La scienza nuova seconda/Libro primo/Sezione seconda
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[SEZIONE SECONDA]
DEGLI ELEMENTI
119Per dar forma adunque alle materie qui innanzi apparecchiate sulla Tavola cronologica, proponiamo ora qui i seguenti assiomi o degnitá cosí filosofiche come filologiche, alcune poche, ragionevoli e discrete domande, con alquante schiarite diffinizioni; le quali, come per lo corpo animato il sangue, cosí deono per entro scorrervi ed animarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona della comune natura delle nazioni.
I
120L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo.
121Questa degnitá è la cagione di que’ due comuni costumi umani: uno che «fama crescit eundo», l’altro che «minuit praesentia famam». La qual, avendo fatto un cammino lunghissimo quanto è dal principio del mondo, è stata la sorgiva perenne di tutte le magnifiche oppenioni che si sono finor avute delle sconosciute da noi lontanissime antichitá, per tal propietá della mente umana avvertita da Tacito nella Vita d’Agricola con quel motto: «Omne ignotum pro magnifico est».
II
122È altra propietá della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti.
123Questa degnitá addita il fonte inesausto di tutti gli errori presi dall’intiere nazioni e da tutt’i dotti d’intorno a’ princípi dell’umanitá; perocché da’ loro tempi illuminati, colti e magnifici, ne’ quali cominciarono quelle ad avvertirle, questi a ragionarle, hanno estimato l’origini dell’umanitá, le quali dovettero per natura essere picciole, rozze, oscurissime.
124A questo genere sono da richiamarsi due spezie di borie che si sono sopra accennate: una delle nazioni ed un’altra de’ dotti.
III
125Della boria delle nazioni udimmo quell’aureo detto di Diodoro sicolo: che le nazioni, o greche o barbare, abbiano avuto tal boria: d’aver esse prima di tutte l’altre ritruovati i comodi della vita umana e conservar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo.
126Questa degnitá dilegua ad un fiato la vanagloria de’ caldei, sciti, egizi, chinesi, d’aver essi i primi fondato l’umanitá dell’antico mondo. Ma Flavio Giuseffo ebreo ne purga la sua nazione, con quella confessione magnanima ch’abbiamo sopra udito: che gli ebrei avevano vivuto nascosti a tutti i gentili. E la sagra storia ci accerta l’etá del mondo essere quasi giovine a petto della vecchiezza che ne credettero i caldei, gli sciti, gli egizi e fin al di d’oggi i chinesi. Lo che è una gran pruova della veritá della storia sagra.
IV
127A tal boria di nazioni s’aggiugne qui la boria de’ dotti, i quali, ciò ch’essi sanno, vogliono che sia antico quanto che ’l mondo.
128Questa degnitá dilegua tutte le oppinioni de’dotti d’intorno alla sapienza innarrivabile degli antichi; convince d’impostura gli oracoli di Zoroaste caldeo, d’Anacarsi scita, che non ci son pervenuti, il Pimandro di Mercurio Trimegisto, gli orfici (o sieno versi d’Orfeo), il Carme aureo di Pittagora, come tutti gli piú scorti critici vi convengono; e riprende d’importunitá tutti i sensi mistici dati da’ dotti a’ geroglifici egizi e l’allegorie filosofiche date alle greche favole.
V
129La filosofia, per giovar al gener umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corrozione.
130Questa degnitá allontana dalla scuola di questa Scienza gli stoici, i quali vogliono l’ammortimento de’ sensi, e gli epicurei, che ne fanno regola, ed entrambi niegano la provvedenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che muoiano l’anime umane coi corpi, i quali entrambi si dovrebbero dire «filosofi monastici o solitari». Evi ammette i filosofi politici, e principalmente i platonici, i quali convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia provvedenza divina, che si debbano moderare l’umane passioni e farne umane virtú, e che l’anime umane sien immortali. E, ’n conseguenza, questa degnitá ne dará gli tre principi di questa Scienza.
VI
131La filosofia considera l’uomo quale dev’essere, e sí non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo.
VII
132La legislazione considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana societá; come della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sí la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicitá.
133Questa degnitá pruova esservi provvidenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini tutti attenuti alle loro private utilitá, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano in umana societá.
VIII
134Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano.
135Questa degnitá sola, poiché ’l gener umano, da che si ha memoria del mondo, ha vivuto e vive comportevolmente in societá, ella determina la gran disputa, della quale i migliori filosofi e i morali teologi ancora contendono con Carneade scettico e con Epicuro (né Grozio l’ha pur inchiovata): se vi sia diritto in natura, o se l’umana natura sia socievole, che suonano la medesima cosa.
136Questa medesima degnitá, congionta con la settima e ’l di lei corollario, pruova che l’uomo abbia libero arbitrio, però debole, di fare delle passioni virtú; ma che da Dio è aiutato, naturalmente con la divina provvedenza, e soprannaturalmente dalla divina grazia.
IX
137Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccurano d’attenersi al certo, perché, non potendo soddisfare l’intelletto con la scienza, almeno la volontá riposi sulla coscienza.
X
138La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia osserva l’autoritá dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo.
139Questa degnitá per la seconda parte diffinisce i filologi essere tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d’intorno alla cognizione delle lingue e de’ fatti de’ popoli, cosí in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l’alleanze, i viaggi, i commerzi.
140Questa medesima degnitá dimostra aver mancato per metá cosí i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l’autoritá de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro autoritá con la ragion de’ filosofi; lo che se avessero fatto, sarebbero stati piú utili alle repubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questa Scienza.
XI
141L’umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli si accerta e determina col senso comune degli uomini d’intorno alle umane necessitá o utilitá, che son i due fonti del diritto natural delle genti.
XII
142Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano.
143Questa degnitá con la seguente diffinizione ne dará una nuova arte critica sopra essi autori delle nazioni, tralle quali devono correre assai piú di mille anni per provenirvi gli scrittori, sopra i quali finora si è occupata la critica.
XIII
144Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero.
145Questa degnitá è un gran principio, che stabilisce il senso comune del gener umano esser il criterio insegnato alle nazioni dalla provvidenza divina per diffinire il certo d’intorno al diritto natural delle genti, del quale le nazioni si accertano con intendere l’unitá sostanziali di cotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutte convengono. Ond’esce il dizionario mentale, da dar l’origini a tutte le lingue articolate diverse, col quale sta conceputa la storia ideal eterna che ne dia le storie in tempo di tutte le nazioni; del qual dizionario e della qual istoria si proporranno appresso le degnitá loro propie.
146Questa stessa degnitá rovescia tutte l’idee che si son fínor avute d’intorno al diritto naturai delle genti, il quale si è creduto esser uscito da una prima nazione da cui l’altre l’avessero ricevuto; al qual errore diedero lo scandalo gli egizi e i greci, i quali vanamente vantavano d’aver essi disseminata l’umanitá per lo mondo. Il qual error certamente dovette far venire la legge delle XII Tavole da’ greci a’ romani. Ma, in cotal guisa, egli sarebbe un diritto civile comunicato ad altri popoli per umano provvedimento, e non giá un diritto con essi costumi umani naturalmente dalla divina provvedenza ordinato in tutte le nazioni. Questo sará uno de’ perpetui lavori che si fará in questi libri: in dimostrare che ’l diritto natural delle genti nacque privatamente appo i popoli senza sapere nulla gli uni degli altri; e che poi, con l’occasioni di guerre, ambasciarie, allianze, commerzi, si riconobbe comune a tutto il gener umano.
XIV
147Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.
XV
148Le propietá inseparabili da’ subbietti devon esser produtte dalla modificazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci posson avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose.
XVI
149Le tradizioni volgari devon avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi.
150Questo sará altro grande lavoro di questa Scienza: di ritruovarne i motivi del vero, il quale, col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso.
XVII
151I parlari volgari debbon esser i testimoni piú gravi degli antichi costumi de’ popoli, che si celebrarono nel tempo ch’essi si formaron le lingue.
XVIII
152Lingua di nazione antica, che si è conservata regnante finché pervenne al suo compimento, dev’esser un gran testimone de’ costumi de’ primi tempi del mondo.
153Questa degnitá ne assicura che le pruove filologiche del diritto natural delle genti (del quale, senza contrasto, sappientissima sopra tutte l’altre del mondo fu la romana) tratte da’ parlari latini sieno gravissime. Per la stessa ragione potranno far il medesimo i dotti della lingua tedesca, che ritiene questa stessa propietá della lingua romana antica.
XIX
154Se la legge delle XII Tavole furono costumi delle genti del Lazio, incominciativisi a celebrare fin dall’etá di Saturno, altrove sempre andanti e da’ romani fissi nel bronzo e religiosamente custoditi dalla romana giurisprudenza, ella è un gran testimone dell’antico diritto natural delle genti del Lazio.
