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l'ombra che scende


— Con Attilio, il mio fratellastro.

— Non vi rassomigliate?

— Affatto. Siamo diversissimi di viso, di persona e di carattere. Domani vi porterò alcune sue fotografie perchè possiate confrontarmi, per ora solo in effigie, con lui, e riconoscere ch’io sono infinitamente più simpatico, più piacevole e soprattutto più buon ragazzo, — promise Jacopo ridendo e si chinò a baciare con devota famigliarità le dita della baronessa nella quale persisteva, non ancora dissipata, l’ombra di una oscura molestia.

E fu con la più tranquilla semplicità di gesto con la più leggiera amenità di parole che il domani, finito appena di sorbire il caffè nella veranda aperta in faccia al parco denso di verde frescura, che Jacopo Reaziani si fece portare dal domestico una grande busta col nome impresso in oro di un celebre fotografo della capitale e traendone alcuni grandi ritratti, disse con scherzosa solennità:

— Ho l’onore di presentarvi, per ora solamente in carta, il signor Attilio Reaziani, di professione viveur, mio fratello.

Passò il largo cartoncino oscuro al di sopra della tavola e lo porse alla baronessa. Ella dava le spalle alla luce e poichè il suo volto sotto le tende a mezzo abbassate s’avvolgeva di penombra, nè Jacopo, nè Elda s’avvidero del guizzo


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