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I. Verità di ragione e di fatto

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I.


VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO



Oggettivismo e armonia.La filosofia leibniziana ha ai suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico. Intendiamo dire con questo che non si trova al centro di essa alcun problema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra conoscenza del mondo esterno, né in genere che tratti dei rapporti fra conoscente e conosciuto. Il relativismo che deriva al sofista dall'osservazione che «l’uomo è misura di tutte le cose» è estraneo a Leibniz: egli studia il reale in sè stesso, nella sua essenza divina od umana, secondo le sue leggi razionali o empiriche. Egli parte dal dato di fatto del mondo in tutti i suoi aspetti, che vuole scrutare, comprendere, ridurre a unità, a formule semplici e facilmente apprendibili, trasportando nel campo filosofico e metafisico l'atteggiamento onde i suoi grandi predecessori o contemporanei, Copernico, Galileo, Newton, avevano improntato la loro indagine del mondo fisico: un tentativo di visione complessiva, armonica, coerente di tutti i latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano una spiegazione del tutto, quanto piú omogenea e lineare possibile. A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello di Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi da un solo principio posto inizialmente come unico valido. E, mentre con la filosofia cartesiana molti saranno i rapporti di Leibniz nella formulazione e nello sviluppo dei vari problemi, egli se ne differenzia però fondamentalmente per la sua concezione essenziale del mondo come un complesso a sè stante, di cui si debba ricercare un principio unificatore, e non come qualche cosa di inizialmente problematico, la cui esistenza e [p. 4 modifica]le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte. Se in quest'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea direttrice del moderno gnoseologismo e in genere della filosofia moderna, bisognerà dire che da tale direzione Leibniz si discosta, tenendosi piuttosto per questo riguardo sulla linea del pensiero greco, in un atteggiamento che potremmo avvicinare a quello di Aristotele.

La filosofia (sapientia) consiste essenzialmente nella conoscenza perfettissima della natura. E da che cosa, se non dalla filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza non solo l'essenza e le funzioni della natura, ma la cura speciale che essa ha per ogni singola cosa, e il fatto che essa non si è limitata a creare ima volta le cose dal nulla, ma continuamente le crea e risuscita? Devo dire che, quando ebbi compreso tutta la forza di questi ragionamenti, esultai e mi rallegrai per la filosofia, la quale sembra finalmente volersi l'appacificare con la religione; con la quale, non per sua colpa, ma per le opinioni e i giudizi temerari degli uomini, o anche a causa di espressioni e termini mal scelti, sembrava male conciliarsi. Cessino dunque gli uomini pii e accesi dallo zelo della gloria divina, di aver timore della ragione; basta che si studino di raggiungere la ragione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino di riferire tutto all'immaginazione e a figure, e di accusare come vanitá o impostura tutto ciò che si oppone a quelle nozioni crasse e materiali, nelle quali taluni credono di poter circoscrivere tutta la natura.

(Dialogo Pacidius Philalethi, 1676, C., 626).


Questo studio oggettivo della natura nelle sue leggi, e questo sforzo di una visione unitaria del tutto, conduce Leibniz a complessi e armonici panorami, in cui fede e ragione, mondo divino e mondo umano, scienze naturali e scienze metafisiche si organizzano in un ordine omogeneo. L'armonia è ciò cui egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore. Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia universale è al centro dei suoi pensieri. [p. 5 modifica]

I fisici dei nostri tempi, ricercando le cause materiali delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la sapienza dell'Autore supremo riluce principalmente nell'aver così costruito l'orologio del mondo, che tutto ne derivasse come per necessitá, per la suprema armonia dell'universo. Vi è dunque bisogno di filosofi naturali che non introducano soltanto la geometria nel campo delle scienze fisiche (dato che la geometria manca di cause finali) ma rendano anche manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione, per così dire, civile. Il mondo è infatti come una grande repubblica in cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi (cittadini o nemici) le altre creature agli schiavi.

(Lettera al Thomasius, 1070, G. 1,.12-33).


In questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i modi di considerazione del mondo si conciliano ed unificano.


Risolvere inizialmente il labirinto del continuo e del movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti gli ingegni, è impresa di grande importanza per stabilire i fondamenti delle scienze e rintuzzare la vanagloria degli scettici; per dare una solida base alla geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli infiniti, generatrici di tanti e così importanti teoremi; per elaborare un'ipotesi fisica di coerenza universale; infine, e questo è l'essenziale, per arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche, e finora mai raggiunte, sull'intima essenza del pensiero e sull'eternità dello spirito1 e sulla causa prima. Di qui sgorgano le fonti della bontá e dell’equitá, del diritto e delle leggi, così chiare e limpide, così piccole d'estensione e insieme profonde di contenuto, da poter valere come grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di qualsiasi problema, con una compendiosità stupefacente per [p. 6 modifica]chi ne faccia uso, e di cui il volgo, io credo, non ha neppure l'idea2.

(Hypothesis phyaica nova, Theoria motus abstracti, 1671, pref., G. IV 226).


A quest'idea della coincidenza di ogni forma di realtà e di ogni metodo d'indagine nella suprema armonia e coerenza della natura, si riallacciano i progetti, perseguiti da Leibniz lungo tutta la sua carriera, di un'organizzazione sistematica delle scienze, di un'Enciclopedia in cui di tutto il sapere si desse una visione complessiva, concordante e concatenantesi in tutte lo sue parti; progetti, questi, che richiamano alla Pansofia comoniana3 e per realizzare i quali Leibniz si fece promotore di società scientifiche e fondatore di accademie.

Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in alcun modo da un concepire tutte le scienze come prodotto dello spirito umano, quindi soggette alle leggi di esso; essa è l'espressione di una realtà divina oggettiva, a sé stante, con le sue leggi concordanti e armoniche. La scienza scopre questa unità noi mondo, attraverso lo leggi dello spirito, che corrispondono, in virtú dell armonia stessa, alle leggi del mondo.

Verità di ragione e di fatto.Questa realtà oggettiva può presentarsi sotto due aspetti: come verità di ragione o verità di fatto; anno questi i due modi di essere del reale, retto ciascuno da leggi proprie, ciascuno con proprie inconfondibili caratteristiche, cui corrispondono poi anche i due diversi modi di apprensione del reale: razionale e sensibile. Ecco due definizioni di questi due tipi di verità, prese da due opere distantissime per data e per argomento:

Le verità di ragione sono necessarie, quelle di fatto sono contingenti. Le verità primitive di ragione sono [p. 7 modifica]quelle che io chiamo con nome generale identiche, poiché sembra che esse non facciano che ripetere la medesima cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono affermative o negative. Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni cosa è ciò che è, e in qualsivoglia esempio A è A, B è B; io sarò quel che sarò; ho scritto quel che ho scritto....

Le proposizioni copulative, le disgiuntive, e altre, sono pure suscettibili di tale identità; e io considero affermativa anche la seguente: Non-A è non-A; e l'ipotetica: se A è non-B, ne segue che A è non-B. Similmente se non-A è BC, ne segue che non-A è BC....

Vengo ora a parlare delle identiche negative che sono rette o dal principio di contraddizione4 o da quello dei disparati. Il principio di contraddizione è in generale il seguente: una proposizione è vera o falsa. Il che contiene due enunciazioni vere: l'una che il vero e il falso non sono compatibili nella medesima proposizione, ovvero che una proposizione non può esser vera e falsa contemporaneamente; l'altra che l'opposto o la negazione del vero e del falso non sono compatibili, ovvero che non vi è via di mezzo fra il vero e il falso; o, in altri termini, che non è possibile che una proposizione non sia né vera né falsa5. Ora, tutto ciò è vero anche in tutte le proposizioni particolari immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe essere non-A....

Quanto ai disparati, sono quelle proposizioni che dicono che l'oggetto di un'idea non è l'oggetto di un'altra idea; per esempio, che il calore non è la medesima cosa che il colore, oppure che uomo e animale non sono la medesima cosa, per quanto ogni uomo sia animale. Tutto questo si può stabilire indipendentemente da qualsiasi [p. 8 modifica]prova o dalla riduzione all'assurdo o al principio di contraddizione, quando tali idee siano abbastanza evidenti da non aver bisogno di analisi: ma in caso contrario c'è pericolo d'ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e trilatero non sono la medesima cosa, si cadrebbe in errore: perchè, a ben considerare, si vede che i tre lati e i tre angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il rettangolo quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa, si sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a quattro lati può avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può sempre dire in astratto che il triangolo non è il trilatero, o che le ragioni formali6 del triangolo e del trilatero non sono le medesime, per dirla coi filosofi. Sono espressioni diverse della medesima cosa.

Taluno, dopo aver ascoltato con pazienza ciò che abbiamo detto finora, la perderà infine, e dirà che noi ci divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che tutte le verità identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipenderrebbe dal non aver abbastanza meditato su queste materie. Le dimostrazioni di logica, per esempio, procedono dai principi dell'identità: e i geometri hanno bisogno del principio di contraddizione nello loro dimostrazioni per assurdo. Contentiamoci qui di mostrare l'uso delle proposizioni identiche nelle dimostrazioni degli sviluppi di ragionamento.

Segue lo sviluppo di queste tesi e altre considerazioni sull'applicazione del principio di contraddizione ai procedimenti logici.

Ciò mostra che anche le più pure e apparentemente inutili fra le proposizioni identiche, sono di grande utilità [p. 9 modifica]nei procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare che non si deve disprezzare nessuna verità....

Quanto alle verità primitive di fatto, sono le esperienze immediate interne di una immediatezza di sentimento.

(Nuovi saggi, 1701 segg., IV, 2, § 1).


Bisogna avvertire che tutta l'arte combinatoria7 si rivolge a teoremi, o proposizioni di verità eterna, che hanno validitá non per arbitrio di Dio, ma per loro propria natura. Quanto alle proposizioni singolari e per così dire storiche, come p. es. «Augusto fu imperatore dei Romani». o alle osservazioni cioè alle proposizioni che sono sì universali, ma la cui verità non si fonda sull'essenza ma sull'esistenza, e che sono vere quasi per caso, cioè per arbitrio di Dio. come p. es. «tutti gli uomini adulti in Europa hanno cognizione di Dio»; di tali proposizioni non si dá dimostrazione, ma induzione, salvo il caso in cui sia possibile dedurre un'osservazione da un'altra osservazione attraverso un teorema. A tali osservazioni si riferiscono tutte le proposizioni particolari che non siano inverse o subalterne di una universale8. È chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che dell'individuale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il profondissimo Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi degli altri argomenti in cui le proposizioni sono contingenti e le ragioni probabili, mentre il luogo delle dimostrazioni è uno solo: la definizione9. Ma quando di una cosa si deve dire ciò che non si desume dalle sue stesse viscere, [p. 10 modifica]p. es. che Cristo è nato a Betlemme, nessuno potrà arrivare a tali proposizioni attraverso le definizioni, ma la materia sarà fornita dalla storia, e i testi sovverranno alla memoria.

(Ars Combinatoria, 1666, G. IV, 69-70).