155Ciò si è da noi dimostro esser vero di fatto, da ben molti anni fa, ne’ Principi del Diritto universale; lo che piú illuminato si vedrá in questi libri.
XX
156Se i poemi d’Omero sono storie civili degli antichi costumi greci, saranno due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.
157Questa degnitá ora qui si suppone: dentro sará dimostrata di fatto.
XXI
158I greci filosofi affrettarono il natural corso che far doveva la loro nazione, col provenirvi essendo ancor cruda la lor barbarie, onde passarono immediatamente ad una somma dilicatezza, e nello stesso tempo serbaronv’intiere le loro storie favolose cosí divine com’eroiche; ove i romani, i quali ne’ lor costumi cambiarono con giusto passo, affatto perderono di veduta la loro storia degli dèi (onde l’«etá degli dèi», che gli egizi dicevano, Varrone chiama «tempo oscuro» d’essi romani), e conservarono con favella volgare la storia eroica che si stende da Romolo fino alle leggi publilia e petelia, che si truoverá una perpetua mitologia storica dell’etá degli eroi di Grecia.
159Questa natura di cose umane civili ci si conferma nella nazione francese, nella quale, perché di mezzo alla barbarie del mille e cento s’aprí la famosa scuola parigina, dove il celebre maestro delle sentenze Piero lombardo si diede ad insegnare di sottilissima teologia scolastica, vi restò come un poema omerico la storia di Turpino vescovo di Parigi, piena di tutte le favole degli eroi di Francia che si dissero «i paladini», delle quali s’empieron appresso tanti romanzi e poemi. E, per tal immaturo passaggio dalla barbarie alle scienze piú sottili, la francese restonne una lingua dilicatissima, talché, di tutte le viventi, sembra avere restituito a’ nostri tempi l’atticismo de’ greci e piú ch’ogni altra è buona a ragionar delle scienze, come la greca; e come a’ greci cosí a’ francesi restarono tanti dittonghi, che sono propi di lingua barbara, dura ancor e difficile a comporre le consonanti con le vocali. In confermazione di ciò ch’abbiamo detto di tutte e due queste lingue, aggiugniamo l’osservazione che tuttavia si può fare ne’ giovani, i quali, nell’etá nella qual è robusta la memoria, vivida la fantasia e focoso l’ingegno — ch’eserciterebbero con frutto con lo studio delle lingue e della geometria lineare, senza domare con tali esercizi cotal acerbezza di menti contratta dal corpo, che si potrebbe dire la barbarie degl’intelletti, — passando ancor crudi agli studi troppo assottigliati di critica metafisica e d’algebra, divengono per tutta la vita affilatissimi nella loro maniera di pensare e si rendono inabili ad ogni grande lavoro.
160Ma, col piú meditare quest’opera, ritruovammo altra cagione di tal effetto, la qual forse è piú propia: che Romolo fondò Roma in mezzo ad altre piú antiche cittá del Lazio, e fondolla con aprirvi l’asilo, che Livio diffinisce generalmente «vetus urbes condentium consilium», perché, durando ancora le violenze, egli naturalmente ordinò la romana sulla pianta sulla quale si erano fondate le prime cittá del mondo. Laonde, da tali stessi principi progredendo i romani costumi, in tempi che le lingue volgari del Lazio avevano fatto di molti avvanzi, dovette avvenire che le cose civili romane, le qual’i popoli greci avevano spiegato con lingua eroica, essi spiegarono con lingua volgare; onde la storia romana antica si truoverá essere una perpetua mitologia della storia eroica de’ greci. E questa dev’essere la cagione per che i romani furono gli eroi del mondo: perocché Roma manomise l’altre cittá del Lazio, quindi l’Italia e per ultimo il mondo, essendo tra’ romani giovine l’eroismo; mentre tra gli altri popoli del Lazio, da’ quali, vinti, provenne tutta la romana grandezza, aveva dovuto incominciar a invecchiarsi.
XXII
161È necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne’ proverbi, che sono massime di sapienza volgare, ristesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elleno sono, per tanti diversi aspetti significate.
162Questa lingua è propia di questa Scienza. Col lume della quale se i dotti delle lingue v’attenderanno, potranno formar un vocabolario mentale comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi; di cui abbiamo dato un saggio particolare nella Scienza nuova la prima volta stampata, ove abbiamo provato i nomi de’ primi padri di famiglia, in un gran numero di lingue morte e viventi, dati loro per le diverse propietá ch’ebbero nello stato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel qual tempo le nazioni si formaron le lingue. Del qual vocabolario noi, per quanto ci permette la nostra scarsa erudizione, facciamo qui uso in tutte le cose che ragioniamo.
163Di tutte l’anzidette proposizioni, la prima, seconda, terza e quarta ne danno i fondamenti delle confutazioni di tutto ciò che si è finor oppinato d’intorno a’principi dell’umanitá, le quali si prendono dalle inverisimiglianze, assurdi, contradizioni, impossibilitá di cotali oppenioni. Le seguenti, dalla quinta fin alla decimaquinta, le quali ne dánno i fondamenti del vero, serviranno a meditare questo mondo di nazioni nella sua idea eterna, per quella propietá di ciascuna scienza, avvertita da Aristotile, che «scientia debet esse de universalibus et aeternis». L’ultime, dalla decimaquinta fin alla ventesimaseconda, le quali ne daranno i fondamenti del certo, si adopreranno a veder in fatti questo mondo di nazioni quale l’abbiamo meditato in idea, giusta il metodo di filosofare piú accertato di Francesco Bacone signor di Verulamio, dalle naturali, sulle quali esso lavorò il libro Cogitata visa, trasportato all’umane cose civili.
164Le proposizioni finora proposte sono generali e stabiliscono questa Scienza per tutto; le seguenti sono particolari, che la stabiliscono partitamente nelle diverse materie che tratta.
XXIII
165La storia sagra è piú antica di tutte le piú antiche profane che ci son pervenute, perché narra tanto spiegatamente e per lungo tratto di piú di ottocento anni lo stato di natura sotto de’ patriarchi, o sia lo stato delle famiglie, sopra le quali tutti i politici convengono che poi sursero i popoli e le cittá; del quale stato la storia profana ce ne ha o nulla o poco e assai confusamente narrato.
166Questa degnitá pruova la veritá della storia sagra contro la boria delle nazioni che sopra ci ha detto Diodoro sicolo, perocché gli ebrei han conservato tanto spiegatamente le loro memorie fin dal principio del mondo.
XXIV
167La religion ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della divinazione, sulla quale sursero tutte le nazioni gentili.
168Questa degnitá è una delle principali cagioni per le quali tutto il mondo delle nazioni antiche si divise tra ebrei e genti.
XXV
169Il diluvio universale si dimostra non giá per le pruove filologiche di Martino Scoockio, le quali sono troppo leggieri; né per l’astrologiche di Piero cardinale d’Alliac, seguito da Giampico della Mirandola, le quali sono troppo incerte, anzi false, rigredendo sopra le Tavole alfonsine, confutate dagli ebrei ed ora da’ cristiani, i quali, disappruovato il calcolo d’Eusebio e di Beda, sieguon oggi quello di Filone giudeo: ma si dimostra con istorie fisiche osservate dentro le favole, come nelle degnitá qui appresso si scorgerá.
XXVI
170I giganti furon in natura di vasti corpi, quali in piedi dell’America, nel paese detto «de los patacones», dicono viaggiatori essersi truovati goffi e fierissimi. E, lasciate le vane o sconce o false ragioni che ne hanno arrecato i filosofi, raccolte e seguite dal Cassanione, De gigantibus, se n’arrecano le cagioni, parte fisiche e parte morali, osservate da Giulio Cesare e da Cornelio Tacito ove narrano della gigantesca statura degli antichi germani; e, da noi considerate, si compongono sulla ferina educazion de’ fanciulli.
XXVII
171La storia greca, dalla qual abbiamo tutto ciò ch’abbiamo (dalla romana in fuori) di tutte l’altre antichitá gentilesche, ella dal diluvio e da’ giganti prende i principi.
172Queste due degnitá mettono in comparsa tutto il primo gener umano diviso in due spezie: una di giganti, altra d’uomini di giusta corporatura; quelli gentili, questi ebrei (la qual differenza non può essere nata altronde che dalla ferina educazione di quelli e dall’umana di questi); e, ’n conseguenza, che gli ebrei ebbero altra origine da quella c’hanno avuto tutti i gentili.
