La scienza nuova seconda/Libro primo/Sezione prima
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[SEZIONE PRIMA]
ANNOTAZIONI ALLA TAVOLA CRONOLOGICA
NELLE QUALI SI FA L’APPARECCHIO DELLE MATERIE
I
43Questa Tavola cronologica spone in comparsa il mondo delle nazioni antiche, il quale dal diluvio universale girasi dagli ebrei per gli caldei, sciti, fenici, egizi, greci e romani fin alla loro guerra seconda cartaginese. E vi compariscono uomini o fatti romorosissimi, determinati in certi tempi o in certi luoghi dalla comune de’ dotti, i quali uomini o fatti o non furono ne’ tempi o ne’ luoghi ne’ quali sono stati comunemente determinati, o non furon affatto nel mondo; e da lunghe densissime tenebre, ove giaciuti erano seppelliti, v’escon uomini insigni e fatti rilevantissimi, da’ quali e co’ quali son avvenuti grandissimi momenti di cose umane. Lo che tutto si dimostra in queste Annotazioni, per dar ad intendere quanto l’umanitá delle nazioni abbia incerti o sconci o difettuosi o vani i principi.
44Di piú, ella si propone tutta contraria al Canone cronico egiziaco, ebraico e greco di Giovanni Marshamo, ove vuol provare che gli egizi nella polizia e nella religione precedettero a tutte le nazioni del mondo, e che i di loro riti sagri ed ordinamenti civili, trasportati ad altri popoli, con qualche emendazione si ricevettero dagli ebrei. Nella qual oppenione il seguitò lo Spencero nella dissertazione De Urim et Thummim, ove oppina che gl’israeliti avessero apparato dagli egizi tutta la scienza delle divine cose per mezzo della sagra Cabbala. Finalmente al Marshamo acclamò l’Ornio nell’Antichitá della barbaresca filosofia, ove, nel libro intitolato Chaldaicus, scrive che Mosè, addottrinato nella scienza delle divine cose dagli egizi, l’avesse portate nelle sue leggi agli ebrei. Surse allo ’ncontro Ermanno Witzio, nell’opera intitolata Aegyptiaca sive de aegyptiacorum sacrorum cum hebraicis collatione, e stima che ’l primo autor gentile, che n’abbia dato le prime certe notizie degli egizi, egli sia stato Dion Cassio, il quale fiorí sotto Marco Antonino filosofo. Di che può essere confutato con gli Annali di Tacito, ove narra che Germanico, passato nell’Oriente, quindi portossi in Egitto per vedere l’antichitá famose di Tebe, e quivi da un di quei sacerdoti si fece spiegare i geroglifici iscritti in alcune moli, il quale, vaneggiando, gli riferí che que’ caratteri conservavano le memorie della sterminata potenza ch’ebbe il loro re Ramse nell’Affrica, nell’Oriente e fino nell’Asia Minore, eguale alla potenza romana di quelli tempi, che fu grandissima: il qual luogo, perché gli era contrario, forse il Witzio si tacque.
45Ma, certamente, cotanto sterminata antichitá non fruttò molto di sapienza riposta agli egizi mediterranei. Imperciocché ne’ tempi di Clemente l’alessandrino, com’esso narra negli Stromati, andavano attorno i loro libri detti «sacerdotali» al numero di quarantadue, i quali in filosofia ed astronomia contenevano de’ grandissimi errori, de’ quali Cheremone, maestro di san Dionigi areopagita, sovente è messo in favola da Strabone; — le cose della medicina si truovano da Galeno, ne’ libri De medicina mercuriali, essere manifeste ciance e mere imposture; — la morale era dissoluta, la quale, nonché tollerate o lecite, faceva oneste le meretrici; — la teologia era piena di superstizioni, prestigi e stregonerie. E la magnificenza delle loro moli e piramidi potè ben esser parto della barbarie, la quale si comporta col grande; però la scoltura e la fonderia egiziaca s’accusano ancor oggi essere state rozzissime. Perché la dilicatezza è frutto delle filosofie; onde la Grecia, che fu la nazion de’ filosofi, sola sfolgorò di tutte le belle arti ch’abbia giammai truovato l’ingegno umano: pittura, scoltura, fonderia, arte d’intagliare, le quali sono dilicatissime, perché debbon astrarre le superficie da’ corpi ch’imitano.
46Innalzò alle stelle cotal antica sapienza degli egizi la fondatavi sul mare da Alessandro magno Alessandria, la qual, unendo l’acutezza affricana con la dilicatezza greca, vi produsse chiarissimi filosofi in divinitá, per gli quali ella pervenne in tanto splendore d’alto divin sapere che ’l Museo alessandrino funne poi celebrato quanto unitamente erano stat’innanzi l’Accademia, il Liceo, la Stoa e ’l Cinosargi in Atene; e funne detta «la madre delle scienze» Alessandria e, per cotanta eccellenza, fu appellata da’ greci Πόλις, come Ἄστυ Atene e «Urbs» Roma. Quindi provenne Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, il quale trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, appunto come i greci filosofi avevano fatto innanzi delle lor favole, le quali qui truoverassi essere state le lor antichissime storie; onde s’intenda lo stesso esser avvenuto delle favole greche che de’ geroglifici egizi.
47Con tanto fasto d’alto sapere, la nazione, di sua natura boriosa (che ne furono motteggiati «gloriae animalia», in una cittá ch’era un grand’emporio del Mediterraneo e, per lo Mar Rosso, dell’Oceano e dell’Indie (tra gli cui costumi vituperevoli, da Tacito, in un luogo d’oro, si narra questo: «novarum religionum avida»), tra per la pregiudicata oppenione della loro sformata antichitá, la quale vanamente vantavano sopra tutte l’altre nazioni del mondo, e quindi d’aver signoreggiato anticamente ad una gran parte del mondo; e perché non sapevano la guisa come tra’ gentili, senza ch’i popoli sapessero nulla gli uni degli altri, divisamente nacquero idee uniformi degli dèi e degli eroi (lo che dentro appieno sará dimostro), tutte le false divinitadi, ch’essi, dalle nazioni che vi concorrevano per gli marittimi traffichi, udivano essere sparse per lo resto del mondo, credettero esser uscite dal lor Egitto, e che ’l loro Giove Ammone fusse lo piú antico di tutti (de’ quali ogni nazione gentile n’ebbe uno), e che gli Ercoli di tutte l’altre nazioni (de’ quali Varrone giunse a noverare quaranta) avessero preso il nome dal lor Ercole egizio, come l’uno e l’altro ci vien narrato da Tacito. E, con tutto ciò che Diodoro sicolo, il quale visse a’ tempi d’Augusto, gli adorni di troppo vantaggiosi giudizi, non dá agli egizi maggior antichitá che di duemila anni; e i di lui giudizi sono rovesciati da Giacomo Cappello nella sua Storia sagra ed egiziaca, che gli stima tali quali Senofonte aveva innanzi attaccati a Ciro e (noi aggiugniamo) Platone sovente finge de’ persiani. Tutto ciò, finalmente, d’intorno alla vanitá dell’altissima antica sapienza egiziaca si conferma con l’impostura del Pimandro smaltito per dottrina ermetica, il quale si scuopre dal Casaubuono non contenere dottrina piú antica di quella de’ platonici spiegata con la medesima frase, nel rimanente giudicata dal Salmasio per una disordinata e mal composta raccolta di cose.
48Fece agli egizi la falsa oppenione di cotanta lor antichitá questa propietá della mente umana — d’esser indiffinita, — per la quale, delle cose che non sa, ella sovente crede sformatamente piú di quello che son in fatti esse cose. Perciò gli egizi furon in ciò somiglianti a’ chinesi, i quali crebbero in tanto gran nazione chiusi a tutte le nazioni straniere, come gli egizi lo erano stati fin a Psammetico e gli sciti fin ad Idantura, da’ quali è volgar tradizione che furono vinti gli egizi in pregio d’antichitá. La qual volgar tradizione è necessario ch’avesse avuto indi motivo onde incomincia la storia universale profana, la qual, appresso Giustino, come antiprincipi propone innanzi alla monarchia degli assiri due potentissimi re, Tanai scita e Sesostride egizio, i quali finor han fatto comparire il mondo molto piú antico di quel ch’è in fatti; e che per l’Oriente prima Tanai fusse ito con un grandissimo esercito a soggiogare l’Egitto, il qual è per natura difficilissimo a penetrarsi con l’armi, e che poi Sesostride con altrettante forze si fusse portato a soggiogare la Scizia, la qual visse sconosciuta ad essi persiani (ch’avevano stesa la loro monarchia sopra quella de’ medi, suoi confinanti) fin a’ tempi di Dario detto «maggiore», il qual intimò al di lei re Idantura la guerra; il qual si truova cotanto barbaro a’ tempi dell’umanissima Persia, che gli risponde con cinque parole reali di cinque corpi, che non seppe nemmeno scrivere per geroglifici. E questi due potentissimi re attraversano con due grandissimi eserciti l’Asia, e non la fanno provincia o di Scizia o, d’Egitto, e la lasciano in tanta libertá ch’ivi poi surse la prima monarchia delle quattro piú famose del mondo, che fu quella d’Assiria!