La verità di ragione si fondano dunque su puri principi logici; quelle di fatto invece sull'esperienza. Le une riguardano l'essenza', le altre l'esistenza, quelle il necessario, queste il contingente.

Le verità di ragione sono analitiche. Esse non tanno ohe sviluppare ciò che è già contenuto nelle viscere di ciascun concetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra conoscenza delle cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo. Le scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche; i principi su cui si fondano sono quelli di non contradizione, del terzo escluso, che poi si riducono tutti al principio di identità.

Le verità di fatto sono empiriche. Nelle proposizioni che da esse derivano il predicato non è, come in quelle di ragione, già contenuto nel soggetto: vi si aggiunge come qualche cosa di nuovo, che lo aumenta ed arricchisce, ma che non gli appartiene necessariamente per la sua stessa essenza; la cui presenza deve invece essere concretamente constatata, sperimentata volta per volta. Ad esse si applica l'induzione; di esse si occupano le scienze naturali, quello storiche, tutte le indagini che partono dal dato concreto e contingente. Si reggono, queste verità, sul principio di causalità o di ragion sufficiente. (Cfr. p. 17 ss.).

le verità di ragione come possibiliLe verità di ragione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio della assoluta certezza e necessità, o dell'impossibilità del contrario; esse costituiscono una incrollabile base su cui tutta la realtà poggia, un punto di riferimento assoluto e infallibile. D'altra parte, però, hanno una staticità che non permette loro alcuno sviluppo nè variazione: rimangono immobili nella loro fissità. Le verità di fatto, invece, sono bensì casuali, contingenti; non dipendono da nessuna legge a priori; ma appunto questo carattere di non poter venir dedotte da principi già conosciuti, quindi di non essere mai dimostrabili, ma solamente percepibili attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di ciò che è nuovo, imprevisto, mutevole; le pone come l'espressione della [p. 11 modifica]realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire che le verità di ragione costituiscono l'ordine necessario di relazioni, di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi la cornice, la forma della realtà: e le verità di fatto il contenuto, la realtà stessa in tutti i suoi particolari. E infatti, le verità di ragione vengono da Leibniz concepite piuttosto come relazioni che come cose, il che egli esprime col dire che le verità di ragione, necessarie, ci dànno la sola possibilità delle cose, che non implica ancora affatto la loro realtà effettiva.

Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si può immaginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse avvenire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata o dovesse divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe null'altro che la necessità e non vi sarebbe nè scelta nè provvidenza.

(Polemica pubblicata nel Journal des Savants, 1697, G. IV, 341).


Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione, può assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la realtà; la quale poi concretamente si manifesta in una sola di esse. Ciò che noi vediamo e sperimentiamo è la realtà di fatto, che si svolge e manifesta entro l'ambito segnatole dai principi della ragione (infatti qualsiasi fatto concreto non potrebbe derogare al principio di non contradizione). Tali principi però potrebbero inquadrare infinite altre forme di realtà, diverse da quella di questo mondo, concretamente esistente. È questo il principio dell'infinità dei mondi possibili, cioè dell'infinità delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di ragione, schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi realtà.

Quando dico che vi è un'infinità di mondi possibili, intendo che non implichino contradizione, così come si possono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia possibili. Per essere possibile basta che una cosa sia intelligibile.

(Lettera al Bourguet, 1712, G. III, 558).


È chiaro quale sia un'idea vera e quale falsa. Vera è un'idea, quando la nozione ne è possibile, falsa quando [p. 12 modifica]implica contradizione. La possibilità di una cosa, poi, la conosciamo a priori o a posteriori. A priori, quando risolviamo una nozione nei suoi elementi, cioè in altre nozioni di riconosciuta possibilità e sappiamo che in esse nulla vi è di contradittorio...; a posteriori quando sperimentiamo attualmente resistenza della cosa: infatti ciò che esiste o è esistito attualmente, è senz'altro possibile10. E ogni qualvolta si ha una conoscenza adeguata, si ha la conoscenza della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a termine, se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è certamente possibile.

(Meditationes de Cogitinone, Veritate et Ideis, 1684, G. IV, 425).


Alle verità di ragione e di fatto corrispondono anche i due modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma quelle verità appartengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In questo senso si deve intendere l'opposizione di Leibniz alle idee chiare e distinte poste da Cartesio come criterio delle veritá di ragione. Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi evidenza conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.

Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la nostra percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del fatto che il circolo sia la figura di massima area con dato perimetro non sarebbe secondo lui altrimenti riconoscibile se non attraverso la chiara e distinta percezione che noi abbiamo di tale sua proprietà. E se Dio avesse conformato la nostra natura in modo che noi avessimo chiara e distinta percezione del contrario, il contrario sarebbe vero. Questa è la sua opinione, che io non approvo punto. E non è assolutamente vero quel suo principio metafisico universale, che di tutte le cose che pensiamo o di cui ragioniamo sia necessariamente in noi l'idea, p. es. del [p. 13 modifica]poligono di mille lati o dell'ente sommamente perfetto: principio col quale, come armato dello scudo di Achille, egli disprezzo non senza arroganza tutti coloro che dubitarono delle sue dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale argomento, egli avrebbe certo potuto facilmente far sì che in noi fosse anche l'idea di cose impossibili, p. es. del movimento sommamente veloce; fra le quali cose impossibili, coloro che vogliono opporsi alle sue dimostrazioni porranno anche l'ente sommamente perfetto, lo so, per parte mia, che altro è l'ente sommamente perfetto e altro il movimento sommamente veloce: ritengo però che i ragionamenti di Cartesio siano imperfetti, e che chi li voglia condurre a compimento, vi debba aggiungere molto di suo.

