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Allorchè morì, dopo una lunga agonia, il vecchio barone Almichi, colei ch’era stata un tempo per i molti suoi conoscenti Mara, detta la Tizianesca pel colore fulvo dei suoi cappelli, si chiamò d’un tratto la baronessa Anna Maria Almichi, vestì gramaglie vedovili e si dispose a vendere l’antico palazzo di provincia dove s’era cristianamente spento il suo nobile consorte.
Egli aveva sposato al letto di morte, forse per scrupolo di coscienza timorata e forse più per un’amabile gratitudine di gentiluomo studioso e solitario, quella sua baldanzosa amica dai capelli ardenti e dall’andatura ondeggiante, la quale tornava a lui da quindici anni ad ogni mutar di stagione, quando i suoi adoratori incominciavano a disperdersi e le sue vesti a mancar di freschezza.
Ed ogni volta egli le aveva aperto le porte della sua casa non come ad un ospite di passaggio ma come a signora e padrona, felice di accogliere fra le grigie pareti del suo palazzo taciturno quella creatura luminosa come un sole, la quale rideva ad alta voce dove nessuno rideva