49Perciò, forse, in cotal contesa d’antichitá non mancarono d’entrar in mezzo i caldei, pur nazione mediterranea e, come dimostreremo, piú antica dell’altre due, i quali vanamente vantavano di conservare le osservazioni astronomiche di ben ventiottomila anni: che forse diede il motivo a Flavio Giuseppe ebreo di credere con errore l’osservazioni avantidiluviane descritte nelle due colonne, una di marmo ed un’altra di mattoni, innalzate incontro a’ due diluvi, e d’aver esso veduta nella Siria quella di marmo. Tanto importava alle nazioni antiche di conservare le memorie astronomiche, il qual senso fu morto affatto tralle nazioni che loro vennero appresso! Onde tal colonna è da riporsi nel museo della credulitá.
50Ma cosí i chinesi si sono truovati scriver per geroglifici, come anticamente gli egizi e, piú degli egizi, gli sciti, i quali nemmeno gli sapevano scrivere. E, non avendo per molte migliaia d’anni avuto commerzio con altre nazioni dalle quali potesser esser informati della vera antichitá del mondo, com’uomo che dormendo sia chiuso in un’oscura picciolissima stanza, nell’orror delle tenebre la crede certamente molto maggiore di quello che con mani la toccherá; cosí, nel buio della loro cronologia, han fatto i chinesi e gli egizi e, con entrambi, i caldei. Pure, benché il padre Michel di Ruggiero, gesuita, affermi d’aver esso letti libri stampati innanzi la venuta di Gesú Cristo; e benché il padre Martini, pur gesuita, nella sua Storia chinese narri una grandissima antichitá di Confucio, la qual ha indotti molti nell’ateismo, al riferire di Martino Scoockio in Demonstratione Diluvii universalis, onde Isacco Pereyro, autore della Storia preadamitica, forse perciò abbandonò la fede catolica, e quindi scrisse che ’l Diluvio si sparse sopra la terra de’ soli ebrei: — però Niccolò Trigaulzio, meglio del Ruggieri e del Martini informato, nella sua Christiana expeditione apud Sinas scrive la stampa appo i chinesi essersi truovata non piú che da due secoli innanzi degli europei, e Confucio aver fiorito non piú che cinquecento anni innanzi di Gesú Cristo. E la filosofia confuciana, conforme a’ libri sacerdotali egiziaci, nelle poche cose naturali ella è rozza e goffa, e quasi tutta si rivolge ad una volgar morale, o sia moral comandata a que’ popoli con le leggi.
51Da si fatto ragionamento d’intorno alla vana oppenione ch’avevano della lor antichitá queste gentili nazioni, e sopra tutte gli egizi, doveva cominciare tutto lo scibile gentilesco, tra per sapere con iscienza quest’importante principio: — dove e quando egli ebbe i suoi primi incominciamenti nel mondo, — e per assistere con ragioni anco umane a tutto il credibile cristiano, il quale tutto incomincia da ciò: che ’l primo popolo del mondo fu egli l’ebreo, di cui fu principe Adamo, il quale fu criato dal vero Dio con la criazione del mondo. E [da ciò deriva] che la prima scienza da doversi apparare sia la mitologia, ovvero l’interpetrazion delle favole (perché, come si vedrá, tutte le storie gentilesche hanno favolosi i principi), e che le favole furono le prime storie delle nazioni gentili. E con sí fatto metodo [son da] rinvenire i principi come delle nazioni cosí delle scienze, le quali da esse nazioni son uscite e non altrimente: come per tutta quest’opera sará dimostro ch’alle pubbliche necessitá o utilitá de’ popoli elleno hanno avuto i lor incominciamenti, e poi, con applicarvi la riflessione acuti particolari uomini, si sono perfezionate. E quindi cominciar debbe la storia universale, che tutti i dotti dicono mancare ne’ suoi principi.
52E, per ciò fare, l’antichitá degli egizi in ciò grandemente ci gioverá, che ne serbarono due grandi rottami non meno maravigliosi delle loro piramidi, che sono queste due grandi veritá filologiche. Delle quali una è narrata da Erodoto: ch’essi tutto il tempo del mondo ch’era corso loro dinanzi riducevano a tre etá: la prima degli dèi, la seconda degli eroi e la terza degli uomini. L’altra è che, con corrispondente numero ed ordine, per tutto tal tempo si erano parlate tre lingue: la prima geroglifica ovvero per caratteri sagri, la seconda simbolica o per caratteri eroici, la terza pistolare o per caratteri convenuti da’ popoli, al riferire dello Scheffero, De philosophia italica. La qual divisione de’ tempi egli è necessario che Marco Terenzio Varrone — perch’egli, per la sua sterminata erudizione, meritò l’elogio con cui fu detto il «dottissimo de’ romani» ne’ tempi loro piú illuminati, che furon quelli di Cicerone — dobbiam dire, non giá ch’egli non seppe seguire, ma che non volle; perché, forse, intese della romana ciò che, per questi principi, si truoverá vero di tutte le nazioni antiche, cioè che tutte le divine ed umane cose romane erano native del Lazio: onde si studiò dar loro tutte latine origini nella sua gran opera Rerum divinarum et humanarum, della quale l’ingiuria del tempo ci ha privi (tanto Varrone credette alla favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene in Roma!), e divise tutti i tempi del mondo in tre, cioè: tempo oscuro, ch’è l’etá degli dèi; quindi tempo favoloso, ch’è l’etá degli eroi; e finalmente tempo istorico, ch’è l’etá degli uomini che dicevan gli egizi.
53Oltracciò, l’antichitá degli egizi gioveracci con due boriose memorie, di quella boria delle nazioni, le quali osserva Diodoro sicolo che, o barbare o umane si fussero, ciascheduna si è tenuta la piú antica di tutte e serbare le sue memorie fin dal principio del mondo; lo che vedremo essere stato privilegio de’ soli ebrei. Delle quali due boriose memorie una osservammo esser quella che ’l loro Giove Ammone era il piú vecchio di tutti gli altri del mondo, l’altra che tutti gli altri Ercoli dell’altre nazioni avevano preso il nome dal lor Ercole egizio: cioè ch’appo tutte prima corse l’etá degli dèi, re de’ quali appo tutte fu creduto esser Giove; e poscia l’etá degli eroi, che si tenevano esser figliuoli degli dèi, il massimo de’ quali fu creduto esser Ercole.
II
[Ebrei]
54S’innalza la prima colonna agli ebrei, i quali, per gravissime autoritá di Flavio Giuseppe ebreo e di Lattanzio Firmiano ch’appresso s’arrecheranno, vissero sconosciuti a tutte le nazioni gentili. E pur essi contavano giusta la ragione de’ tempi corsi del mondo, oggi dagli piú severi critici ricevuta per vera, secondo il calcolo di Filone giudeo; la qual se varia da quel d’Eusebio, il divario non è che di mille e cinquecento anni, ch’è brievissimo spazio di tempo a petto di quanto l’alterarono i caldei, gli sciti, gli egizi e, fin al di d’oggi, i chinesi. Che dev’esser un invitto argomento che gli ebrei furono il primo popolo del nostro mondo ed hanno serbato con veritá le loro memorie nella storia sagra fin dal principio del mondo.
III
[Caldei]
55Si pianta la seconda colonna a’ caldei, tra perché in geografia si mostra in Assiria essere stata la monarchia piú mediterranea di tutto il mondo abitabile, e perché in quest’opera si dimostra che si popolarono prima le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E certamente i caldei furono i primi sappienti della gentilitá, il principe de’ quali dalla comune de’ filologi è ricevuto Zoroaste caldeo. E senza veruno scrupolo, la storia universale prende principio dalla monarchia degli assiri, la quale aveva dovuto incominciar a formarsi dalla gente caldea; dalla quale, cresciuta in un grandissimo corpo, dovette passare nella nazion degli assiri sotto di Nino, il quale vi dovette fondare tal monarchia, non giá con gente menata colá da fuori, ma nata dentro essa Caldea medesima, con la qual egli spense il nome caldeo e vi produsse l’assirio: che dovetter esser i plebei di quella nazione, con le forze de’ quali Nino vi surse monarca, come in quest’opera tal civile costume di quasi tutte, come si ha certamente della romana, vien dimostrato. Ed essa storia pur ci racconta che fu Zoroaste ucciso da Nino; lo che truoveremo esser stato detto, con lingua eroica, in senso che ’l regno, il qual era stato aristocratico, de’ caldei (de’ quali era stato carattere eroico Zoroaste) fu rovesciato per mezzo della libertá popolare da’ plebei di tal gente, i quali ne’ tempi eroici si vedranno essere stati altra nazione da’ nobili, e che col favore di tal nazione Nino vi si fusse stabilito monarca. Altrimente, se non istanno cosí queste cose, n’uscirebbe questo mostro di cronologia nella storia assiriaca; che nella vita d’un sol uomo, di Zoroaste, da vagabondi eslegi si fusse la Caldea portata a tanta grandezza d’imperio che Nino vi fondò una grandissima monarchia. Senza i quali principi, avendoci Nino dato il primo incominciamento della storia universale, ci ha fatto finor sembrare la monarchia dell’Assiria, come una ranocchia in una pioggia d’está, esser nata tutta ad un tratto.