(Frammento del 167711, G. IV, 271-5).


Dio e le verità di ragione e di fatto. - Con queste affermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al criterio oggettivo della possibilità logica, o «non contradizione». E a questo criterio sottomette anche il concetto dell’'ente sommamente perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova ontologica dell esistenza di Dio12. L'idea dell'ente sommamente perfetto, egli dice, potrebbe essere contradittoria, come quella della velocità massima o del numero più grande di tutti (idee contradittorie, queste, perché sarà sempre possibile concepire una velocità o un numero maggiori di una qualsiasi altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si potrà mai giungere al massimo) Dell'ente perfettissimo, dunque, non basta aver l'idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità, dimostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle nostre rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne di ragione. [p. 14 modifica]

L'obiezione di Leibniz contro la prova ontologica si ferma generalmente a questa dichiarazione di incompletezza; e non mancano poi in lui le affermazioni che l'ente sommamente perfetto sia effettivamente possibile e implichi la propria esistenza. Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che le verità di ragione e quelle di fatto appartengono a due sfere diverse e - per così dire incommensurabili, sì che non sia possibile far rientrare l'una nel campo dell'altra.

Ma in generale non si può dire che Leibniz si preoccupi troppo di provare resistenza di Dio. Abbiamo già visto che il suo problema non è tanto di dimostrare e dedurre i concetti fondamentali del suo sistema, quanto di organizzarli in unità armonica. Dio è una premessa dalla quale Leibniz parte, non una conclusione cui egli arrivi.

Quale ora il rapporto fra Dio e le verità di ragione e di fatto? Anche a questo proposito la posizione di Leibniz si contrappone a quella di Cartesio; il quale, dedotta a priori l'esistenza di Dio, fa poi discendere da Dio, per un atto libero della sua volontà, tutto il mondo delle verità, sia di ragione, sia di fatto13. A questa dipendenza delle verità di ragione dall'arbitrio divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono rappresentato, in queste verità, relazioni assolute regolatrici dell'universo, tali ohe in esso si devono inquadrare perfino i decreti della volontà divina. Si è già visto che le verità di ragione valgono «non per l'arbitrio divino ma per loro propria natura»; e tale opinione circola in tutti gli scritti di Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza.

È necessario che tutto si rifaccia ad una qualche ragione, nè ci si deve fermare finché non si arrivi alla prima.... [p. 15 modifica]E quale è dunque l'ultima ragione della volontà divina? L'intelletto divino. Quale la ragione dell'intelletto divino? L'armonia delle cose. Quale dell'armonia delle cose? Nulla. Per esempio, della proposizione 2 : 4 = 4 : 8 non si può dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa volontà divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea delle cose.

(Frammento De resurrectione corporum, 1671, Ak. II, I, 117).


L'intelletto divino è insomma determinato dalle verità di ragione, e la volontà divina non può agire se non nell'ambito segnato da esse. La volontà divina, ora, si esplica nelle verità di fatto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per un atto libero della sua volontà.


Dio è la ragione prima delle cose: poiché quelle che sono limitate, come tutto ciò che noi vediamo e sperimentiamo, sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro esistenza necessaria; essendo chiaro che il tempo, lo spazio e la materia, uniti e uniformi in sé stessi, e indifferenti a tutto, avrebbero potuto ricevere movimenti e figure totalmente diversi e in tutt'altro ordine. Bisogna dunque cercare la ragione dell'esistenza del mondo, che è tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla nella sostanza che contiene la ragione della sua esistenza in se stessa14, e che, per conseguenza, è necessaria ed eterna. Bisogna pure che tale causa sia intelligente: poiché dato che questo mondo che esiste è contingente, essendo egualmente possibili ed egualmente pretendenti all'esistenza per così dire al pari di esso una infinità di altri mondi, bisogna che la causa del mondo abbia avuto rapporto e riguardo a tutti questi mondi possibili, por determinarne uno. E questo riguardo o rapporto di una [p. 16 modifica]sostanza esistente con semplici possibilitá, non può essere altro che l'intelletto che ne ha le idee; e a determinarne una non può essere altro che l'atto della volontà che sceglie. Ed è la potenza di questa sostanza che ne rende la volontà efficace. La potenza tende all'essere, la saggezza o l'intelletto al vero, la volontà al bene. E questa causa intelligente deve essere infinita in tutti i modi, e assolutamente perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché essa tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è connesso, non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo intelletto è la fonte delle essenze, la sua volontà è l'origine delle esistenze. Ecco in poche parole la prova di un Dio unico con le sue perfezioni e, per suo mezzo, l'origine delle cose.

(Teodicea, 1710, § 7).


Le verità di ragione sono dunque il contenuto dell'intelletto di Dio, le verità di fatto il prodotto della sua volontà, fra le infinite possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi del principio di non contradizione, Dio ne sceglie una, e la pone in atto. Anche in questo, Leibniz si oppone a Cartesio, il quale ritiene che la materia assuma tutte le forme possibili. Egli cita, per confutarlo, questo passo dei Principî di Filosofia (parte III, art. 47): «Poiché la materia assume successivamente tutte le forme di cui è capace, se consideriamo ordinatamente queste forme, giungeremo infine a quella che appartiene a questo nostro mondo, in modo che non sia da temere alcun errore per colpa di una eventuale falsa ipotesi»15. Leibniz risponde:


Non credo che si possa enunciare una proposizione piú pericolosa di questa. Poiché, se la materia riceve successivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non si [p. 17 modifica]possa immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto bizzarro e contrario a quello che noi chiamiamo giustizia, che non sia accaduto o che non debba accadere un giorno.... È questo, a mio avviso, il πρώτον ψεύδος (primo inganno) e il fondamento della filosofia atea, la quale non tralascia mai, in apparenza, di dire belle cose di Dio. Ma la vera filosofia deve darci ben altra nozione della perfezione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica, quanto nella morale.