XXVIII
173Ci sono pur giunti due gran rottami dell’egiziache antichitá, che si sono sopra osservati. De’ quali uno è che gli egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso loro dinanzi a tre etá, che furono: etá degli dèi, etá degli eroi ed etá degli uomini. L’altro, che per tutte queste tre etá si fussero parlate tre lingue, nell’ordine corrispondenti a dette tre etá, che furono: la lingua geroglifica ovvero sagra, la lingua simbolica o per somiglianze, qual è l’eroica, e la pistolare o sia volgare degli uomini, per segni convenuti da comunicare le volgari bisogne della lor vita.
XXIX
174Omero, in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemi che si rapporteranno dentro, mentova una lingua piú antica della sua, che certamente fu lingua eroica, e la chiama «lingua degli dèi».
XXX
175Varrone ebbe la diligenza di raccogliere trentamila nomi di dèi (ché tanti pure ne noverano i greci), i quali nomi si rapportavano ad altrettante bisogne della vita o naturale o morale o iconomica o finalmente civile de’ primi tempi.
176Queste tre degnitá stabiliscono che ’l mondo de’ popoli dappertutto cominciò dalle religioni: ’che sará il primo degli tre principi di questa Scienza.
XXXI
177Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non vi abbiano piú luogo l’umane leggi, l’unico potente mezzo di ridurgli è la religione.
178Questa degnitá stabilisce che nello stato eslege la provvedenza divina diede principio a’ fieri e violenti di condursi all’umanitá ed ordinarvi le nazioni, con risvegliar in essi un’idea confusa della divinitá, ch’essi per la loro ignoranza attribuirono a cui ella non conveniva; e cosí, con lo spavento di tal immaginata divinitá, si cominciarono a rimettere in qualche ordine.
179Tal principio di cose, tra i suoi «fieri e violenti», non seppe vedere Tommaso Obbes, perché ne andò a truovar i principi errando col «caso» del suo Epicuro; onde, con quanto magnanimo sforzo, con altrettanto infelice evento, credette d’accrescere la greca filosofia di questa gran parte, della quale certamente aveva mancato (come riferisce Giorgio Paschio, De eruditis huius saeculi inventis), di considerar l’uomo in tutta la societá del gener umano. Né Obbes l’arebbe altrimente pensato, se non gliene avesse dato il motivo la cristiana religione, la quale inverso tutto il gener umano, nonché la giustizia, comanda la caritá. E quindi incomincia a confutarsi Polibio di quel falso suo detto: che, se fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Ché, se non fussero al mondo repubbliche, le quali non posson esser nate senza religioni, non sarebbero al mondo filosofi.
XXXII
180Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose, ove non le possono spiegare nemmeno per cose simili, essi danno alle cose la loro propia natura, come il volgo, per esemplo, dice la calamita esser innamorata del ferro.
181Questa degnitá è una particella della prima: che la mente umana, per la sua indiffinita natura, ove si rovesci nell’ignoranza, essa fa sé regola dell’universo d’intorno a tutto quello che ignora.
XXXIII
182La fisica degli ignoranti è una volgar metafisica, con la quale rendono le cagioni delle cose ch’ignorano alla volontá di Dio, senza considerare i mezzi de’ quali la volontá divina si serve.
XXXIV
183Vera propietá di natura umana è quella avvertita da Tacito, ove disse «mobiles ad superstitionem perculsae semel mentes»; ch’una volta che gli uomini sono sorpresi da una spaventosa superstizione, a quella richiamano tutto ciò ch’essi immaginano, vedono ed anche fanno.
XXXV
184La maraviglia è figliuola dell’ignoranza; e quanto l’effetto ammirato è piú grande, tanto piú a proporzione cresce la maraviglia.
XXXVI
185La fantasia tanto è piú robusta quanto è piú debole il raziocinio.
XXXVII
186Il piú sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è propietá de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive.
187Questa degnitá filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti.
XXXVIII
188È un luogo d’oro di Lattanzio Firmiano quello ove ragiona dell’origini dell’idolatria, dicendo: «Rudes initio homines deos appellarunt sive ob miraculum virtutis (hoc vere putabant rudes adhuc et simplices); sive, ut fieri solet, in admirationem praesentis potentiae; sive ob beneficia, quibus erant ad humanitatem compositi».
XXXIX
189La curiositá, propietá connaturale dell’uomo, figliuola dell’ignoranza, che partorisce la scienza, all’aprire che fa della nostra mente la maraviglia, porta questo costume: ch’ove osserva straordinario effetto in natura, come cometa, parelio o stella di mezzodí, subito domanda che tal cosa voglia dire o significare.
XL
190Le streghe, nel tempo stesso che sono ricolme di spaventose superstizioni, sono sommamente fiere ed immani; talché, se bisogna per solennizzare le loro stregonerie, esse uccidono spietatamente e fanno in brani amabilissimi innocenti bambini.
191Tutte queste proposizioni, dalla ventesimottava incominciando fin alla trentesimottava, ne scuoprono i principi della poesia divina o sia della teologia poetica; dalla prima, ne danno i principi dell’idolatria; dalla trentesimanona, i principi della divinazione; e la quarantesima finalmente ne dá con sanguinose religioni i principi de’ sagrifizi, che da’ primi crudi fierissimi uomini incominciarono con voti e vittime umane. Le quali, come si ha da Plauto, restarono a’ latini volgarmente dette «Saturni hostiae», e furono i sacrifizi di Moloc appresso i fenici, i quali passavano per mezzo alle fiamme i bambini consegrati a quella falsa divinitá; delle quali consagrazioni si serbarono alquante nella legge delle XII Tavole. Le quali cose, come dánno il diritto senso a quel motto:
Primos in orbe deos fecit timor
— che le false religioni non nacquero da impostura d’altrui, ma da propia credulitá; — cosí l’infelice voto e sagrifizio che fece Agamennone della pia figliuola Ifigenia, a cui empiamente Lucrezio acclama:
Tantum relligio potuit suadere malorum,
rivolgono in consiglio della provvedenza. Ché tanto vi voleva per addimesticare i figliuoli de’ polifemi e ridurgli all’umanitá degli Aristidi e de’ Socrati, de’ Leli e degli Scipioni affricani.
XLI
192Si domanda, e la domanda è discreta, che per piú centinaia d’anni la terra, insoppata dall’umidore dell’universale diluvio, non abbia mandato esalazioni secche, o sieno materie ignite, in aria, a ingenerarvisi i fulmini.
XLII
193Giove fulmina ed atterra i giganti, ed ogni nazione gentile n’ebbe uno.
194Questa degnitá contiene la storia fisica che ci han conservato le favole: che fu il diluvio universale sopra tutta la terra.
195Questa stessa degnitá, con l’antecedente postulato, ne dee determinare che dentro tal lunghissimo corso d’anni le razze empie degli tre figliuoli di Noè fussero andate in uno stato ferino, e con un ferino divagamento si fussero sparse e disperse per la gran selva della terra, e con l’educazione ferina vi fussero provenuti e ritruovati giganti nel tempo che la prima volta fulminò il cielo dopo il diluvio.
XLIII
196Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fu figliuolo di Giove; e Varrone, dottissimo dell’antichitá, ne giunse a noverare quaranta.
197Questa degnitá è ’l principio dell’eroismo de’ primi popoli, nato da una falsa oppenione: gli eroi provenir da divina origine.
198Questa stessa degnitá con l’antecedente, che ne dánno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli tralle nazioni gentili — oltreché ne dimostrano che non si poterono fondare senza religione né ingrandire senza virtú, essendono elle ne’ lor incominciamenti selvagge e chiuse, e perciò non sappiendo nulla l’una dell’altra, per la degnitá che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti, debbon aver un motivo comune di vero», — ne dánno di piú questo gran principio: che le prime favole dovettero contenere veritá civili, e perciò essere state le storie de’ primi popoli.
XLIV
199I primi sappienti del mondo greco furon i poeti teologi, i quali senza dubbio fioriron innanzi agli eroici, siccome Giove fu padre d’Ercole.
200Questa degnitá con le due altre antecedenti stabiliscono che tutte le nazioni gentili, poiché tutte ebbero i loro Giovi, i lor Ercoli, furono ne’ loro incominciamenti poetiche; e che prima tra loro nacque la poesia divina: dopo, l’eroica.
XLV
201Gli uomini sono naturalmente portati a conservar le memorie delle leggi e degli ordini che gli tengono dentro le loro societá.
XLVI
202Tutte le storie barbare hanno favolosi principi.
203Tutte queste degnitá, dalla quarantesimaseconda, ne danno il principio della nostra mitologia istorica.
XLVII
204La mente umana è naturalmente portata a dilettarsi dell’uniforme.