IV
[Sciti]
56Si fonda la terza colonna agli sciti, i quali vinsero gli egizi in contesa d’antichitá, come testé l’hacci narrato una tradizione volgare.
V
[Fenici]
57La quarta colonna si stabilisce a’ fenici innanzi degli egizi, ai quali i fenici, da’ caldei, portarono la pratica del quadrante e la scienza dell’elevazione del polo, di che è volgare tradizione; e appresso dimostreremo che portarono anco i volgari caratteri.
VI
[Egizi]
58Per tutte le cose sopra qui ragionate, quelli egizi che nel suo Canone vuol il Marshamo essere stati gli piú antichi di tutte le nazioni, meritano il quinto luogo su questa Tavola cronologica.
VII
[Zoroaste o regno de’ caldei. — Anni del mondo 1756]
59Zoroaste si truova in quest’opera essere stato un carattere poetico di fondatori di popoli in Oriente, onde se ne truovano tanti sparsi per quella gran parte del mondo quanti sono gli Ercoli per l’altra opposta dell’Occidente; e forse gli Ercoli, i quali con l’aspetto degli occidentali osservò Varrone anco in Asia (come il tirio, il fenicio), dovettero agli orientali essere Zoroasti. Ma la boria de’ dotti, i quali ciò ch’essi sanno vogliono che sia antico quanto ch’è il mondo, ne ha fatto un uomo particolare ricolmo d’altissima sapienza riposta e gli ha attaccato gli oracoli della filosofia, i quali non ismaltiscono altro che per vecchia una troppo nuova dottrina, ch’è quella de’ pittagorici e de’ platonici. Ma tal boria de’ dotti non si fermò qui, ché gonfiò piú col fingerne anco la succession delle scuole per le nazioni: che Zoroaste addottrinò Beroso, per la Caldea; Beroso, Mercurio Trimegisto, per l’Egitto; Mercurio Trimegisto, Atlante, per l’Etiopia; Atlante, Orfeo, per la Tracia; e che, finalmente, Orfeo fermò la sua scuola in Grecia. Ma quindi a poco si vedrá quanto furono facili questi lunghi viaggi per le prime nazioni, le quali, per la loro fresca selvaggia origine, dappertutto vivevano sconosciute alle loro medesime confinanti, e non si conobbero tra loro che con l’occasion delle guerre o per cagione de’ traffichi.
60Ma de’ caldei gli stessi filologi, sbalorditi dalle varie volgari tradizioni che ne hanno essi raccolte, non sanno s’eglino fussero stati particolari uomini o intiere famiglie o tutto un popolo o nazione. Le quali dubbiezze tutte si solveranno con questi princípi: che prima furono particolari uomini, dipoi intiere famiglie, appresso tutto un popolo e finalmente una gran nazione, sulla quale si fondò la monarchia dell’Assiria; e ’l loro sapere fu prima in volgare divinitá (con la qual indovinavano l’avvenire dal tragitto delle stelle cadenti la notte) e poi in astrologia giudiziaria, com’a’ latini l’astrologo giudiziario restò detto «chaldaeus».
VIII
[Giapeto, dal quale provvengon i giganti. — Anni del mondo 1856]
61I quali, con istorie fisiche truovate dentro le greche favole, e pruove come fisiche cosí morali tratte da dentro l’istorie civili, si dimostreranno essere stati in natura appo tutte le prime nazioni gentili.
IX
[Nebrod o confusione delle lingue. — Anni del mondo 1856]
62La quale avvenne in una maniera miracolosa, onde allo istante si formarono tante favelle diverse. Per la qual confusione di lingue vogliono i Padri che si venne tratto tratto a perdere la puritá della lingua santa avantidiluviana. Lo che si deve intendere delle lingue de’ popoli d’Oriente, tra’ quali Sem propagò il gener umano. Ma delle nazioni di tutto il restante mondo altrimente dovette andar la bisogna. Perocché le razze di Cam e Giafet dovettero disperdersi per la gran selva di questa terra con un error ferino di dugento anni; e cosí, raminghi e soli, dovettero produrre i figliuoli, con una ferina educazione, nudi d’ogni umano costume e privi d’ogni umana favella, e sí in uno stato di bruti animali. E tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la terra, disseccata dall’umidore dell’universale diluvio, potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli uomini storditi e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta e gli egizi dicevano il loro Giove Ammone essere lo piú antico di tutti. E si diedero ad una spezie di divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni e da’ fulmini e da’ voli dell’aquile, che credevano essere uccelli di Giove. Ma appo gli orientali nacque una spezie di divinazione piú dilicata dall’osservare i moti de’ pianeti e gli aspetti degli astri: onde il primo sapiente della gentilitá si celebra Zoroaste, che ’l Bocharto vuol detto «contemplatore degli astri». E, siccome tra gli orientali nacque la prima volgar sapienza, cosí tra essi surse la prima monarchia, che fu quella d’Assiria.
63Per sí fatto ragionamento vengono a rovinare tutti gli etimologi ultimi, che vogliono rapportare tutte le lingue del mondo all’origini dell’orientali; quando tutte le nazioni provenute da Cam e Giafet si fondarono prima le lingue natie dentro terra, e poi, calate al mare, cominciarono a praticar co’ fenici, che furono celebri ne’ lidi del Mediterraneo e dell’Oceano per la navigazione e per le colonie. Come nella Scienza nuova la prima volta stampata l’abbiam dimostro nelle origini della lingua latina, e, ad esemplo della latina, doversi lo stesso intendere dell’altre tutte.
X
[Un de’ quali [giganti], Prometeo, ruba il fuoco dal sole. — Anni del mondo 1856]
64Da questa favola si scorge il Cielo avere regnato in terra, quando fu creduto tant’alto quanto le cime de’ monti, come ve n’ha la volgare tradizione, che narra anco aver lasciato de’ molti e grandi benefizi al gener umano.
XI
[Deucalione]
65Al cui tempo Temi, o sia la giustizia divina, aveva un tempio sopra il monte Parnaso, ed ella giudicava in terra le cose degli uomini.
XII
[Mercurio Trimegisto il vecchio ovvero etá degli dèi d’Egitto]
66Questo è ’l Mercurio, ch’ai riferire di Cicerone, De natura deorum, fu dagli egizi detto «Theut» (dal quale a’ greci fusse provenuto θεός), il quale truovò le lettere e le leggi agli egizi, e questi (per lo Marshamo) l’avesser insegnate all’altre nazioni del mondo. Però i greci non iscrissero le loro leggi co’ geroglifici, ma con le lettere volgari, che finora si è oppinato aver loro portato Cadmo dalla Fenicia, delle quali, come vedrassi, non si servirono per settecento anni e piú appresso. Dentro il qual tempo venne Omero, che in niuno de’ suoi poemi nomina νόμος (ch’osservò il Feizio nell’Omeriche antichitá ), e lasciò i suoi poemi alla memoria de’ suoi rapsodi, perché al di lui tempo le lettere volgari non si erano ancor truovate, come risolutamente Flavio Giuseffo ebreo il sostiene contro Appione, greco grammatico. E pure, dopo Omero, le lettere greche uscirono tanto diverse dalle fenicie!
67Ma queste sono minori difficultá a petto di quelle: come le nazioni, senza le leggi, possano truovarsi diggiá fondate? e come dentro esso Egitto, innanzi di tal Mercurio, si erano giá fondate le dinastie? Quasi fussero d’essenza delle leggi le lettere, e sí non fussero leggi quelle di Sparta, ove per legge d’esso Ligurgo erano proibiti saper di lettera! Quasi non vi avesse potuto essere quest’ordine in natura civile: — di concepire a voce le leggi e pur a voce di pubblicarle, — e non si trovassero di fatto appo Omero due sorte d’adunanze: una detta βουλή, segreta, dove si adunavano gli eroi per consultar a voce le leggi; ed un’altra detta ἀγορά, pubblica, nella quale pur a voce le pubblicavano! Quasi, finalmente, la provvedenza non avesse provveduto a questa umana necessitá: che, per la mancanza delle lettere, tutte le nazioni nella loro barbarie si fondassero prima con le consuetudini e, ingentilite, poi si governassero con le leggi! Siccome nella barbarie ricorsa i primi diritti delle nazioni novelle d’Europa sono nati con le consuetudini, delle quali le piú antiche son le feudali. Lo che si dee ricordare per ciò ch’appresso diremo: ch’i feudi sono state le prime sorgive di tutti i diritti che vennero appresso appo tutte le nazioni cosí antiche come moderne, e quindi il diritto natural delle genti, non giá con leggi, ma con essi costumi umani essersi stabilito.