(Lettera al Philippi, 1680, G. IV, 283-4).


Il principio di ragion sufficiente. La realtà contingente posta in atto da Dio è il mondo sensibile che noi sperimentiamo. Per la giustificazione di esso, le immutabili leggi della logica non sono sufficienti. Il mondo, la realtà di fatto è, ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da quello che è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. Il principio logico che si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è il principio di non contradizione, ma quello di ragion sufficiente, quel principio cioè per cui da un dato di fatto si risale alla sua causa, e da essa di nuovo alla causa, e così fino alla causa prima, cioè Dio.

Il principio universale nihil esse sine ratione16 risolve quasi tutte le discussioni metafisiche.... Nulla avviene, del cui esser stato prodotto piuttosto che non essere stato (cur factum sit polius quam non sit) Dio, se voglia, non possa render ragione.

(Frammento sulla Scientia Media, 1677, C. 25).

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Ora bisogna elevarsi alla metafisica, servendoci del gran principio, comunemente poco impiegato, il quale afferma che nulla si verifica senza una ragione sufficiente, cioè che nulla accade senza che sia possibile a colui che conosca sufficientemente le cose, di dare una ragione che basti a determinare perché è così e non altrimenti. Posto questo principio, la prima domanda che si avrà il diritto di porre, sarà: Perché vi è qualche cosa piuttosto che nulla? poiché il nulla è più semplice e più facile che il qualche cosa. Inoltre, supposto che cose debbano esistere, bisogna che si possa rendere ragione del perché esse debbano esistere così, e non altrimenti.

Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell'universo non si può trovare nell'ordine delle cose contingenti, cioè dei corpi e delle loro rappresentazioni nelle anime: poiché, essendo la materia indifferente in sé stessa al movimento e al riposo e a questo movimento o ad un altro, non si può trovare in essa la ragione del movimento e ancor meno di questo movimento. E. benché il movimento attuale che è nella materia derivi dal precedente, e questo ancora da un precedente, non si avanzerà affatto, per quanto lontani si possa andare: poiché resterà sempre la medesima domanda. Così bisogna che quella ragione sufficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione, sia fuori di questo ordine di cose contingenti, e si trovi in una sostanza che ne sia la causa o che sia un essere necessario il quale porti con sè la ragione della sua esistenza: altrimenti non si avrebbe mai una ragione sufficiente, alla quale arrestare il processo. E questa ultima ragione delle cose è chiamata Dio.

(Principes de la nature et de la grane, 1713-14, G. VI, 602).


La causa finale e il «migliore». — Dio è dunque la causa o ragion sufficiente rii tutte le verità di fatto, cioè del mondo sensibile. Ma con quale criterio ha egli scelto, nella sua [p. 19 modifica]creazione, fra le infinite possibilità che gli si offrivano, proprio questa e non un altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta?

Nulla avviene senza un perché sufficiente, o senza una ragione determinante. In virtù di questo principio, che ci conduce oltre i limiti raggiunti dai nostri predecessori, Dio non cambia mai volontà e operazione senza averne qualche valida ragione. E quando la cosa di cui si tratta è di natura uniforme e semplice, siamo in condizione di giudicare (per quanto povere creature si sia) se vi può essere una ragione o no. Quando la volontà di Dio è impiegata da sola, senza che nella natura delle creature vi sia la ragione di questa volontà, né il modo del suo operare, si tratta di un puro miracolo: criterio poco opportuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che i pianeti si muovessero in linea curva senza essere spinti da altri corpi. ....Ogni volta che noi conosciamo qualche cosa delle opere di Dio, vi troviamo dell'ordine.

(Lettera allo Hartsoeker, 1711. G. III, 52D).


Il principio della ragion sufficiente, dunque, come vale per risalire attraverso le cause dai dati esistenti fino a Dio, così lieve essere applicato a Dio stesso, il quale, creando questo mondo, non ha agito arbitrariamente, ma è stato guidato da un criterio della sua azione. Non ha agito, neppur lui, senza una ragione del suo agire; e questa ragione che, determina la sua volontà, è il criterio del massimo bene, della massima perfezione.

A questo criterio Dio si è ispirato nel creare il mondo, e a questo criterio si deve ricorrere dunque come alla ultima ragione di tutta la creazione. Il bene e la perfezione come motivo dell'esistenza delle cose, viene chiamato causa finale.

Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere le cause finali dalla considerazione fisica, come pretende Descartes nei Principî di Filosofia, parte 1, art. 28, sia piuttosto per mezzo di esse che tutto si debba determinare, poiché [p. 20 modifica]la causa efficiente delle cose è intelligente, avendo una volontá e perciò tendendo al bene.

(Lettera al Philippi, 1680, G. IV, 281).


Dio mette in opera, dunque, uno solo degli infiniti mondi possibili; ma è retto da un criterio in tale creazione. Questo criterio fa sì che il mondo da lui scelto sia il migliore fra i mondi possibili.