205Questa degnitá, a proposito delle favole, si conferma dal costume c’ha il volgo, il quale degli uomini nell’una o nell’altra parte famosi, posti in tali o tali circostanze, per ciò che loro in tale stato conviene, ne finge acconce favole. Le quali sono veritá d’idea in conformitá del merito di coloro de’ quali il volgo le finge; e in tanto sono false talor in fatti, in quanto al merito di quelli non sia dato ciò di che essi son degni. Talché, se bene vi si rifletta, il vero poetico è un vero metafisico, a petto del quale il vero fisico, che non vi si conforma, dee tenersi a luogo di falso. Dallo che esce questa importante considerazione in ragion poetica: che ’l vero capitano di guerra, per esemplo, è ’l Goffredo che finge Torquato Tasso; e tutti i capitani che non si conformano in tutto e per tutto a Goffredo, essi non sono veri capitani di guerra.
XLVIII
206È natura de’ fanciulli che con l’idee e nomi degli uomini, femmine, cose che la prima volta hanno conosciuto, da esse e con essi dappoi apprendono e nominano tutti gli uomini, femmine, cose c’hanno con le prime alcuna somiglianza o rapporto.
XLIX
207È un luogo d’oro quel di Giamblico, De mysteriis aegyptiorum, sopra arrecato, che gli egizi tutti i ritruovati utili o necessari alla vita umana richiamavano a Mercurio Trimegisto.
208Cotal detto, assistito dalla degnitá precedente, rovescerá a questo divino filosofo tutti i sensi di sublime teologia naturale ch’esso stesso ha dato a’ misteri degli egizi.
209E queste tre degnitá ne danno il principio de’ caratteri poetici, i quali costituiscono l’essenza delle favole. E la prima dimostra la natural inchinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro. La seconda dimostra ch’i primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessitá di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere simiglianti; per la qual simiglianza, le antiche favole non potevano fingersi che con decoro. Appunto come gli egizi tutti i loro ritruovati utili o necessari al gener umano, che sono particolari effetti di sapienza civile, riducevano al genere del «sappiente civile», da essi fantasticato Mercurio Trimegisto, perché non sapevano astrarre il gener intelligibile di «sappiente civile», e molto meno la forma di civile sapienza della quale furono sappienti cotal’egizi. Tanto gli egizi, nel tempo ch’arricchivan il mondo de’ ritruovati o necessari o utili al gener umano, furon essi filosofi e s’intendevano di universali, o sia di generi intelligibili!
210E quest’ultima degnitá, in séguito del l’antecedenti, è ’l principio delle vere allegorie poetiche, che alle favole davano significati univoci, non analogi, di diversi particolari compresi sotto i loro generi poetici. Le quali perciò si dissero «diversiloquia», cioè parlari comprendenti in un general concetto diverse spezie di uomini o fatti o cose.
L
211Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all’eccesso la fantasia, ch’altro non è che memoria o dilatata o composta.
212Questa degnitá è ’l principio dell’evidenza dell’immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo.
LI
213In ogni facilitá uomini, i quali non vi hanno la natura, vi riescono con ostinato studio dell’arte; ma in poesia è affatto niegato di riuscire con l’arte chiunque non vi ha la natura.
214Questa degnitá dimostra che, poiché la poesia fondò l’umanitá gentilesca, dalla quale e non altronde dovetter uscire tutte le arti, i primi poeti furono per natura.
LII
215I fanciulli vagliono potentemente nell’imitare, perché osserviamo per lo piú trastullarsi in assemprare ciò che son capaci d’apprendere.
216Questa degnitá dimostra che ’l mondo fanciullo fu di nazioni poetiche, non essendo altro la poesia che imitazione.
217E questa degnitá daranne il principio di ciò: che tutte l’arti del necessario, utile, comodo e ’n buona parte anco dell’umano piacere si ritruovarono ne’ secoli poetici innanzi di venir i filosofi, perché l’arti non sono altro ch’imitazioni della natura e poesie in un certo modo reali.
LIII
218Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.
219Questa degnitá è ’l principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini: onde queste piú s’appressano al vero quanto piú s’innalzano agli universali, e quelle sono piú certe quanto piú s’appropiano a’ particolari.
LIV
220Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor appartengono, naturalmente interpetrano secondo le loro nature e quindi uscite passioni e costumi.
221Questa degnitá è un gran canone della nostra mitologia, per lo quale le favole, truovate da’ primi uomini selvaggi e crudi tutte severe, convenevolmente alla fondazione delle nazioni che venivano dalla feroce libertá bestiale, poi, col lungo volger degli anni e cangiar de’ costumi, furon impropiate, alterate, oscurate ne’ tempi dissoluti e corrotti anco innanzi d’Omero. Perché agli uomini greci importava la religione; [onde], temendo di non avere gli dèi cosí contrari a’ loro voti come contrari eran a’ loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dèi, e diedero sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole.
LV
222È un aureo luogo quello d’Eusebio (dal suo particolare della sapienza degli egizi innalzato a quella di tutti gli altri gentili) ove dice: «Primam aegyptiorum theologiam mere historiam fuisse fabulis interpolatam: quarum quum postea puderet posteros, sensim coeperunt mysticos iis significatus affingere». Come fece Maneto, o sia Manetone, sommo pontefice egizio, che trasportò tutta la storia egiziaca ad una sublime teologia naturale, come pur sopra si è detto.
223Queste due degnitá sono due grandi pruove della nostra mitologia istorica, e sono insiememente due grandi turbini per confondere l’oppenioni della sapienza innarrivabile degli antichi, come due grandi fondamenti della veritá della religion cristiana, la quale nella sagra storia non ha ella narrazioni da vergognarsene.
LVI
224I primi autori tra gli orientali, egizi, greci e latini e, nella barbarie ricorsa, i primi scrittori nelle nuove lingue d’Europa si truovano essere stati poeti.
LVII
225I mutoli si spiegano per atti o corpi c’hanno naturali rapporti all’idee ch’essi vogliono significare.
226Questa degnità è ’l principio de’ geroglifici, co’ quali si truovano aver parlato tutte le nazioni nella loro prima barbarie.
227Quest’istessa è ’l principio del parlar naturale, che congetturò Platone nel Cratilo, e, dopo di lui, Giamblico, De mysteriis aegyptiorum, essersi una volta parlato nel mondo. Co’ quali sono gli stoici ed Origene, Contra Celso; e, perché ’l dissero indovinando, ebbero contrari Aristotile nella Periermenia e Galeno, De decretis Hippocratis et Platonis: della qual disputa ragiona Publio Nigidio appresso Aulo Gellio. Alla qual favella naturale dovette succedere la locuzion poetica per immagini, somiglianze, comparazioni e naturali propietá.
LVIII
228I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati pur cantando spediscono la lingua a prononziare.
LIX
229Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati e allegri.
230Queste due degnitá — supposto che gli autori delle nazioni gentili eran andat’in uno stato ferino di bestie mute, e che, per quest’istesso balordi, non si fussero risentiti ch’a spinte di violentissime passioni — [dánno a congetturare che] dovettero formare le prime loro lingue cantando.
LX
231Le lingue debbon aver incominciato da voci monosillabe; come, nella presente copia di parlari articolati ne’ quali nascon ora, i fanciulli, quantunque abbiano mollissime le fibbre dell’istrumento necessario ad articolare la favella, da tali voci incominciano.
LXI
232Il verso eroico è lo piú antico di tutti e lo spondaico il piú tardo, e dentro si truoverá il verso eroico esser nato spondaico.
LXII
233Il verso giambico è ’l piú somigliante alla prosa, e ’l giambo è «piede presto», come vien diffinito da Orazio.
234Queste due degnitá ultime dánno a congetturare che andarono con pari passi a spedirsi e l’idee e le lingue.
235Tutte queste degnitá, dalla quarantesimasettima incominciando, insieme con le sopra proposte per principi di tutte l’altre, compiono tutta la ragion poetica nelle sue parti, che sono: la favola, il costume e suo decoro, la sentenza, la locuzione e la di lei evidenza, l’allegoria, il canto e per ultimo il verso. E le sette ultime convincon altresí che fu prima il parlar in verso e poi il parlar in prosa appo tutte le nazioni.
LXIII
236La mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori nel corpo, e con molta difficultá per mezzo della riflessione ad intendere se medesima.
237Questa degnitá ne dá l’universal principio d’etimologia in tutte le lingue, nelle qual’i vocaboli sono trasportati da’ corpi e dalle propietá de’ corpi a significare le cose della mente e dell’animo.
LXIV
238L’ordine dell’idee dee procedere secondo l’ordine delle cose.
LXV
239L’ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le cittá, finalmente l’accademie.