68Ora, per ciò ch’attiensi a questo gran momento della cristiana religione: — che Mosè non abbia apparato dagli egizi la sublime teologia degli ebrei, — sembra fortemente ostare la cronologia, la qual alloga Mosè dopo di questo Mercurio Trimegisto. Ma tal difficultá, oltre alle ragioni con le quali sopra si è combattuta, ella si vince affatto per questi principi, fermati in un luogo veramente d’oro di Giamblico, De mysteriis aegyptiorum, dove dice che gli egizi tutti i loro ritruovati necessari o utili alla vita umana civile riferivano a questo loro Mercurio; talché egli dee essere stato, non un particolare uomo ricco di sapienza riposta che fu poi consagrato dio, ma un carattere poetico de’ primi uomini dell’Egitto sappienti di sapienza volgare, che vi fondarono prima le famiglie e poi i popoli che finalmente composero quella gran nazione. E per questo stesso luogo arrecato testé di Giamblico, perché gli egizi costino con la loro divisione delle tre etá degli dèi, degli eroi e degli uomini, e questo Trimegisto fu loro dio; perciò nella vita di tal Mercurio dee correre tutta l’etá degli dèi degli egizi.
XIII
[Etá dell’oro ovvero etá degli dèi di Grecia]
69Una delle cui particolaritá la storia favolosa ci narra: che gli dèi praticavano in terra con gli uomini. E, per dar certezza a’ principi della cronologia, meditiamo in quest’opera una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi, fatta naturalmente nelle fantasie de’ greci a certe occasioni di umane necessitá o utilitá, ch’avvertirono essere state loro soccorse o somministrate ne’ tempi del primo mondo fanciullo, sorpreso da spaventosissime religioni: che tutto ciò che gli uomini o vedevano o immaginavano o anco essi stessi facevano, apprendevano essere divinitá. E, de’ famosi dodici dèi delle genti che furon dette «maggiori», o sieno dèi consagrati dagli uomini nel tempo delle famiglie, faccendo dodici minute epoche, con una cronologia ragionata della storia poetica si determina all’etá degli dèi la durata di novecento anni; onde si dánno i principi alla storia universale profana.
XIV
70Da quest’Elleno i greci natii si disser «elleni»; ma i greci 70 d’Italia si dissero «graii», e la loro terra Γραικία, onde «graeci» vennero detti a’ latini. Tanto i greci d’Italia seppero il nome della nazion greca principe, che fu quella oltramare, ond’essi erano venuti colonie in Italia! Perché tal voce Γραικία non si truova appresso greco scrittore, come osserva Giovanni Palmerio nella Descrizion della Grecia.
XV
71Ma Strabone stima che l’Attica, per l’asprezza delle sue terre, non poteva invitare stranieri che vi venissero ad abitare, per pruovare che ’l dialetto attico è de’ primi tra gli altri natii di Grecia.
XVI
72E vi portò le lettere fenicie: onde Beozia, fin dalla sua fondazione letterata, doveva essere la piú ingegnosa di tutte l’altre nazioni di Grecia; ma produsse uomini di menti tanto balorde che passò in proverbio «beoto» per uomo d’ottuso ingegno.
XVII
[Saturno ovvero l’etá degli dèi del Lazio. — Anni del mondo 2491]
73Questa è l’etá degli dèi che comincia alle nazioni del Lazio, corrispondente nelle propietá all’etá dell’oro de’ greci, a’ quali il primo oro si ritruoverá per la nostra mitologia essere stato il frumento, con le cui raccolte per lunghi secoli le prime nazioni numerarono gli anni. E Saturno da’ latini fu detto a «satis», da’ seminati, e si dice Χρόνς da’ greci, appo i quali χρόνς è il tempo, da cui vien detta essa «cronologia».
XVIII
[Mercurio Trimegisto il giovine o etá degli eroi d’Egitto. — Anni del mondo 2553]
74Questo Mercurio il giovine dev’essere carattere poetico dell’etá degli eroi degli egizi. La qual a’ greci non succedé che dopo novecento anni, per gli quali va a finire l’etá degli dèi di Grecia; ma agli egizi corre per un padre, figlio e nipote. A tal anacronismo nella storia egiziaca osservammo uno somigliante nella storia assiriaca nella persona di Zoroaste.
XIX
[Danao egizio caccia gl’Inachidi dal regno d’Argo. — Anni del mondo 2553]
75Queste successioni reali sono gran canoni di cronologia: come Danao occupa il regno d’Argo, signoreggiato innanzi da nove re della casa d’Inaco, per gli quali dovevano correre trecento anni (per la regola de’ cronologi), come presso a cinquecento per gli quattordici re latini che regnarono in Alba.
76Ma Tucidide dice che ne’ tempi eroici gli re si cacciavano tutto giorno di sedia l’un l’altro; come Amulio caccia Numitore dal regno d’Alba, e Romolo ne caccia Amulio e rimettevi Numitore. Lo che avveniva tra per la ferocia de’ tempi, e perch’erano smurate l’eroiche cittá, né eran in uso ancor le fortezze, come dentro si rincontra de’ tempi barbari ritornati.
XX
77Questi due grandi rottami d’antichitá si osservano da Dionigi Petavio gittati dentro la greca storia avanti il tempo eroico de’ greci. E sono sparsi per tutta Grecia gli Eraclidi, o sieno i figliuoli d’Ercole, piú di cento anni innanzi di provenirvi Ercole loro padre, il quale, per propagarli in tanta generazione, doveva esser nato molti secoli prima.
XXI
[Didone, da Tiro, va a fondar Cartagine]
78La quale noi poniamo nel fine del tempo eroico de’ fenici, e sí, cacciata da Tiro perché vinta in contesa eroica, com’ella il professa d’esserne uscita per l’odio del suo cognato. Tal moltitudine d’uomini tirii con frase eroica fu detta «femmina», perché di deboli e vinti.
XXII
[Orfeo e, con essolui, l’etá dei poeti teologi]
79Quest’Orfeo, che riduce le fiere di Grecia all’umanitá, si truova esser un vasto covile di mille mostri. Viene da Tracia, patria di fieri Marti, non d’umani filosofi, perché furono, per tutto il tempo appresso, cotanto barbari ch’Androzione filosofo tolse Orfeo dal numero de’ sappienti solamente per ciò che fusse nato egli in Tracia. E, ne’ di lei principi, ne uscí tanto dotto di greca lingua che vi compose in versi di maravigliosissima poesia, con la quale addimestica i barbari per gli orecchi; i quali, composti giá in nazioni, non furono ritenuti dagli occhi di non dar fuoco alle cittá piene di maraviglie. E truova i greci ancor fiere bestie; a’ quali Deucalione, da un mille anni innanzi, aveva insegnato la pietá col riverire e temere la giustizia divina, col cui timore, innanzi al di lei tempio posto sopra il monte Parnaso (che fu poi la stanza delle muse e d’Apollo, che sono lo dio e l’arti dell’umanitá), insieme con Pirra sua moglie, entrambi co’ capi velati (cioè col pudore del concubito umano, volendo significare col matrimonio), le pietre ch’erano loro dinanzi i piedi (cioè gli stupidi della vita innanzi ferina), girandole dietro le spalle, fanno divenir uomini (cioè con l’ordine della disciplina iconomica, nello stato delle famiglie); — Elleno, da settecento anni innanzi, aveva associati con la lingua e v’aveva sparso per tre suoi figliuoli tre dialetti; — la casa d’Inaco dimostrava esservi da trecento anni innanzi fondati i regni e scorrervi le successioni reali. Viene finalmente Orfeo ad insegnarvi l’umanitá; e, da un tempo che la truova tanto selvaggia, porta la Grecia a tanto lustro di nazione ch’esso è compagno di Giasone nell’impresa navale del vello d’oro (quando la navale e la nautica sono gli ultimi ritruovati de’ popoli), e vi s’accompagna con Castore e Polluce, fratelli d’Elena, per cui fu fatta la tanto romorosa guerra di Troia. E, nella vita d’un sol uomo, tante civili cose fatte, alle quali appena basta la scorsa di ben mill’anni! Tal mostro di cronologia sulla storia greca nella persona d’Orfeo è somigliante agli altri due osservati sopra: uno sulla storia assiriaca nella persona di Zoroaste, ed un altro sull’egiziaca in quelle de’ due Mercuri. Per tutto ciò, forse, Cicerone, De natura deorum, sospettò ch’un tal Orfeo non fusse giammai stato nel mondo.