Questa infinita saggezza, unita ad una bontà non meno infinita, non ha potuto fare a meno di scegliere il migliore; poiché, come il male minore è, in certo senso, un bene, così mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa ostacolo ad un bene più grande: e vi sarebbe qualche cosa da correggere nelle azioni di Dio, se vi fosse modo di far meglio. E come in matematica, quando non vi è né massimo né minimo e nulla, insomma, di distinto, tutto avviene ugualmente, o, quando ciò è impossibile, non avviene addirittura nulla; si può dire lo stesso a proposito della perfetta saggezza, la quale non è mono regolata che la matematica: che, se non ci fosse stato il migliore (optimum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe prodotto nessuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutto l'insieme di tutte le cose esistenti, affinché non si dica che più mondi hanno potuto esistere in differenti tempi e in differenti luoghi. Giacché bisognerebbe considerarli tutti insieme come un solo mondo, o se volete, come un universo. E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi, resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in una infinità di maniere, e che vi è ima infinità di mondi possibili, di cui Dio deve aver scelto il migliore, perché egli non fa nulla senza agire secondo la suprema ragione.

(Teodicea, 1710, § 8).


Dio dunque non sceglie arbitrariamente. Anche qui egli si ispira ad un principio - il principio del migliore - che regola [p. 21 modifica]la sua azione nel metterò in opera la realtà del mondo. In che cosa consiste questo principio? Che cos'è il «migliore», questa causa finale delle verità di fatto? Un criterio di massima realizzazione, di massima perfezione, di massima felicità, bontà, etc.: insomma di armonia, che tende a che nei limiti della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza possibile.

Discende dalla perfezione suprema di Dio che, producendo l'universo, egli abbia scelto il miglior piano possibile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo ordine; il terreno, il luogo, il tempo meglio organati; il massimo effetto prodotto coi mezzi più semplici; il massimo di potenza, il massimo di conoscenza, il massimo di felicità e di bontà nelle creature, ammissibile nell'universo. Infatti, dato che tutti i possibili pretendono all'esistenza nell'intelletto di Dio in proporzione delle loro perfezioni, il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il mondo attuale, il più perfetto che sia possibile. Altrimenti non sarebbe possibile rendere ragione del perché le cose siano andate così piuttosto che in altro modo.

(Pricipes de la Nature et de la Grace, 1713-14, G. VI, 603).


È un mio principio, che tutto ciò che può esistere ed è conciliabile con le altre cose, esista. Poiché la ratio existendi a preferenza di tutti gli altri possibili, non deve essere limitata da altra ragione, se non da quella che non tutte le cose sono conciliabili fra di loro. L'unica ragione determinante è dunque ut existant potiora, quae plurimum involvant realitatis.

(Frammento del 1676, C. 530).


Vi è una ragione in natura per cui esiste qualche cosa piuttosto che nulla. Ciò è una conseguenza del grande principio che nulla avviene senza una ragione, così come deve esservi anche una ragione per cui esista una cosa piuttosto che un'altra. [p. 22 modifica]

Tale ragione deve essere in qualche ente reale o causa. Infatti la causa non è altro che una realis ratio, e le verità di possibilità e di necessità (cioè di cui viene negata la possibilità del contrario) non produrrebbero nulla se le possibilitá non si fondassero su qualche cosa di attualmente esistente.

Questo ente poi dovrà essere necessario: altrimenti si dovrebbe ricercare di nuovo (contro l’ipotesi), di là da esso, una causa per cui esso esista piuttosto che no. Quell'ente è insomma l'ultima ragione delle cose, e in una parola lo si suole chiamare Dio.

Vi è dunque una ragione per cui 1 esistenza debba prevalere sulla non-esistenza. e cioè Ens necessarium est existentificans.

Ma quella causa che fa sì che qualche cosa esista, cioè che la possibilità esiga l'esistenza, fa anche sì che ogni possibile abbia una tendenza all'esistenza; poiché non si può trovare in generale una ragione di restrizione all'esistenza dei possibili. Così si può dire che ogni ogni possibile è un inizio di esistenza17 in quanto si fonda su di un ente necessario attualmente esistente, senza il quale non vi sarebbe alcuna via per la quale potesse possibilmente giungere ad attuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i possibili esistano: ciò avverrebbe sì se tutti i possibili fossero compossibili.

Ma poiché vi sono alcune cose che sono incompatibili con altre, ne segue che alcuni possibili non giungano all'esistenza. E le cose possono essere incompatibili non solo relativamente al medesimo tempo, ma anche universalmente parlando, perchè nelle cose presenti sono implicite le future.

Intanto però, dal conflitto di tutti i possibili che pretendono all'esistenza, deriva questo almeno, che esista [p. 23 modifica]quella serie di cose per la quale giunge all'esistenza il massimo numero di cose, cioè la serie massima di tutti i possibili. E questa serie unica è determinata, così come tra le linee è determinata la retta, tra gli angoli l'angolo retto, tra le figure e i solidi quelle di massima capacità, cioè il circolo e la sfera. E come vediamo che i liquidi si raccolgono spontaneamente in gocce sferiche, così nell'universo esiste la serie di massima capacità.

Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste se non nella quantità di realtà.

Inoltre la perfezione non si deve soltanto ravvisare nella materia, cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio, la cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi modo, ma nella forma o varietà.

Ne consegue che la materia non è ovunque simile a sé stessa, ma viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non otterrebbe tanta varietà quanta. le è possibile....

Ne consegue anche che ha prevalso quella serie dalla quale derivava il massimo di pensabilità distinta.

E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa e bellezza a chi pensa. L'ordine, non è altro infatti che relatio plurium distinctiva, e confusione si ha quando sono presenti bensì più cose, ma non vi è un criterio por distinguere l'una dall'altra.

Cade così il concetto di atomo e in generale di qualsiasi corpo in cui non vi sia un criterio di distinzione di una parte dall'altra.

E ne deriva universalmente che il mondo è un χόσμος, un organismo armonico, cioè fatto in modo da soddisfare massimamente chi comprenda.