240Questa degnitá è un gran principio d’etimologia: che secondo questa serie di cose umane si debbano narrare le storie delle voci delle lingue natie, come osserviamo nella lingua latina quasi tutto il corpo delle sue voci aver origini selvagge e contadinesche. Come, per cagion d’esempio, «lex», che dapprima dovett’essere «raccolta di ghiande», da cui crediamo detta «ilex», quasi «illex», l’elce (come certamente «aquilex» è ’l raccoglitore dell’acque), perché l’elce produce la ghianda, alla quale s’uniscon i porci. Dappoi «lex» fu «raccolta di legumi», dalla quale questi furon detti «legumina». Appresso, nel tempo che le lettere volgari non si eran ancor truovate con le quali fussero scritte le leggi, per necessitá di natura civile «lex» dovett’essere «raccolta di cittadini», o sia il pubblico parlamento; onde la presenza del popolo era la legge che solennizzava i testamenti che si facevano «calatis comitiis». Finalmente il raccoglier lettere e farne com’un fascio in ciascuna parola fu detto «legere».
LXVI
241Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, piú innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze.
LXVII
242La natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta.
LXVIII
243Nel gener umano prima surgono immani e goffi, qual’i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni affricani; piú a noi [vicini] gli appariscenti con grand’immagini di virtú che s’accompagnano con grandi vizi, ch’appo il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari; piú oltre i tristi riflessivi, qual’i Tiberi; finalmente i furiosi dissoluti e sfacciati, qual’i Caligoli, i Neroni, i Domiziani.
244Questa degnitá dimostra che i primi abbisognarono per ubbidire l’uomo all’uomo nello stato delle famiglie, e disporlo ad ubbidir alle leggi nello stato ch’aveva a venire delle cittá; i secondi, che naturalmente non cedevano a’ loro pari, per istabilire sulle famiglie le repubbliche di forma aristocratica; i terzi per aprirvi la strada alla libertá popolare; i quarti per introdurvi le monarchie; i quinti per istabilirle; i sesti per rovesciarle.
245E questa con l’antecedenti degnitá dánno una parte de’ principi della storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini.
LXIX
246I governi debbon essere conformi alla natura degli uomini governati.
247Questa degnitá dimostra che per natura di cose umane civili la scuola pubblica de’ principi è la morale de’ popoli.
LXX
248Si conceda ciò che non ripugna in natura e qui poi truoverassi vero di fatto: che dallo stato nefario del mondo eslege si ritirarono prima alquanti pochi piú robusti, che fondarono le famiglie, con le quali e per le quali ridussero i campi a coltura; e gli altri molti lunga etá dopo se ne ritirarono, rifuggendo alle terre colte di questi padri.
LXXI
249I natii costumi, e sopra tutto quello della natural libertá, non si cangiano tutti ad un tratto, ma per gradi e con lungo tempo.
LXXII
250Posto che le nazioni tutte cominciarono da un culto di una qualche divinitá, i padri nello stato delle famiglie dovetter esser i sappienti in divinitá d’auspici, i sacerdoti che sagrificavano per proccurargli o sia ben intendergli, e gli re che portavano le divine leggi alle loro famiglie.
LXXIII
251È volgar tradizione che i primi i quali governarono mondo furono re.
LXXIV
252È altra volgar tradizione ch’i primi re si criavano per natura i piú degni.
LXXV
253È volgar tradizione ancora ch’i primi re furono sappienti, onde Platone con vano voto disiderava questi antichissimi tempi ne’ quali o i filosofi regnavano o filosofavano i re.
254Tutte queste degnitá dimostrano che nelle persone de’ primi padri andarono uniti sapienza, sacerdozio e regno, e ’l regno e ’l sacerdozio erano dipendenze della sapienza, non giá riposta di filosofi, ma volgare di legislatori. E perciò, dappoi, in tutte le nazioni i sacerdoti andarono coronati.
LXXVI
255È volgar tradizione che la prima forma di governo al mondo fusse ella stata monarchica.
LXXVII
256Ma la degnitá sessantesimasettima con l’altre seguenti, e ’n particolare col corollario della sessantesimanona, ne dánno che i padri nello stato delle famiglie dovettero esercitare un imperio monarchico, solamente soggetto a Dio, cosí nelle persone come negli acquisti de’ lor figliuoli e molto piú de’ famoli che si erano rifuggiti alle loro terre, e sí che essi furono i primi monarchi del mondo, de’ quali la storia sagra hassi da intendere ove gli appella «patriarchi», cioè «padri principi». Il qual diritto monarchico fu loro serbato dalla legge delle XII Tavole per tutti i tempi della romana repubblica: «Patrifamilias ius vitae et necis in liberos esto»; di che è conseguenza: «Quicquid filius acquirit, patri acquirit».
LXXVIII
257Le famiglie non posson essere state dette, con propietá d’origine, altronde che da questi famoli de’ padri nello stato allor di natura.
LXXIX
258I primi soci, che propiamente sono compagni per fine di comunicare tra loro l’utilitá, non posson al mondo immaginarsi né intendersi innanzi di questi rifuggiti per aver salva la vita da’ primi padri anzidetti e, ricevuti per la lor vita, obbligati a sostentarla con coltivare i campi di tali padri.
259Tali si truovano i veri soci degli eroi, che poi furono i plebei dell’eroiche cittá, e finalmente le provincie de’ popoli principi.
LXXX
260Gli uomini vengono naturalmente alla ragione de’ benefizi, ove scorgano o ritenerne o ritrarne buona e gran parte d’utilitá, che son i benefizi che si possono sperare nella vita civile.
LXXXI
261È propietá de’ forti gli acquisti fatti con virtú non rillasciare per infingardaggine, ma, o per necessitá o per utilitá, rimetterne a poco a poco e quanto meno essi possono.
262Da queste due degnitá sgorgano le sorgive perenni de’ feudi, i quali con romana eleganza si dicono «beneficia».
LXXXII
263Tutte le nazioni antiche si truovano sparse di clienti e di clientele, che non si possono piú acconciamente intendere che per vassalli e per feudi, né da’ feudisti eruditi si truovano piú acconce voci romane per ispiegarsi che «clientes» e «clientelae».
264Queste tre ultime degnitá con dodici precedenti, dalla settantesima incominciando, ne scuoprono i principi delle repubbliche, nate da una qualche grande necessitá (che dentro si determina) a’ padri di famiglia fatta da’ famoli, per la quale andarono da se stesse naturalmente a formarsi aristocratiche. Perocché i padri si unirono in ordini per resister a’ famoli ammutinati contro essoloro; e, cosí uniti, per far contenti essi famoli e ridurgli all’ubbidienza, concedettero loro una spezie di feudi rustici; ed essi si truovaron assoggettiti i loro sovrani imperi famigliari (che non si posson intendere che sulla ragione di feudi nobili) all’imperio sovrano civile de’ lor ordini regnanti medesimi; e i capi ordini se ne dissero «re», i quali, piú animosi, dovettero loro far capo nelle rivolte de’ famoli. Tal origine delle cittá se fusse data per ipotesi (che dentro si ritruova di fatto), ella, per la sua naturalezza e semplicitá e per l’infinito numero degli effetti civili che sopra, come a lor propia cagione, vi reggono, dee fare necessitá di esser ricevuta per vera. Perché in altra guisa non si può al mondo intendere come delle potestá famigliari si formò la potestá civile e de’ patrimoni privati il patrimonio pubblico, e come truovossi apparecchiata la materia alle repubbliche d’un ordine di pochi che vi comandi e della moltitudine de’ plebei la qual v’ubbidisca: che sono le due parti che compiono il subbietto della politica. La qual generazione degli Stati civili, con le famiglie sol di figliuoli, si dimostrerá dentro essere stata impossibile.
LXXXIII
265Questa legge d’intorno a’ campi si stabilisce la prima agraria del mondo; né per natura si può immaginar o intendere un’altra che possa essere piú ristretta.
266Questa legge agraria distinse gli tre domini, che posson esser in natura civile, appo tre spezie di persone: il bonitario, appo i plebei; il quiritario, conservato con l’armi e, ’n conseguenza, nobile, appo i padri; e l’eminente, appo esso ordine, ch’è la Signoria, o sia la sovrana potestá, nelle repubbliche aristocratiche.
LXXXIV
267È un luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri politici ove, nella divisione delle repubbliche, novera i regni eroici, ne’ quali gli re in casa ministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, ed erano capi della religione.
268Questa degnitá cade tutta a livello ne’ due regni eroici di Teseo e di Romolo, come di quello si può osservar in Plutarco nella di lui Vita, e di questo sulla storia romana, con supplire la storia greca con la romana, ove Tulio Ostilio ministra la legge nell’accusa d’Orazio. E gli re romani erano ancora re delle cose sagre, detti «reges sacrorum»; onde, cacciati gli re da Roma, per la certezza delle cerimonie divine ne criavano uno che si dicesse «rex sacrorum», ch’era il capo de’ feciali o sia degli araldi.
