, che cerca di nascondersi agli occhi del pubblico. Qualcuno, dietro a lui, ne fa il nome, la duchessa***, ma il vecchio signore non crede. Appunta il canocchiale, e subito lo abbassa, atterrato. Lei? La superba bellezza che fu per vent’anni la regina della vita elegante milanese, per cui si ebbero duelli, divorzi, fughe, il delirio di tutti gli uomini, l’invidia di tutte le donne.... più bella di Clotilde, molto più bella.... ma quanti anni sono passati dunque?

Il vecchio signore china il capo sul petto e gli passano ancora davanti agli occhi con un baleno ironico le magnifiche spalle della divina creatura che non è più. [p. 220 modifica]

1900.

Giulio Sorisi non sa oramai dove passare la sera. Si è provato a restare in casa, ma ebbe paura di impigrirsi troppo e di cadere sotto il dominio della sua governante. Anche aveva provato a frequentare qualche relazione nuova, ma si accorse di starvi come un pesce fuori d’acqua, ignoto e indifferente a tutti. I suoi frizzi erano passati di moda, le sue opinioni invecchiate, i suoi gusti tramontati; financo il suo patriottismo nessuno lo capiva più. Solamente qualche fanciulla pietosa gli usava la cortesia di domandargli se non gli dava noia una finestra aperta....

Così Giulio Sorisi prese il partito di rinunciare alla società oltre che al teatro.

Egli va ora, le sere che non piove, al caffè. Si mette in una sala in fondo e si fa portare i giornali, che legge poco, ma che gli tengono compagnia. La scelta della bibita a cui attenersi non gli è stata molto facile perchè in causa dell’acido urico ha la proibizione del thè, del caffè, e di tutte le bevande alcooliche. Si rassegna all’acqua di soda, che non gli piace, ma che gli dà l’illusione di prendere qualche cosa. [p. 221 modifica]

Un fatto straordinariamente antipatico che egli è costretto a verificare tutte le sere, molto suo malgrado, è che nell’onda di gente che va, viene, si rinnova, passa o rimane, il più vecchio è sempre lui. Gli pare incredibile che vi siano tante persone giovani nel mondo; sì, perchè anche la donnina di quarant’anni, anche l’uomo di cinquanta sono giovani al suo confronto; e quando fissa gli occhi sopra un sessagenario pensa che anche quello ne ha dieci meno della cifra fatale. Ed è tutta gente che ha una ragione di vivere: una famiglia, gli affetti, gli affari, delle gioie, dei dolori, delle preoccupazioni o tristi o liete che li tengono in azione di vita. Egli solo è solo!

Uno scambio di parole che volle tentare, una sera, con un vecchietto prossimo all’età sua, suo vicino al divano del caffè, gli aveva ingenerato un’uggia mortale. Il vecchietto arzillo e petulante non aveva fatto altro che parlare de’ suoi nipotini, dei loro studii, degli esami, del sistema assurdo delle scuole, della insufficenza dei testi, dello scandaloso abuso delle vacanze, — tutti argomenti che accapponavano la pelle al celibe impenitente, facendogli tornare a gola il sapore disgustoso di certi bastoncini di liquirizia succhiati nell’infanzia.

— È inutile, — pensa Giulio Sorisi con [p. 222 modifica] amarezza, — il mondo è decrepito, non c’è più sugo in nulla; le donne sono brutte, gli uomini sono stupidi o matti; non ci si diverte più.

Pensa questo Giulio Sorisi, dinanzi al suo bicchiere di soda, toccando delicatamente colla punta del dito mignolo un dente che gli ballonzola in bocca pronto a seguire i fratelli lontani. E mentre pensa e tocca, guarda — con distrazione dapprima, poi con maggiore intensità — un gruppo (di giovani, naturalmente; quando mai, si vede un gruppo di vecchi?) che ciarlano a voce alta intorno a un tavolino prossimo al suo. Gli occhi lampeggiano, le risate squillano sonore, le mani disegnano nell’aria gesti vivaci. Chi sa che argomento interessante li appassiona per agitarli in tal modo.

Ma più di coloro che parlano lo attrae uno che tace; un magrolino pallido, biondiccio, cogli occhi dolci a fior di testa e un naso piuttosto lunghetto che incominciando sottile alla radice si arrotondava singolarmente in punta. Che strana somiglianza! Giulio Sorisi non gli può levare le pupille di dosso.

Gli altri intanto si riscaldano e gridano. Uno dice:

— L’amore è incostante per sua natura. [p. 223 modifica]

Il taciturno allora risponde:

— Ma quello non è il vero amore.

Qual voce! Giulio Sorisi si alza a metà, sporgendo il busto in avanti, sul punto di chiamare: Cattaneo!... Ricade subito e si passa una mano sugli occhi. Da quindici anni Cattaneo è morto. Eppure quel volto pallido, biondiccio, quegli occhi a fior di testa, quel naso a pestello.... e la voce, la voce di Cattaneo! Ma si può danque sopravviversi?

Rivede, in un rapido scorcio di visione, il lago di Como, in settembre, e due giovani che lo solcano arditamente con uno snello sandolino.... Non erano anche le stesse parole pronunciate allora da Cattaneo?

Torna a guardare il magrolino pallido e biondo così, così, come era l’amico suo, un po’ ingenuo, con quel pronto rossore di fanciulla ch’egli aveva schernito tante volte. Tutto risorgeva: lo sguardo, il gesto, l’anima gentile. Egli era ancora lì, giovane, ardente, pieno di energia, pieno di ideali, vivo!

Ad una nuova interiezione partita dal gruppo, il biondino risponde:

— Certo. Amerò e sposerò. Non è la conclusione unicamente logica dell’esistenza? Guarda, ne sono tanto sicuro che il mio primo figliuolo ho già deciso di chiamarlo Paolo, [p. 224 modifica] come mio padre. E la catena, spero, continuerà nei secoli.

Un’ombra dolorosa offusca gli occhi di Giulio Sorisi. Appoggiandosi colle mani al tavolino si alza e muove alcuni passi incerti. Accorre il cameriere ossequioso:

— Forse si sente male il signore, che parte così presto? (La pallidezza apparsa improvvisamente sulle guancie dell’avventore giustifica la domanda del cameriere).

— No.... — balbetta Giulio Sorisi raddrizzandosi con uno sforzo eroico, — ho.... ho.... un appuntamento.

E si allontana, rigido, nella notte.