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amalia guglielminetti

mai, parlava con volubile gajezza dove non s’udivano che ordini severi e ossequiose risposte e si abbandonava con le mani dietro la nuca agitando il piedino irrequieto sotto la gonna corta, nelle grandi poltrone di cuoio dorato dove s’era seduta in un atteggiamento di rigida compostezza tutta una dinastia di austere e piissime baronesse Almichi.

Un giorno di primavera, tornando da una sfortunata sosta a Montecarlo, dove un amico straniero ch’ella credeva arcimilionario le aveva giocato e perduto persino le fibbie gemmate delle sue scarpette, Mara aveva trovato il vecchio palazzo del suo vecchio protettore ancora più cupo e più muto del consueto ed invece di sedere con lui alla tavola sontuosamente imbandita e infiorata di cui egli si compiaceva ad ogni suo ritorno, era stata introdotta dal canuto cameriere nella stanza da letto del barone, dove fra le tende sollevate dell’alcova, egli le tendeva con un pallido sorriso la sua mano scarnita.

— Non posso questa volta celebrare degnamente il ritorno della figliuola prodiga — aveva detto egli con debole voce scuotendo la sua lunga barba grigia sulla manina inguantata di Mara. Ed ella, sedendo incerta e contrariata accanto al letto, s’era a poco a poco sentita invasa da una pietà affettuosa, da una tenerezza quasi figliale per quel malato così debole, così solo,

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