LXXXV
269È pur luogo d’oro d’Aristotile ne’ medesimi libri ove riferisce che l’antiche repubbliche non avevano leggi da punire l’offese ed ammendar i torti privati; e dice tal costume esser de’ popoli barbari, perché i popoli per ciò ne’ lor incominciamenti son barbari perché non sono addimesticati ancor con le leggi.
270Questa degnitá dimostra la necessitá de’ duelli e delle ripresaglie ne’ tempi barbari, perché in tali tempi mancano le leggi giudiziarie.
LXXXVI
271È pur aureo negli stessi libri d’Aristotile quel luogo ove dice che nell’antiche repubbliche i nobili giuravano d’esser eterni nemici della plebe.
272Questa degnitá ne spiega la cagione de’ superbi, avari e crudeli costumi de’ nobili sopra i plebei, ch’apertamente si leggono sulla storia romana antica. Ché, dentro essa finor sognata libertá popolare, lungo tempo angariarono i plebei di servir loro a propie spese nelle guerre, gli anniegavano in un mar d’usure, che non potendo quelli meschini poi soddisfare, gli tenevano chiusi tutta la vita nelle loro private prigioni, per pagargliele co’ lavori e fatighe, e quivi con maniera tirannica gli battevano a spalle nude con le verghe come vilissimi schiavi.
LXXXVII
273Le repubbliche aristocratiche sono rattenutissime di venir alle guerre per non agguerrire la moltitudine de’ plebei.
274Questa degnitá è ’l principio della giustizia dell’armi romane fin alle guerre cartaginesi.
LXXXVIII
275Le repubbliche aristocratiche conservano le ricchezze dentro l’ordine de’ nobili, perché conferiscono alla potenza di esso ordine.
276Questa degnitá è ’l principio della clemenza romana nelle vittorie, ché toglievano a’ vinti le sole armi e, sotto la legge di comportevol tributo, rillasciavano il dominio bonitario di tutto. Ch’è la cagione per che i padri resistettero sempre all’agrarie de’ Gracchi: perché non volevano arricchire la plebe.
LXXXIX
277L’onore è ’l piú nobile stimolo del valor militare.
XC
278I popoli debbon eroicamente portarsi in guerra, se esercitano gare di onori tra lor in pace, altri per conservargli, altri per farsi merito di conseguirgli.
279Questa degnitá è un principio dell’eroismo romano dalla discacciata de’ tiranni fin alle guerre cartaginesi, dentro il qual tempo i nobili naturalmente si consagravano per la salvezza della lor patria, con la quale avevano salvi tutti gli onori civili dentro il lor ordine, e i plebei facevano delle segnalatissime imprese per appruovarsi meritevoli degli onori de’ nobili.
XCI
280Le gare, ch’esercitano gli ordini nelle cittá, d’uguagliarsi con giustizia sono lo piú potente mezzo d’ingrandir le repubbliche.
281Questo è altro principio dell’eroismo romano, assistito da tre pubbliche virtú: dalla magnanimitá della plebe di volere le ragioni civili comunicate ad essolei con le leggi de’ padri, e dalla fortezza de’ padri nel custodirle dentro il lor ordine, e dalla sapienza de’ giureconsulti nell’interpetrarle e condurne fil filo l’utilitá a’ nuovi casi che domandavano la ragione. Che sono le tre cagioni propie onde si distinse al mondo la giurisprudenza romana.
282Tutte queste degnitá, dalla ottantesimaquarta incominciando, espongono nel suo giusto aspetto la storia romana antica: le seguenti tre vi si adoprano in parte.
XCII
283I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi séguito, le promuovono; i principi, per uguagliar i potenti co’ deboli, le proteggono.
284Questa degnitá, per la prima e seconda parte, è la fiaccola delle contese eroiche nelle repubbliche aristocratiche, nelle qual’i nobili vogliono appo l’ordine arcane tutte le leggi, perché dipendano dal lor arbitrio e le ministrino con la mano regia. Che sono le tre cagioni ch’arreca Pomponio giureconsulto, ove narra che la plebe romana desidera la legge delie XII Tavole, con quel motto che l’erano gravi «ius latens, incertum et manus regia». Ed è la cagione della ritrosia ch’avevano i padri di dargliele, dicendo «mores patrios servandos», «leges ferri non oportere», come riferisce Dionigi d’Alicarnasso, che fu meglio informato che Tito Livio delle cose romane (perché le scrisse istrutto delle notizie di Marco Terenzio Varrone, il qual fu acclamato «il dottissimo de’ romani»), e in questa costanza è per diametro opposto a Livio, che narra intorno a ciò: i nobili, per dirla con lui, «desiderio plebis non aspernari». Onde, per questa ed altre maggiori contrarietá osservate ne’ Principi del Diritto universale, essendo cotanto tra lor opposti i primi autori che scrissero di cotal favola da presso a cinquecento anni dopo, meglio sará di non credere a niun degli due. Tanto piú che ne’ medesimi tempi non la credettero né esso Varrone, il quale nella grande opera Rerum divinarum et humanarum diede origini tutte natie del Lazio a tutte le cose divine ed umane d’essi romani; né Cicerone, il qual in presenza di Quinto Muzio Scevola, principe de’ giureconsulti della sua etá, fa dire a Marco Crasso oratore che la sapienza de’ decemviri di gran lunga superava quella di Dragone e di Solone, che diedero le leggi agli ateniesi, e quella di Ligurgo, che diedele agli spartani: ch’è lo stesso che la legge delle XII Tavole non era né da Sparta né da Atene venuta in Roma. E crediamo in ciò apporci al vero: che non per altro Cicerone fece intervenire Quinto Muzio in quella sola prima giornata che — essendo al suo tempo cotal favola troppo ricevuta tra’ letterati, nata dalla boria de’ dotti di dare origini sappientissime al sapere ch’essi professano (lo che s’intende da quelle parole che ’l medesimo Crasso dice: «Fremant omnes; dicam quod sentio») — perché non potessero opporgli ch’un oratore parlasse della storia del diritto romano, che si appartiene saper da’ giureconsulti (essendo allora queste due professioni tra lor divise); [onde], se Crasso avesse d’intorno a ciò detto falso, Muzio ne l’avrebbe certamente ripreso, siccome, al riferir di Pomponio, riprese Servio Sulpizio, ch’interviene in questi stessi ragionamenti, dicendogli «turpe esse patricio viro ius, in quo versaretur, ignorare».
285Ma, piú che Cicerone e Varrone, ci dá Polibio un invitto argomento di non credere né a Dionigi né a Livio, il quale senza contrasto seppe piú di politica di questi due e fiorí da dugento anni piú vicino a’ decemviri che questi due. Egli (nel libro sesto, al numero quarto e molti appresso, dell’edizione di Giacomo Gronovio) a piè fermo si pone a contemplare la costituzione delle repubbliche libere piú famose de’ tempi suoi, ed osserva la romana esser diversa da quelle d’Atene e di Sparta e, piú che di Sparta, esserlo da quella d’Atene, dalla quale, piú che da Sparta, i pareggiatori del gius attico col romano vogliono esser venute le leggi per ordinarvi la libertá popolare giá innanzi fondata da Bruto. Ma osserva, al contrario, somiglianti tra loro la romana e la cartaginese, la quale niuno mai si è sognato essere stata ordinata libera con le leggi di Grecia; lo che è tanto vero ch’in Cartagine era espressa legge che vietava a’ cartaginesi sapere di greca lettera. Ed uno scrittore sappientissimo di repubbliche non fa sopra ciò questa cotanto naturale e cotanto ovvia riflessione, e non ne investiga la cagion della differenza: — Le repubbliche romana ed ateniese, diverse, ordinate con le medesime leggi; e le repubbliche romana e cartaginese, simili, ordinate con leggi diverse? — Laonde, per assolverlo d’un’oscitanza sí dissoluta, è necessaria cosa a dirsi che nell’etá di Polibio non era ancor nata in Roma cotesta favola delle leggi greche venute da Atene ad ordinarvi il governo libero popolare.
286Questa stessa degnitá, per la terza parte, apre la via agli ambiziosi nelle repubbliche popolari di portarsi alla monarchia, col secondare tal disiderio naturail della plebe, che, non intendendo universali, d’ogni particolare vuol una legge. Onde Silla, capoparte di nobiltá, vinto Mario, capoparte di plebe, riordinando lo Stato popolare con governo aristocratico, rimediò alla moltitudine delle leggi con le Quistioni perpetue.
287E questa degnitá medesima per l’ultima parte è la ragione arcana perché, da Augusto incominciando, i romani principi fecero innumerabili leggi di ragion privata, e perché i sovrani e le potenze d’Europa dappertutto, ne’ loro Stati reali e nelle repubbliche libere, ricevettero il Corpo del diritto civile romano e quello del diritto canonico.