80A queste grandissime difficultá cronologiche s’aggiungono non minori altre morali e politiche: che Orfeo fonda l’umanitá della Grecia sopra esempli d’un Giove adultero, d’una Giunone nimica a morte della virtú degli Ercoli, d’una casta Diana che solecita gli addormentati Endimioni di notte, d’un Apollo che risponde oracoli ed infesta fin alla morte le pudiche donzelle Dafni, d’un Marte che, come non bastasse agli dèi di commetter adultèri in terra, gli trasporta fin dentro il mare con Venere. Né tale sfrenata libidine degli dèi si contenta de’ vietati concubiti con le donne: arde Giove di nefandi amori per Ganimede; né pur qui si ferma: eccede finalmente alla bestiale, e Giove, trasformato in cigno, giace con Leda: la qual libidine, esercitata negli uomini e nelle bestie, fece assolutamente l’infame nefas del mondo eslege. Tanti dèi e dèe nel cielo non contraggono matrimoni; ed uno ve n’ha, di Giove con Giunone, ed è sterile; né solamente sterile, ma anco pieno d’atroci risse; talché Giove appicca in aria la pudica gelosa moglie, ed esso partorisce Minerva dal capo. Ed infine, se Saturno fa figliuoli, gli si divora. I quali esempli, e potenti esempli divini (contengansi pure cotali favole tutta la sapienza riposta, disiderata da Platone infino a’ nostri tempi da Bacone di Verulamio, De sapientia veterum ), come suonano, dissolverebbero i popoli piú costumati e gl’istigherebbero ad imbrutirsi in esse fiere d’Orfeo; tanto sono acconci e valevoli a ridurre gli uomini da bestie fiere all’umanitá! Della qual riprensione è una particella quella che degli dèi della gentilitá fa sant’Agostino nella Cittá di Dio, per questo motivo dell’Eunuco di Terenzio: che ’l Cherea, scandalezzato da una dipintura di Giove ch’in pioggia d’oro si giace con Danae, prende quell’ardire, che non aveva avuto, di violare la schiava, della quale pur era impazzato d’un violentissimo amore.
81Ma questi duri scogli di mitologia si schiveranno co’ principi di questa Scienza, la quale dimostrerá che tali favole, ne’ loro principi, furono tutte vere e severe e degne di fondatori di nazioni, e che poi, con lungo volger degli anni, da una parte oscurandosene i significati, e dall’altra col cangiar de’ costumi che da severi divennero dissoluti, perché gli uomini per consolarne le lor coscienze volevano peccare con l’autoritá degli dèi, passarono ne’ laidi significati co’ quali sonoci pervenute. L’aspre tempeste cronologiche ci saranno rasserenate dalla discoverta de’ caratteri poetici, uno de’ quali fu Orfeo, guardato per l’aspetto di poeta teologo, il quale con le favole, nel primo loro significato, fondò prima e poi raffermò l’umanitá della Grecia. Il qual carattere spiccò piú che mai nell’eroiche contese co’ plebei delle greche cittá; ond’in tal etá si distinsero i poeti teologi, com’esso Orfeo, Lino, Museo, Anfione, il quale de’ sassi semoventi (de’ balordi plebei) innalzò le mura di Tebe, che Cadmo aveva da trecento anni innanzi fondata; appunto come Appio, nipote del decemviro, circa altrettanto tempo dalla fondazione di Roma, col cantar alla plebe la forza degli dèi negli auspici, della quale avevano la scienza i patrizi, ferma lo stato eroico a’ romani. Dalle quali eroiche contese ebbe nome il secolo eroico.
XXIII
[Ercole, con cui è al colmo il tempo eroico di Grecia]
82Le stesse diffieultá ricorrono in Ercole, preso per un uomo vero, compagno di Giasone nella spedizione di Coleo; quando egli non sia, come si truoverá, carattere eroico di fondatore di popoli per l’aspetto delle fatighe.
XXIV
[Sancuniate scrive storie in lettere volgari. — Anni del mondo 2800]
í 83Detto anco Sancunazione, chiamato «lo storico della veritá» (al riferire di Clemente alessandrino negli Stromati ), il quale scrisse in caratteri volgari la storia fenicia, mentre gli egizi e gli sciti, come abbiam veduto, scrivevano per geroglifici, come si sono truovati scrivere fin al di d’oggi i chinesi, i quali non meno degli sciti ed egizi vantano una mostruosa antichitá, perché al buio del loro chiuso, non praticando con altre nazioni, non videro la vera luce de’ tempi. E Sancuniate scrisse in caratteri fenici volgari, mentre le lettere volgari non si erano ancor truovate tra’ greci, come sopra si è detto.
XXV
[Guerra troiana. — Anni del mondo 2820]
84La quale, com’è narrata da Omero, avveduti critici giudicano non essersi fatta nel mondo; e i Ditti cretesi e i Dareti frigi, che la scrissero in prosa come storici del lor tempo, da’ medesimi critici sono mandati a conservarsi nella libraria dell’impostura.
XXVI
[Sesostride regna in Tebe. — Anni del mondo 2949]
85Il quale ridusse sotto il suo imperio le tre altre dinastie dell’Egitto; che si truova esser il re Ramse che ’l sacerdote egizio narra a Germanico appresso Tacito.
XXVII
[Colonie greche in Asia, in Sicilia, in Italia. — Anni del mondo 2949]
86Questa è una delle pochissime cose nelle quali non seguiamo l’autoritá d’essa cronologia, forzati da una prepotente cagione. Onde poniamo le colonie de’ greci menate in Italia ed in Sicilia da cento anni dopo la guerra troiana, e sí da un trecento anni innanzi al tempo ove l’han poste i cronologi, cioè vicino a’ tempi ne’ quali i cronologi pongono gli errori degli eroi, come di Menelao, di Enea, d’Antenore, di Diomede e d’Ulisse. Né dee recare ciò maraviglia, quando essi variano di quattrocensessant’anni d’intorno al tempo d’Omero, ch’è ’l piú vicino autore a sí fatte cose de’greci. Perché la magnificenza e dilicatezza di Siragosa a’ tempi delle guerre cartaginesi non avevano che invidiare a quelle d’Atene medesima; quando nell’isole piú tardi che ne’ continenti s’introducono la morbidezza e lo splendor de’ costumi, e, ne’ di lui tempi, Cotrone fa compassione a Livio del suo poco numero d’abitatori, la quale aveva abitato innanzi piú millioni.
XXVIII
87Perché si truova che da Ercole si noveravano gli anni con le raccolte; da Isifilo in poi, col corso del sole, per gli segni del zodiaco: onde da questi incomincia il tempo certo de’ greci.
XXIX
[Fondazione di Roma. — Anni di Roma 1]
88Ma, qual sole le nebbie, cosí sgombra tutte le magnifiche oppenioni che finora si sono avute de’ principi di Roma, e di tutte l’altre cittá che sono state capitali di famosissime nazioni, un luogo d’oro di Varrone (appo sant’Agostino nella Cittá di Dio): ch’ella sotto gli re, che vi regnarono da dugencinquant’anni, manomise da piú di venti popoli, e non distese piú di venti miglia l’imperio.
XXX
89Del qual primo lume di Grecia ci ha lasciato al buio la greca storia d’intorno alle principali sue parti, cioè geografia e cronologia, poiché non ci è giunto nulla di certo né della di lui patria né dell’etá. Il quale nel terzo di questi libri si truoverá tutt’altro da quello ch’è stato finor creduto. Ma, qualunque egli sia stato, non vide certamente l’Egitto; il quale nell’Odissea narra che l’isola ov’è il faro or d’Alessandria fosse lontana da terraferma quanto una nave scarica, con rovaio in poppa, potesse veleggiar un intiero giorno. Né vide la Fenicia; ove narra l’isola di Calipso, detta Ogigia, esser tanto lontana che Mercurio dio, e dio alato, difficilissimamente vi giunse, come se da Grecia, dove sul monte Olimpo egli nell’Iliade canta starsi gli dèi, fusse la distanza che vi è dal nostro mondo in America. Talché, se i greci a’ tempi d’Omero avessero trafficato in Fenicia ed Egitto, egli n’arebbe perduto il credito a tutti e due i suoi poemi.
XXXI
[Psammetico apre l’Egitto a’ soli greci di Ionia e di Caria. — Anni del mondo 3334]
90Onde da Psammetico comincia JErodoto a raccontar cose piú accertate degli egizi. E ciò conferma che Omero non vide l’Egitto; e le tante notizie, ch’egli narra e di Egitto e d’altri paesi del mondo, o sono cose e fatti dentro essa Grecia, come si dimostrerá nella Geografia poetica; o sono tradizioni, alterate con lungo tempo, de’ fenici, egizi, frigi, ch’avevano menate le loro colonie tra’ greci; o sono novelle de’ viaggiatori fenici, che da molto innanzi a’ tempi d’Omero mercantavano nelle marine di Grecia.
XXXII
[Esopo, moral filosofo volgare. — Anni del mondo 3334]
91Nella Logica poetica si truoverá Esopo non essere stato un particolar uomo in natura, ma un genere fantastico, ovvero un carattere poetico de’ soci ovvero famoli degli eroi, i quali certamente furon innanzi a’ sette saggi di Grecia.
XXXIII
92E cominciò da un principio troppo sciapito: dall’acqua; forse perché aveva osservato con l’acqua crescer le zucche.