Il piacere di chi comprende (voluptas intelligentis) non è

altro infatti che la percezione della bellezza, dell'ordine, della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa di disordinato, ma solo riguardo a chi lo percepisce, perchè, assolutamente parlando, tutto è ordinato. [p. 24 modifica]

Cosí, quando alcunché ci dispiace nella serie delle cose, ciò deriva da un difetto di comprensione. Infatti non è possibile che ciascuno spirito comprenda tutto distintamente; e a chi osservi solamente alcune parti piuttosto che altre, l'armonia non può apparire nel suo complesso.

Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche la giustizia, non essendo la giustizia altro che un ordine o perfezione riguardo agli spiriti.

(Frammento, G. VII, 289-90).


Necessitá e libertá. - Anche questo criterio di perfezione, di bontà, di armonia è, analogamente alle verità di ragione, assoluto, oggettivo, a sé stante, indipendente dalla volontà di Dio, imposto dalla necessità delle cose. Dio sceglie il migliore: ma non avrebbe potuto scegliere altrimenti. Siamo qui in presenza della celebre questione della conciliazione fra necessità e libertà; la quale riguarda solo da lato il nostro argomento, e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche a questo proposito Leibniz si oppone a Cartesio.

Contro coloro che sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio o che le regole della bontà e della bellezza sono arbitrarie.

Io sono molto lontano dall'opinione di coloro che sostengono che non vi siano affatto regole di bontà e di perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio ne ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la ragione formale che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio, sapendo che egli ne è l'autore, non avrebbe avuto ragione di guardarle in seguito e trovarle buone, come testimonia la Sacra Scrittura18, la quale non pare si sia servita di questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la loro eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche se non si fanno riflessioni su questa semplice denominazione esteriore, che le riattacca alla loro causa. E ciò è [p. 25 modifica]tanto più vero, in quanto proprio attraverso la considerazione delle opere si può valutare chi le ha operate. Bisogna dunque che queste opere portino in sé il suo carattere. Confesso che l'opinione contraria mi sembra estremamente pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori19, i quali ritengono che la bellezza dell'universo e la bontà che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non chimere degli uomini che concepiscono Dio a modo loro. Cosi, dicendo che le cose non sono buone per nessuna regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si distrugge, mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua gloria. Infatti, perché lodarlo di ciò che egli ha fatto, se egli sarebbe ugualmente lodevole facendo tutto il contrario? Dove sarà dunque la sua giustizia e la sua saggezza, se non rimane che un certo potere dispotico, se la volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la definizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, appunto per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà supponga qualche ragione di volere, e che questa ragione sia naturalmente anteriore alla volontà. È per questo che io trovo anche molto strana l'espressione di altri filosofi20, i quali dicono che le verità eterne della metafisica e della geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà, della giustizia e della perfezione non sono che effetti della volontà di Dio, mentre mi sembra che esse non siano che conseguenze del suo intelletto, il quale non dipende affatto dalla sua volontà, così come non ne dipende la sua essenza.

Contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto far meglio.

Non posso neppure approvare l’opinione di alcuni moderni21 i quali sostengono arditamente che quello che Dio [p. 26 modifica]fa, non è l'assoluta perfezione, e che egli avrebbe potuto agire assai meglio. Poiché mi semina che le conseguenze di questa concezione siano assolutamente contrarie alla gloria di Dio. Uti minus malum habet rationem boni, ita minus bonum habet rationem mali. E si chiama agire imperfettamente, agire con minor perfezione di quello che si sarebbe potuto. E trovare a ridire sull'opera di un architetto il mostrare che egli avrebbe potuto farla meglio....

Questi moderni credono anche di provvedere così alla libertà di Dio; come se non fosse la più alta libertà quella di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana. Poiché credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è opinione poco conforme alla sua gloria. Per esempio, supponiamo che Dio scelga fra A e B e che egli prenda A senza avere alcuna ragione di preferirlo a B: io dico che questa azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto lodevole; poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione che non si trovi giá ex hypothesi. Ritengo invece che Dio non faccia nulla per cui non meriti di essere glorificato.

(Discours de métaphysique, 1686, §§. II, III).


Il criterio della, bontà e del «migliore», non è dunque conseguenza della volontà divina: è piuttosto la volontà divina che si ispira a questo criterio, il quale ha una validità oggettiva a sé stante, altrettanto come le verità di ragione. L'azione di Dio è da un lato circoscritta dai limiti della possibilità dati dal principio di non contradizione, nell'ambito del quale essa si devo svolgere: dall'altro lato è determinata da questo finalismo, da questo principio del «migliore», della bontà, che costituisce l'oggetto necessario della sua scelta. D'ambo i lati dunque, essa si trova determinata: e questa determinazione costituisce la legge stessa della sua perfezione.

Necessità nelle verità di ragione, dunque, poiché i principi di esse sono inderogabili, tali che non potrebbero venir concepiti diversi da quel che sono; necessità anche nelle verità di fatto, in quanto la loro ragion sufficiente non può non essere il principio della suprema perfezione e bontà. Ma queste due [p. 27 modifica]forme di necessità onde consta l'intelletto e la volontà divina, quindi tutte le cose del mondo, non sono identiche fra di loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni distinzione fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero dai medesimi principi che le altre, si baserebbero sulle medesime leggi. La necessità di fatto ha invece caratteristiche sue proprie. Essa non implica quella impossibilità del contrario che è essenziale caratteristica della necessità di ragione.