XCIII
288Poiché la porta degli onori nelle repubbliche popolari tutta si è con le leggi aperta alla moltitudine avara che vi comanda, non resta altro in pace che contendervi di potenza non giá con le leggi ma con le armi, e per la potenza comandare leggi per arricchire, quali in Roma furon l’agrarie de’ Gracchi; onde provengono nello stesso tempo guerre civili in casa ed ingiuste fuori.
289Questa degnitá, per lo suo opposto, conferma per tutto il tempo innanzi de’ Gracchi il romano eroismo.
XCIV
290La naturaL libertá è piú feroce quanto i beni piú a’ propi corpi son attaccati, e la civiL servitú s’inceppa co’ beni di fortuna non necessari alla vita.
291Questa degnitá, per la prima parte, è altro principio del naturaL eroismo de’ primi popoli; per la seconda, ella è ’l principio naturale delle monarchie.
XCV
292Gli uomini prima amano d’uscir di suggezione e disiderano ugualitá: ecco le plebi nelle repubbliche aristocratiche, le quali finalmente cangiano in popolari. Dipoi si sforzano superare gli uguali: ecco le plebi nelle repubbliche popolari, corrotte in repubbliche di potenti. Finalmente vogliono mettersi sotto le leggi: ecco l’anarchie, o repubbliche popolari sfrenate, delle quali non si dá piggiore tirannide, dove tanti son i tiranni quanti sono gli audaci e dissoluti delle cittá. E quivi le plebi, fatte accorte da’ propi mali, per truovarvi rimedio vanno a salvarsi sotto le monarchie; ch’è la legge regia naturale con la quale Tacito legittima la monarchia romana sotto di Augusto, «qui cuncta, bellis civilibus fessa, nomine ‘principis’ sub imperium accepit».
XCVI
293Dalla natia libertá eslege i nobili, quando sulle famiglie si composero le prime cittá, furono [fatti] ritrosi ed a freno ed a peso: ecco le repubbliche aristocratiche nelle qual’i nobili son i signori. Dappoi, dalle plebi, cresciute in gran numero ed agguerrite, indutti a sofferire e leggi e pesi egualmente coi lor plebei: ecco i nobili nelle repubbliche popolari. Finalmente, per aver salva la vita comoda, naturalmente inchinati alla suggezione d’un solo: ecco i nobili sotto le monarchie.
294Queste due degnitá con l’altre innanzi, dalla sessantesimasesta incominciando, sono i principi della storia ideal eterna la quale si è sopra detta.
XCVII
295Si conceda ciò che ragion non offende, col dimandarsi che dopo il diluvio gli uomini prima abitarono sopra i monti, alquanto tempo appresso calarono alle pianure, dopo lunga etá finalmente si assicurarono di condursi a’ lidi del mare.
XCVIII
296Appresso Strabone è un luogo d’oro di Platone, che dice, dopo i particolari diluvi ogigio e deucalionio, aver gli uomini abitato nelle grotte sui monti, e gli riconosce ne’ polifemi, ne’ quali altrove rincontra i primi padri di famiglia del mondo; dipoi, sulle falde, e gli avvisa in Dardano che fabbricò Pergamo, che divenne poi la ròcca di Troia; finalmente, nelle pianure, e gli scorge in Ilo, dal quale Troia fu portata nel piano vicino al mare e fu detta Ilio.
XCIX
297È pur antica tradizione che Tiro prima fu fondata entro terra, e dipoi portata nel lido del mar fenicio; com’è certa istoria indi essere stata tragittata in un’isola ivi da presso, quindi da Alessandro magno riattaccata al suo continente.
298L’antecedente postulato e le due degnitá che gli vanno appresso ne scuoprono che prima si fondarono le nazioni mediterranee, dappoi le marittime. E ne danno un grand’argomento che dimostra l’antichitá del popolo ebreo, che da Noè si fondò nella Mesopotamia, ch’è la terra piú mediterranea del primo mondo abitabile, e sí fu l’antichissima di tutte le nazioni. Lo che vien confermato perché ivi fondossi la prima monarchia, che fu quella degli assiri, sopra la gente caldea, dalla qual eran usciti i primi sappienti del mondo, de’ quali fu principe Zoroaste.
C
299Gli uomini non s’inducono ad abbandonar affatto le propie terre, che sono naturalmente care a’ natii, che per ultime necessitá della vita; o a lasciarle a tempo che o per l’ingordigia d’arricchire co’ traffichi, o per gelosia di conservare gli acquisti.
300Questa degnitá è ’l principio delle trasmigrazioni de’ popoli, fatta con le colonie eroiche marittime, con le innondazioni de’ barbari (delle quali sole scrisse Wolfango Lazio), con le colonie romane ultime conosciute e con le colonie degli europei nell’Indie.
301E questa stessa degnitá ci dimostra che le razze perdute degli tre figliuoli di Noè dovettero andar in un error bestiale, perché, col fuggire le fiere (delle quali la gran selva della terra doveva pur troppo abbondare) e coll’inseguire le schive e ritrose donne (ch’in tale stato selvaggio dovevan essere sommamente ritrose e schive), e poi per cercare pascolo ed acqua, si ritruovassero dispersi per tutta la terra nel tempo che fulminò la prima volta il cielo dopo il diluvio. Onde ogni nazione gentile cominciò da un suo Giove. Perché, se avessero durato nell’umanitá come il popolo di Dio vi durò, si sarebbero, come quello, ristati nell’Asia, che, tra per la vastitá di quella gran parte del mondo e per la scarsezza allora degli uomini, non avevano niuna necessaria cagione d’abbandonare, quando non è natural costume ch’i paesi natii s’abbandonino per capriccio.
CI
302I fenici furono i primi navigatori del mondo antico.
CII
303Le nazioni nella loro barbarie sono impenetrabili, che o si debbono irrompere da fuori con le guerre, o da dentro spontaneamente aprire agli stranieri per l’utilitá de’ commerzi. Come Psammetico aprí l’Egitto a’ greci dell’Ionia e della Caria, i quali, dopo i fenici, dovetter essere celebri nella negoziazione marittima; onde, per le grandi ricchezze, nell’Ionia si fondò il tempio di Giunone samia e nella Caria si alzò il mausoleo d’Artemisia, che furono due delle sette maraviglie del mondo. La gloria della qual negoziazione restò a quelli di Rodi, nella bocca del cui porto ergerono il gran colosso del Sole, ch’entrò nel numero delle maraviglie suddette. Cosí il Chinese, per l’utilitá de’ commerzi, ha ultimamente aperto la China a’ nostri europei.
304Queste tre degnitá ne danno il principio d’un altro etimologico delle voci d’origine certa straniera, diverso da quello sopra detto delle voci natie. Ne può altresí dare la storia di nazioni dopo altre nazioni portatesi con colonie in terre straniere. Come Napoli si disse dapprima Sirena con voce siriaca — ch’è argomento che i siri, ovvero fenici, vi avessero menato prima di tutti una colonia per cagione di traffichi; — dopo si disse Partenope con voce eroica greca, e finalmente con lingua greca volgare si disse Napoli — che sono pruove che vi fussero appresso passati i greci per aprirvi societá di negozi. — Ove dovette provenire una lingua mescolata di fenicia e di greca, della quale, piú che della greca pura, si dice Tiberio imperadore essersi dilettato. Appunto come ne’ lidi di Taranto vi fu una colonia siriaca detta Siri, i cui abitatori erano chiamati «siriti», e poi da’ greci fu detta Polieo, e ne fu appellata Minerva «poliade», che ivi aveva un suo tempio.
305Questa degnitá altresí dá i principi di scienza all’argomento di che scrisse il Giambullari: che la lingua toscana sia d’origine siriaca. La quale non potè provenire che dagli piú antichi fenici, che furono i primi navigatori del mondo antico, come poco sopra n’abbiamo proposto una degnitá; perché, appresso, tal gloria fu de’ greci della Caria e dell’Ionia, e restò per ultimo a’ rodiani.
CIII
306Si domanda ciò ch’è necessario concedersi: che nel lido del Lazio fusse stata menata alcuna greca colonia, che poi, da’ romani vinta e distrutta, fusse restata seppellita nelle tenebre dell’antichitá.
307Se ciò non si concede, chiunque riflette e combina sopra l’antichitá, è sbalordito dalla storia romana ove narra Ercole, Evandro, arcadi, frigi dentro del Lazio, Servio Tullio greco, Tarquinio Prisco figliuolo di Demarato corintio, Enea fondatore della gente romana. Certamente le lettere latine Tacito osserva somiglianti all’antiche greche, quando a’ tempi di Servio Tullio, per giudizio di Livio, non poterono i romani nemmeno udire il famoso nome di Pittagora, ch’insegnava nella sua celebratissima scuola in Cotrone, e non incominciaron a conoscersi co’ greci d’Italia che con l’occasione della guerra di Taranto, che portò appresso quella di Pirro co’ greci oltramare.