XXXIV
93Ch’esso Livio pone a’ tempi di Servio Tullio (tanto ebbe per vero che Pittagora fosse stato maestro di Numa in divinitá!); e ne’ medesimi tempi di Servio Tullio, che sono presso a dugento anni dopo di Numa, dice che ’n quelli tempi barbari dell’Italia mediterranea fosse stato impossibile, nonché esso Pittagora, il di lui nome, per tanti popoli di lingue e costumi diversi, avesse potuto da Cotrone giugnere a Roma. Onde s’intenda quanto furono spediti e facili tanti lunghi viaggi d’esso Pittagora in Tracia dagli scolari d’Orfeo, da’ maghi nella Persia, da’ caldei in Babillonia, da’ginnosofisti nell’India; quindi, nel ritorno, da’ sacerdoti in Egitto e, quanto è larga, l’Affrica attraversando, dagli scolari d’Atlante nella Mauritania; e di lá, rivalicando il mare, da’ druidi nella Gallia; ed indi fusse ritornato, ricco della sapienza barbaresca che dice l’Ornio, nella sua patria: da quelle barbare nazioni, alle quali, lunga etá innanzi, Ercole tebano con uccider mostri e tiranni era andato per lo mondo disseminando l’umanitá; ed alle quali medesime, lunga etá dopo, essi greci vantavano d’averla insegnata, ma non con tanto profitto che pure non restassero barbare. Tanto ha di serioso e grave la succession delle scuole della filosofia barbaresca che dice l’Ornio, alquanto piú sopra accennata, alla quale la boria de’ dotti ha cotanto applaudito!
94Che hassi a dire se fa necessitá qui l’autoritá di Lattanzio, che risolutamente niega Pittagora essere stato discepolo d’Isaia? La qual autoritá si rende gravissima per un luogo di Giuseffo ebreo nell’Antichitá giudaiche, che pruova gli ebrei, a’ tempi di Omero e di Pittagora, aver vivuto sconosciuti ad esse vicine loro mediterranee, nonché all’oltramarine lontanissime nazioni. Perché a Tolomeo Filadelfo, che si maravigliava perché delle leggi mosaiche né poeta né storico alcuno avesse fatto veruna menzione giammai, Demetrio ebreo rispose essere stati puniti miracolosamente da Dio alcuni che attentato avevano di narrarle a’ gentili, come Teopompo che ne fu privato del senno, e Teodette che lo fu della vista. Quindi esso Giuseffo confessa generosamente questa lor oscurezza, e ne rende queste cagioni: «Noi — dic’egli — non abitiamo sulle marine, né ci dilettiamo di mercantare e per cagione di traffichi praticare con gli stranieri». Sul quale costume Lattanzio riflette essere stato ciò consiglio della provvedenza divina, acciocché coi commerzi gentileschi non si profanasse la religione del vero Dio; nel qual detto egli è Lattanzio seguito da Pier Cuneo, De republica hebraeorum. Tutto ciò si ferma con una confession pubblica d’essi ebrei, i quali per la versione de’ Settanta facevan ogni anno un solenne digiuno nel dí otto di tebet, ovvero dicembre; perocché, quando ella uscí, tre giorni di tenebre furon per tutto il mondo, come sui libri rabbinici l’osservarono il Casaubuono nell’Esercitazioni sopra gli Annali del Baronio, il Buxtorfio nella Sinagoga giudaica e l’Ottingero nel Tesoro filologico. E perché i giudei grecanti, dett’«ellenisti», tra’ quali fu Aristea, detto capo di essa versione, le attribuivano una divina autoritá, i giudei gerosolomitani gli odiavano mortalmente.
95Ma per la natura di queste cose civili [è da reputare impossibile] che, per confini vietati anco dagli umanissimi egizi (i quali furono cosí inospitali a’ greci lunga etá dopo ch’avevano aperto loro l’Egitto, ch’erano vietati d’usar pentola, schidone, coltello ed anco carne tagliata col coltello che fusse greco), per cammini aspri ed infesti, senza alcuna comunanza di lingue, tra gli ebrei, che solevano motteggiarsi da’ gentili ch’allo straniero assetato non additassero il fonte, i profeti avessero profanato la loro sagra dottrina a’ stranieri, uomini nuovi e ad essolor sconosciuti, la quale in tutte le nazioni del mondo i sacerdoti custodivano arcana al volgo delle loro medesime plebi, ond’ella ha avuto appo tutte il nome di «sagra», ch’è tanto dire quanto «segreta». E ne risulta una pruova piú luminosa per la veritá della cristiana religione, che Pittagora, che Platone, in forza di umana sublimissima scienza, si fussero alquanto alzati alla cognizione delle divine veritá, delle quali gli ebrei erano stati addottrinati dal vero Dio; e, al contrario, ne nasce una grave confutazione dell’errore de’ mitologi ultimi, i quali credono che le favole sieno storie sagre, corrotte dalle nazioni gentili e sopra tutti da’ greci. E, benché gli egizi praticarono con gli ebrei nella loro cattivitá, però, per un costume comune de’ primi popoli, che qui dentro sará dimostro, di tener i vinti per uomini senza dèi, eglino della religione e storia ebraica fecero anzi beffe che conto; i quali, come narra il sacro Genesi, sovente per ischerno domandavano agli ebrei perché lo Dio ch’essi adoravano non veniva a liberargli dalle lor mani.
XXXV
[Servio Tullio re. — Anni del mondo 3468, di Roma 225]
96Il quale, con comun errore, è stato finor creduto d’aver ordinato in Roma il censo pianta della libertá popolare, il quale dentro si truoverá essere stato censo pianta di libertá signorile. Il qual errore va di concerto con quell’altro onde si è pur creduto finora che, ne’ tempi ne’ quali il debitor ammalato doveva comparire sull’asinello o dentro la carriuola innanzi al pretore, Tarquinio Prisco avesse ordinato l’insegne, le toghe, le divise e le sedie d’avolio (de’ denti di quelli elefanti che, perché i romani avevano veduto la prima volta in Lucania nella guerra con Pirro, dissero «boves lucas») e finalmente i cocchi d’oro da trionfare; nella quale splendida comparsa rifulse la romana maestá ne’ tempi della repubblica popolare piú luminosa.
XXXVI
[Esiodo. — Anni del mondo 3500]
97Per le pruove che si faranno d’intorno al tempo che fra i greci si truovò la scrittura volgare, poniamo Esiodo circa i tempi d’Erodoto e alquanto innanzi; il quale da’ cronologi con troppo risoluta franchezza si pone trent’anni innanzi d’Omero, della cui etá variano quattrocensessant’anni gli autori. Oltreché, Porfirio (appresso Suida) e Velleo Patercolo voglion ch’Omero avesse di gran tempo preceduto ad Esiodo. E ’l treppiedi ch’Esiodo consacrò in Elicona ad Apollo, con iscrittovi ch’esso aveva vinto Omero nel canto, quantunque il riconosca Varrone (appresso Aulo Gellio), egli è da conservarsi nel museo dell’impostura, perché fu una di quelle che fanno tuttavia a’ nostri tempi i falsatori delle medaglie per ritrarne con tal frode molto guadagno.
XXXVII
[Erodoto, Ippocrate. — Anni del mondo 3500]
98Egli è Ippocrate posto da’ cronologi nel tempo de’ sette savi della Grecia. Ma, tra perché la di lui vita è troppo tinta di favole (ch’è raccontato figliuolo d’Eusculapio e nipote d’Apollo), e perch’è certo autore d’opere scritte in prosa con volgari caratteri, perciò egli è qui posto circa i tempi d’Erodoto, il qual egualmente e scrisse in prosa con volgari caratteri e tessè la sua storia quasi tutta di favole.
XXXVIII
[Idantura, re di Scizia. — Anni del mondo 3530]
99Il quale a Dario il maggiore, che gli aveva intimato la guerra, risponde con cinque parole reali (le quali, come dentro si mostrerá, i primi popoli dovettero usare prima che le vocali e, finalmente, le scritte); le quali parole reali furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d’aratro ed un arco da saettare. Dentro, con tutta naturalezza e propietá se ne spiegheranno i significati; e c’incresce rapportare ciò che san Cirillo alessandrino riferisce del consiglio che Dario tenne su tal risposta, che da se stesso accusa le ridevoli interpetrazioni che le diedero i consiglieri. E questo è re di quelli sciti i quali vinsero gli egizi in contesa d’antichitá, ch’a tali tempi sí bassi non sapevano nemmeno scrivere per geroglifici! Talché Idantura dovett’esser un degli re chinesi, che, fin a pochi secoli fa chiusi a tutto il rimanente del mondo, vantano vanamente un’antichitá maggiore di quella del mondo e, ’n tanta lunghezza di tempi, si sono truovati scrivere ancora per geroglifici, e, quantunque per la gran mollezza del cielo abbiano dilicatissimi ingegni, co’ quali fanno tanti a maraviglia dilicati lavori, però non sanno ancora dar l’ombre nella pittura, sopra le quali risaltar possano i lumi; onde, non avendo sporti né addentrati, la loro pittura è goffissima. E le statuette, ch’indi ci vengon di porcellana, gli ci accusano egualmente rozzi quanto lo furono gli egizi nella fonderia; ond’è da stimarsi che, come ora i chinesi, cosí furono rozzi gli egizi nella pittura.
100Di questi sciti è quell’Anacarsi, autore degli oracoli scitici, come Zoroaste lo fu de’ caldaici; che dovettero dapprima esser oracoli d’indovini, che poi per la boria de’ dotti passarono in oracoli di filosofi. Se dagli iperborei della Scizia presente, o da altra nata anticamente dentro essa Grecia, sieno venuti a’ greci i due piú famosi oracoli del gentilesimo, il delfico e ’l dodoneo, come il credette Erodoto e, dopo lui, Pindaro e Ferenico, seguiti da Cicerone, De natura deorum, onde forse Anacarsi fu gridato famoso autore d’oracoli e fu noverato tra gli antichissimi dèi fatidici; si vedrá nella Geografia poetica. Vaglia, per ora intendere quanto la Scizia fusse stata dotta in sapienza riposta, che gli sciti ficcavano un coltello per terra e l’adoravan per dio, perché con quello giustificassero l’uccisioni ch’avevan essi da fare; dalla qual fiera religione uscirono le tante virtú morali e civili narrate da Diodoro sicolo, Giustino, Plinio, e innalzate con le lodi al cielo da Orazio. Laonde Abari, volendo ordinare la Scizia con le leggi di Grecia, funne ucciso da Caduvido, suo fratello. Tanto egli profittò nella filosofia barbaresca dell’Ornio, che non intese da sé le leggi valevoli di addimesticare una gente barbara ad un’umana civiltá, e dovette appararle da’ greci! Ch’è lo stesso, appunto, de’ greci in rapporto degli sciti, che poco fa abbiam detto de’ medesimi a riguardo degli egizi: che, per la vanitá di dar al lor sapere romorose origini d’antichitá forestiera, meritarono con veritá la riprensione ch’essi stessi sognarono d’aver fatta il sacerdote egizio a Solone (riferita da Crizia, appresso Platone in uno degli Alcibiadi): ch’i greci fussero sempre fanciulli. Laonde hassi a dire che per cotal boria i greci, a riguardo degli sciti e degli egizi, quanto essi guadagnarono di vanagloria, tanto perderono di vero merito.
XXXIX
101Il qual era giovinetto nel tempo ch’era Erodoto vecchio, che gli poteva esser padre, e visse nel tempo piú luminoso di Grecia, che fu quello della guerra peloponnesiaca, di cui fu contemporaneo, e perciò, per iscrivere cose vere, ne scrisse la storia; da cui fu detto ch’i greci fin al tempo di suo padre, ch’era quello d’Erodoto, non seppero nulla dell’antichitá loro propie. Che hassi a stimare delle cose straniere che essi narrano, e quanto essi ne narrano tanto noi sappiamo dell’antichitá gentilesche barbare? Che hassi a stimare, fin alle guerre cartaginesi, delle cose antiche di que’ romani che fin a que’ tempi non avevan ad altro atteso ch’all’agricoltura ed al mestiero dell’armi, quando Tucidide stabilisce questa veritá de’ suoi greci, che provennero tanto prestamente filosofi? Se non, forse, vogliam dire ch’essi romani n’avesser avuto un particolar privilegio da Dio.
XL
102Nel qual tempo da Atene si porta in Roma la legge delle Xll Tavole, tanto incivile, rozza, inumana, crudele e fiera quanto ne’ Principi del Diritto universale sta dimostrata.
XLI
103Come osserva san Girolamo, Sopra Daniello. E dopo che, per l’utilitá de’ commerzi, avevano cominciato i greci sotto Psammetico a sapere le cose di Egitto (onde da quel tempo Erodoto incomincia a scrivere cose piú accertate degli egizi), da Senofonte la prima volta, per la necessitá delle guerre, cominciaron a saper i greci cose piú accertate de’ persiani; de’ quali pure Aristotile, portatovisi con Alessandro magno, scrive che, innanzi, da’ greci se n’erano dette favole, come si accenna in questa Tavola cronologica. In cotal guisa cominciaron i greci ad avere certa contezza delle cose straniere.
XLII
[Legge publilia. — Anni del mondo 3658, di Roma 416]
104Questa legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXVI, e contiene un punto massimo d’istoria romana, ché con questa legge si dichiarò la romana repubblica mutata di stato da aristocratica in popolare; onde Pubblio Filone, che ne fu autore, ne fu detto «dittator popolare». E non si è avvertita, perché non si è saputo intendere il di lei linguaggio. Lo che appresso sará da noi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che ne diamo un’idea per ipotesi.
105Giacque sconosciuta questa e la seguente legge petelia, ch’è d’ugual importanza che la publilia, per queste tre parole non diffinite: «popolo», «regno» e «libertá», per le quali si è con comun errore creduto che ’l popolo romano fin da’ tempi di Romolo fusse stato di cittadini come nobili cosí plebei, che ’l romano fusse stato regno monarchico, e che la ordinatavi da Bruto fusse stata libertá popolare. E queste tre voci non diffinite han fatto cader in errore tutti i critici, storici, politici e giureconsulti, perché da niuna delle presenti poterono far idea delle repubbliche eroiche, le quali furono d’una forma aristocratica severissima e quindi a tutto cielo diverse da queste de’ nostri tempi.
106Romolo dentro l’asilo aperto nel luco egli fondò Roma sopra le clientele, le quali furono protezioni nelle quali i padri di famiglia tenevano i rifuggiti all’asilo in qualitá di contadini giornalieri, che non avevano niun privilegio di cittadino, e si niuna parte di civil libertá; e, perché v’erano rifuggiti per aver salva la vita, i padri proteggevano loro la libertá naturale col tenergli partitamente divisi in coltivar i di loro campi, de’ quali cosí dovette comporsi il fondo pubblico del territorio romano, come di essi padri Romolo compose il senato.
107Appresso, Servio Tullio vi ordinò il censo, con permettere a’ giornalieri il dominio bonitario de’ campi ch’erano propi de’ padri, i quali essi coltivassero per sé, sotto il peso del censo e con l’obbligo di servir loro a propie spese nelle guerre; conforme, di fatto, i plebei ad essi patrizi servirono dentro cotesta finor sognata libertá popolare. La qual legge di Servio Tullio fu la prima legge agraria del mondo, ordinatrice del censo pianta delle repubbliche eroiche, ovvero antichissime aristocrazie di tutte le nazioni.
108Dappoi, Giunio Bruto, con la discacciata de’ tiranni quini, restituí la romana repubblica a’ suoi princípi, e, con ordinarvi i consoli, quasi due re aristocratici annali (come Cicerone gli appella nelle sue Leggi), invece di uno re a vita, vi riordinò la libertá de’ signori da’ lor tiranni, non giá la libertá del popolo da’ signori. Ma, i nobili mal serbando l’agraria di Servio a’ plebei, questi si criarono i tribuni della plebe, e gli si fecero giurare dalla nobiltá, i quali difendessero alla plebe tal parte di natural libertá del dominio bonitario de’ campi: siccome perciò, disiderando i plebei riportarne da’ nobili il dominio civile, i tribuni della plebe cacciarono da Roma Marcio Coriolano, per aver detto ch’i plebei andassero a zappare, cioè che, poiché non eran contenti dell’agraria di Servio Tullio e volevano un’agraria piú piena e piú ferma, si riducessero a’ giornalieri di Romolo. Altrimente, che stolto fasto de’ plebei sdegnare l’agricoltura, la quale certamente sappiamo che si recavano ad onore esercitar essi nobili? e per sí lieve cagione accendere sí crudel guerra, che Marcio, per vendicarsi dell’esiglio, era venuto a rovinar Roma, senonsé le pietose lagrime della madre e della moglie l’avessero distolto dall’empia impresa?
109Per tutto ciò, pur seguitando i nobili a ritogliere i campi a’ plebei poi che quelli gli avevano coltivati, né avendo questi azion civile da vendicargli, quivi i tribuni della plebe fecero la pretensione della legge delle XII Tavole (dalla quale, come ne’ Principi del Diritto universale si è dimostrato, non si dispose altro affare che questo), con la qual legge i nobili permisero il dominio quiritario de’ campi a’ plebei; il qual dominio civile, per diritto natural delle genti, permettesi agli stranieri. E questa fu la seconda legge agraria dell’antiche nazioni.
110Quindi — accorti i plebei che non potevan essi trammandar ab intestato i campi a’ loro congionti, perché non avevano suitá, agnazioni, gentilitá (per le quali ragioni correvano allora le successioni legittime), perché non celebravano matrimoni solenni, e nemmeno ne potevano disponere in testamento, perché non avevano privilegio di cittadini — fecero la pretensione de’ connubi de’ nobili, o sia della ragione di contrarre nozze solenni (ché tanto suona «connubium»), la cui maggior solennitá erano gli auspici, ch’erano propi de’ nobili (i quali auspici furono il gran fonte di tutto il diritto romano, privato e pubblico); e sí fu da’ padri comunicata a’ plebei la ragion delle nozze, le quali, per la diffinizione di Modestino giureconsulto, essendo «omnis divini et humani iuris communicatio», ch’altro non è la cittadinanza, dieder essi a’ plebei il privilegio di cittadini. Quindi, secondo la serie degli umani disidèri, ne riportarono i plebei da’ padri comunicate tutte le dipendenze degli auspici ch’erano di ragion privata, come patria potestá, suitá, agnazioni, gentilitá e, per questi diritti, le successioni legittime, i testamenti e le tutele. Dipoi ne pretesero le dipendenze di ragion pubblica, e prima ne riportarono comunicati gl’imperi coi consolati, e finalmente i sacerdozi e i pontificati e, con questi, la scienza ancor delle leggi.