CIV
308È un detto degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la consuetudine è simile al re e la legge al tiranno; che deesi intendere della consuetudine ragionevole e della legge non animata da ragion naturale.
309Questa degnitá dagli effetti diffinisce altresi la gran disputa; «se vi sia diritto in natura o sia egli nell’oppenione degli uomini», la qual è la stessa che la proposta nel corollario dell’ottava: «se la natura umana sia socievole». Perché, il diritto natural delle genti essendo stato ordinato dalla consuetudine (la qual Dione dice comandare da re con piacere), non ordinato con legge (che Dion dice comandare da tiranno con forza), perocché egli è nato con essi costumi umani usciti dalla natura comune delle nazioni (ch’è ’l subbietto adeguato di questa Scienza), e tal diritto conserva l’umana societá; né essendovi cosa piú naturale (perché non vi è cosa che piaccia piú) che celebrare i naturali costumi: per tutto ciò la natura umana, dalla quale sono usciti tali costumi, ella è socievole.
310Questa stessa degnitá, con l’ottava e ’l di lei corollario, dimostra che l’uomo non è ingiusto per natura assolutamente, ma per natura caduta e debole. E ’n conseguenza dimostra il primo principio della cristiana religione, ch’è Adamo intiero, qual dovette nell’idea ottima essere stato criato da Dio. E quindi dimostra i catolici principi della grazia: ch’ella operi nell’uomo, ch’abbia la privazione, non la niegazione delle buon’opere, e sí ne abbia una potenza inefficace, e perciò sia efficace la grazia; che perciò non può stare senza il principio dell’arbitrio libero, il quale naturalmente è da Dio aiutato con la di lui provvedenza (come si è detto sopra, nel secondo corollario della medesima ottava), sulla quale la cristiana conviene con tutte l’altre religioni. Ch’era quello sopra di che Grozio, Seldeno, Pufendorfio dovevano, innanzi ogni altra cosa, fondar i loro sistemi e convenire coi romani giureconsulti, che diffiniscono «il diritto natural delle genti essere stato dalla divina provvedenza ordinato».
CV
311Il diritto natural delle genti è uscito coi costumi delle nazioni, tra loro conformi in un senso comune umano, senza alcuna riflessione e senza prender esemplo l’una dall’altra.
312Questa degnitá, col detto di Dione riferito nell’antecedente, stabilisce la provvedenza essere l’ordinatrice del diritto natural delle genti, perch’ella è la regina delle faccende degli uomini.
313Questa stessa stabilisce la differenza del diritto natural degli ebrei, del diritto natural delle genti e diritto natural de’ filosofi. Perché le genti n’ebbero i soli ordinari aiuti dalla provvedenza; gli ebrei n’ebbero anco aiuti estraordinari dal vero Dio, per lo che tutto il mondo delle nazioni era da essi diviso tra ebrei e genti; e i filosofi il ragionano piú perfetto di quello che ’l costuman le genti, i quali non vennero che da un duemila anni dopo essersi fondate le genti. Per tutte le quali tre differenze non osservate, debbon cadere gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio.
CVI
314Le dottrine debbono cominciare da quando cominciano le materie che trattano.
315Questa degnitá, allogata qui per la particolar materia del diritto naturail delle genti, ella è universalmente usata in tutte le materie che qui si trattano. Ond’era da proporsi tralle degnitá generali; ma si è posta qui, perché in questa piú che in ogni altra particolar materia fa vedere la sua veritá e l’importanza di farne uso.
CVII
316Le genti cominciarono prima delle cittá, e sono quelle che da’ latini si dissero «gentes maiores», o sia case nobili antiche, come quelle de’ padri de’ quali Romolo compose il senato e, col senato, la romana cittá. Come, al contrario, si dissero «gentes minores» le case nobili nuove fondate dopo le cittá, come furono quelle de’ padri de’ quali Giunio Bruto, cacciati gli re, riempiè il senato, quasi esausto per le morti de’ senatori fatti morire da Tarquinio superbo.
CVIII
317Tale fu la divisione degli dèi: tra quelli delle genti maggiori, ovvero dèi consagrati dalle famiglie innanzi delle cittá, — i quali appo i greci e latini certamente (e qui pruoverassi appo i primi assiri ovvero caldei, fenici, egizi) furono dodici (il qual novero fu tanto famoso tra i greci che l’intendevano con la sola parola δώδεεκα), e vanno confusamente raccolti in un distico latino riferito ne’ Principi del Diritto universale; i quali però qui, nel libro secondo, con una teogonia naturale, o sia generazione degli dèi naturalmente fatta nelle menti de’ greci, usciranno cosí ordinati: Giove, Giunone; Diana, Apollo; Vulcano, Saturno, Vesta; Marte, Venere; Minerva, Mercurio; Nettunno; — e gli dèi delle genti minori, ovvero dèi consagrati appresso dai popoli, come Romolo, il qual, morto, il popolo romano appellò Dio Quirino.
318Per queste tre degnitá, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio mancano ne’ loro princípi, ch’incominciano dalle nazioni guardate tra loro nella societá di tutto il gener umano, il quale, appo tutte le prime nazioni, come sará qui dimostrato, cominciò dal tempo delle famiglie, sotto gli dèi delle genti dette «maggiori».
CIX
319Gli uomini di corte idee stimano diritto quanto si è spiegato con le parole.
CX
320È aurea la diffinizione ch’Ulpiano assegna dell’equitá civile: ch’ella è «probabilis quaedam ratio, non omnibus hominibus naturaliter cognita (com’è l’equitá naturale), sed paucis tantum, qui, prudentia, usu, doctrina praediti, didicerunt quae ad societatis humanae conservationem sunt necessaria». La quale in bell’italiano si chiama «ragion di Stato».
CXI
321Il certo delle leggi è un’oscurezza della ragione unicamente sostenuta dall’autoritá, che le ci fa sperimentare dure nel praticarle, e siamo necessitati praticarle per lo di lor «certo», che in buon latino significa «particolarizzato» o, come le scuole dicono, «individuato»; nel qual senso «certuni» e «commune», con troppa latina eleganza, son opposti tra loro.
322Questa degnitá, con le due seguenti diffinizioni, costituiscono il principio della ragion stretta, della qual è regola l’equitá civile, al cui certo, o sia alla determinata particolaritá delle cui parole, i barbari, d’idee particolari, naturalmente s’acquetano, e tale stimano il diritto che lor si debba. Onde ciò che in tali casi Ulpiano dice: «lex dura est, sed scripta est», tu diresti, con piú bellezza latina e con maggior eleganza legale: «lex dura est, sed certa est».
CXII
323Gli uomini intelligenti stimano diritto tutto ciò che detta essa uguale utilitá delle cause.
CXIII
324Il vero delle leggi è un certo lume e splendore di che ne illumina la ragion naturale; onde spesso i giureconsulti usan dire «verum est» per «aequum est».
325Questa diffinizione come la centoundecima sono proposizioni particolari per far le pruove nella particolar materia del diritto natural delle genti, uscite dalle due generali, nona e decima, che trattano del vero e del certo generalmente, per far le conchiusioni in tutte le materie che qui si trattano.
CXIV
326L’equitá naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell’utilitá, poiché «sapienza», nell’ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura.
327Questa degnitá con l’altre due seguenti diffinizioni costituiscono il principio della ragion benigna, regolata dall’equitá naturale, la qual è connaturale alle nazioni ingentilite; dalla quale scuola pubblica si dimostrerá esser usciti i filosofi.
328Tutte queste sei ultime proposizioni fermano che la provvedenza fu l’ordinatrice del diritto natural delle genti, la qual permise che, poiché per lunga scorsa di secoli le nazioni avevano a vivere incapaci del vero e dell’equitá naturale (la quale piú rischiararono, appresso, i filosofi), esse si attenessero al certo ed all’equitá civile, che scrupolosamente custodisce le parole degli ordini e delle leggi, e da queste fussero portate ad osservarle generalmente anco ne’ casi che riuscissero dure, perché si serbassero le nazioni.
329E queste istesse sei proposizioni, sconosciute dagli tre principi della dottrina del diritto natural delle genti, fecero ch’essi, tutti e tre, errassero di concerto nello stabilirne i loro sistemi; perc’han creduto che l’equitá naturale nella sua idea ottima fusse stata intesa dalle nazioni gentili fin da’ loro primi incominciamenti, senza riflettere che vi volle da un duemila anni perché in alcuna fussero provenuti i filosofi, e senza privilegiarvi un popolo con particolaritá assistito dal vero Dio.