111In cotal guisa i tribuni della plebe, sulla pianta sopra la qual erano stati criati di proteggerle la libertà naturale, tratto tratto si condussero a farle conseguire tutta la libertá civile. E ’l censo ordinato da Servio Tullio — con disponersi dappoi che non piú si pagasse privatamente a’ nobili, ma all’erario, perché l’erario somministrasse le spese nelle guerre a’ plebei, — da pianta di libertá signorile, andò da se stesso, naturalmente, a formar il censo pianta della libertá popolare; di che dentro truoverassi la guisa.
112Con uguali passi i medesimi tribuni s’avanzarono nella potestá di comandare le leggi. Perché le due leggi orazia ed ortensia non poterono accordar alla plebe ch’i di lei plebisciti obbligassero tutto il popolo senonsé nelle due particolari emergenze, per la prima delle quali la plebe si era ritirata nell’Aventino gli anni di Roma CCCIV, nel qual tempo, come qui si è detto per ipotesi e dentro mostrerassi di fatto, i plebei non erano ancor cittadini; e per la seconda ritirossi nel Gianicolo gli anni CCCLXVII, quando la plebe ancora contendeva con la nobiltá di comunicarlesi il consolato. Ma, sulla pianta delle suddette due leggi, la plebe finalmente si avanzò a dare leggi universali. Per lo che dovetter avvenire in Roma de’ grandi movimenti e rivolte; onde fu bisogno di criare Pubblio Filone dittatore, il quale non si criava se non negli ultimi pericoli della repubblica, siccome in questo, ch’ella era caduta in un tanto grande disordine di nudrire dentro il suo corpo due potestá somme legislatrici, senza essere di nulla distinte né di tempi né di materie né di territori, con le quali doveva prestamente andare in una certa rovina. Quindi Filone, per rimediare a tanto civil malore, ordinò che ciò, che la plebe avesse co’ plebisciti comandato ne’ comizi tributi, «omnes quirites teneret», obbligasse tutto il popolo ne’ comizi centuriati, ne’ quali «omnes quirites» si ragunavano (perché i romani non si appellavano «quirites» che nelle pubbliche ragunanze, né «quirites» nel numero del meno si disse in volgar sermone latino giammai); con la qual formola Filone volle dire che non si potessero ordinar leggi le quali fussero a’ plebisciti contrarie. Per tutto ciò — essendo giá, per leggi nelle quali essi nobili erano convenuti, la plebe in tutto e per tutto uguagliata alla nobiltá; e per quest’ultimo tentativo, al quale i nobili non potevano resistere senza rovinar la repubblica, ella era divenuta superiore alla nobiltá, ché senza l’autoritá del senato comandava leggi generali a tutto il popolo; e sí essendo giá naturalmente la romana repubblica divenuta libera popolare; — Pilone, con questa legge, tale la dichiarò e ne fu detto «dittator popolare».
113In conformitá di tal cangiata natura, le diede due ordinamenti, che si contengono negli altri due capi della legge publilia. Il primo fu che l’autoritá del senato, la qual era stata autoritá di signori, per la quale, di ciò che ’l popolo avesse disposto prima, «deinde patres fierent auctores» (talché le coazioni de’ consoli, l’ordinazioni delle leggi, fatte dal popolo per lo innanzi, erano state pubbliche testimonianze di merito e domande pubbliche di ragione), questo dittatore ordinò ch’indi in poi fussero i padri autori al popolo, ch’era giá sovrano libero, «in incertum comitiorum eventum», come tutori del popolo, signor del romano imperio; che, se volesse comandare le leggi, le comandasse secondo la formola portata a lui dal senato, altrimente si servisse del suo sovrano arbitrio e l’«antiquasse» (cioè dichiarasse di non voler novitá); talché tutto ciò ch’indi in poi ordinasse il senato d’intorno a’ pubblici affari, fussero o istruzioni da esso date al popolo, o commessioni del popolo date a lui. Restava finalmente il censo, perché, per tutto il tempo innanzi, essendo stato l’erario de’ nobili, i soli nobili se n’erano criati censori: poi che egli per cotal legge divenne patrimonio di tutto il popolo, ordinò Filone nel terzo capo che si comunicasse alla plebe ancor la censura, il qual maestrato solo restava da comunicarsi alla plebe.
114Se sopra quest’ipotesi si legga quindi innanzi la storia romana, a mille pruove si truoverá che vi reggono tutte le cose che narra, le quali, per le tre voci non diffinite anzidette, non hanno né alcun fondamento comune, né tra loro alcun convenevole rapporto particolare; onde quest’ipotesi perciò si dovrebbe ricever per vera. Ma, se ben si considera, questa non è tanto ipotesi quanto una veritá meditata in idea, che poi con l’autoritá truoverassi di fatto. E — posto ciò che Livio dice generalmente: gli asili essere stati «vetus urbes condentium consilium», come Romolo entro l’asilo aperto nel luco egli fondò la romana — ne dá l’istoria di tutte l’altre cittá del mondo de’ tempi finora disperati a sapersi. Lo che è un saggio d’una storia ideal eterna (la quale dentro si medita e si ritruova), sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni.
XLIII
[Legge petelia. — Anni del mondo 3661, di Roma 419]
115Quest’altra legge fu comandata negli anni di Roma CCCCXIX, detta de nexu (e, sí, tre anni dopo la publilia), da’ consoli Caio Petelio e Lucio Papirio Mugliano; e contiene un altro punto massimo di cose romane, poiché con quella si rillasciò a’ plebei la ragion feudale d’essere vassalli ligi de’ nobili per cagion di debiti, per gli quali quelli tenevano questi, sovente tutta la vita, a lavorare per essi nelle loro private prigioni. Ma restò al senato il sovrano dominio ch’esso aveva sopra i fondi dell’imperio romano, ch’era giá passato nel popolo, e per lo senatoconsulto che chiamavano «ultimo», finché la romana fu repubblica libera, se ’l mantenne con la forza dell’armi; onde, quante volte il popolo ne volle disponere con le leggi agrarie de’ Gracchi, tante il senato armò i consoli, i quali dichiararono rubelli ed uccisero i tribuni della plebe che n’erano stati gli autori. Il quale grand’effetto non può altrove reggere che sopra una ragione di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranitá; la qual ragione ci vien confermata con un luogo di Cicerone in una Catilinaria, dove afferma che Tiberio Gracco con la legge agraria guastava lo stato della repubblica, e che con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu ammazzato, per lo diritto dettato nella formola con la qual il consolo armava il popolo contro gli autori di cotal legge: «Qui rempublicam salvam velit consulem sequatur».
XLIV
[Guerra di Taranto, ove s’incomincian a conoscer tra loro i latini co’ greci. — Anni del mondo 3708, di Roma 489]
116La cui cagione fu ch’i tarantini maltrattarono le navi romane ch’approdavano al loro lido e gli ambasciadori altresi, perché, per dirla con Floro, essi si scusavano che «qui essent aut unde venirent ignorabant». Tanto tra loro, quantunque dentro brievi continenti, si conoscevano i primi popoli!
XLV
117Della qual guerra pur Livio — il quale si era professato dalla seconda guerra cartaginese scrivere la storia romana con alquanto piú di certezza, promettendo di scrivere una guerra la piú memorabile di quante mai si fecero da’ romani, e, ’n conseguenza di cotanto incomparabil grandezza, ne debbono come di tutte piú romorose, esser piú certe le memorie che scrive — non ne seppe, ed apertamente dice di non sapere, tre gravissime circostanze. La prima, sotto quali consoli, dopo aver espugnato Sagunto, avesse Annibale preso dalla Spagna il cammino verso l’Italia. La seconda, per quali Alpi vi giunse, se per le Cozie o l’Appennine. La terza, con quante forze; di che truova negli antichi annali tanto divario, ch’altri avevano lasciato scritto seimila cavalieri e ventimila pedoni, altri ventimila di quelli e ottantamila di questi.
[Conclusione]
118Per lo che tutto ragionato in queste Annotazioni, si vede che quanto ci è giunto dell’antiche nazioni gentili, fin a’ tempi diterminati su questa Tavola, egli è tutto incertissimo. Onde noi in tutto ciò siamo entrati come in cose dette «nullius», delle quali è quella regola di ragione che «occupanti conceduntur»; e perciò non crediamo d’offendere il diritto di niuno se ne ragioneremo spesso diversamente ed alle volte tutto il contrario all’oppenioni che finora si hanno avute d’intorno a princípi dell’umanitá delle nazioni. E, con far ciò, gli ridurremo a princípi di scienza, per gli quali ai fatti della storia certa si rendano le loro primiere origini, sulle quali reggano e per le quali tra essoloro convengano; i quali finora non sembrano aver alcun fondamento comune né alcuna perpetuitá di seguito né alcuna coerenza tra lor medesimi.