La necessitá morale. — La necessità di ragione è una legge regolativa dell'intelletto divino. La necessità di fatto è la ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e questa ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario sarebbe impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz lo distingue a volte dalla necessità di ragione col chiamarlo motivo inclinante (contrapposto a necessitante), necessità morale.

Bisogna distinguere tra necessità assoluta e necessità ipotetica. Bisogna pure distinguere fra una necessità che ha luogo perché l'opposto implica contradizione, e che vien chiamata logica, metafisica, o matematica, ed una necessità che è morale, che fa sì che il saggio scelga il migliore, e che ogni spirito segua l'inclinazione più grande.

La necessità ipotetica è quella che viene imposta ai futuri contingenti dalla supposizione o ipotesi della previsione e preordinazione da parte di Dio....

....Il bene, sia vero sia apparente, in una parola il motivo, inclina senza necessitare, senza imporre cioè una necessità assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio, sceglie il migliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto a perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che Dio sceglie fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe impossibile, contro l'ipotesi; poiché Dio sceglie tra i possibili, cioè fra vari partiti, dei quali nessuno implica contradizione.

Ma dire che Dio non può scegliere se non il migliore, e volerne inferire che ciò che egli non sceglie è impossibile, [p. 28 modifica]è confondere i termini, la potenza e la volontà, la necessità metafisica e la necessità morale, le essenze e le esistenze. Giacché ciò che è necessario, lo è per la sua essenza, poiché l'opposto implica contradizione; ma il contingente che esiste deve la sua esistenza al principio del migliore, ragione sufficiente delle cose. Ed è per questo che io dico che i motivi inclinano senza necessitare; e che vi è ima certezza e ima infallibilità, ma non una necessità assoluta nelle cose contingenti.

Ed ho mostrato a sufficienza nella mia Teodicea che questa necessità morale è felice, conforme alla perfezione divina, conforme al gran principio delle esistenze, che è quello del bisogno di una ragione sufficiente; mentre la necessità assoluta e metafisica dipende dall'altro grande principio dei nostri ragionamenti, che è quello delle essenze, cioè quello dell'identità o della contradizione; poiché quello che è assolutamente necessario è l'unico possibile fra i vari partiti, e il suo contrario implica contradizione.

(Polemica col Clarke, 1715, G. VII, 380-391).


Bisogna distinguere tra il necessario e il contingente, quantunque determinato. E non solo le verità contingenti non sono punto necessarie, ma anche i loro legami non sono sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere che vi è differenza, nel modo di determinare, fra le conseguenze che hanno luogo in materia necessaria e quelle che hanno luogo in materia contingente. Le conseguenze geometriche e metafisiche necessitano, ma le conseguenze fisiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il fisico stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno altra necessità che quella del migliore. Ora Dio sceglie liberamente, benché egli sia determinato a scegliere il meglio. E, poiché i corpi stessi non scelgono (avendo Dio scelto per essi), l'uso ha voluto che fossero chiamati agenti [p. 29 modifica]necessari; denominazione cui non mi oppongo, purché non si confonda il necessario col determinato, e non si vada ad immaginare che gli esseri liberi agiscano in una maniera indeterminata: errore, questo, che ha prevalso in alcuni spiriti e che distrugge le più importanti verità, ed anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza ragione; assioma senza il quale né l'esistenza di Dio, né altre grandi verità potrebbero essere ben dimostrate.

(Nuovi Saggi, 1701 segg., 11, 21, § 13).


Su questo argomento della necessitá e libertá, come su moltissimi altri con questo connessi (origine del male e sua giustificazione nel mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.) si imperniano molteplici problemi, riguardanti un altro aspetto del pensiero leibniziano, che non dobbiamo qui esaminare: quello della Teodicea.

Note

  1. Con la parola «spirito» tradurremo il termine mens.
  2. Quale sia il significato dei termini qui adoperati (continuitá, indivisibile, infinito, pensiero, ecc.), si vedrà in seguito.
  3. Giovanni Amos Comenio (1592-1670), noto principalmente nel campo della pedagogia per la Didactica Magna, concepì il sapere come un'organizzazione di ogni elemento della conoscenza secondo leggi universali (Pansofia), trasformando il concetto di enciclopedia da quello di una semplice raccolta di dati, a quello di una sistemazione unitaria dei dati stessi. Leibniz conobbe ed apprezzò grandemente le sue opere.
  4. Leibniz, come molti altri, chiama «principio di contraddizone»; quello che dovrebbe essere chiamato più esattamente «principio di non contradizione».
  5. É questo il principio che si suole chiamare del «terzo escluso».
  6. Il termine è scolastico-aristotelico, come del resto tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano.
  7. L'arte combinatoria, cui questo passo si riferisce, verrà presa in considerazione in seguito.
  8. Inverse o subalterne di una universale sarebbero per esempio le proposizioni particolari dei sillogismi, le quali hanno sempre carattere analitico.
  9. Aristotele tratta nei libri Topici dei «luoghi» (τόπος) o aspetti sotto i quali ciascuna cosa può venir considerata. Ivi tiene anche conto dei criteri di probabilità, di induzione; mentre la dimostrazione e il sillogismo vengono trattati nei due Analitici.
  10. Ciò significa che l'esistente deve rientrare nelle leggi della possibilità, ma che queste leggi possono anche andare molto al di fuori dal campo dell'attualmente esistente.
  11. Questa data mi è stata gentilmente comunicata dal prof. Ritter, direttore della Commissione leibniziana dell'Accademia della Scienze di Berlino
  12. La prova antologica, che Cartesio ha ripreso da Anselmo d'Aosta (1033-1109), afferma che l'essere sommamente perfetto deve contenere, fra le sue perfezioni, anche l'esistenza; quindi esiste. Tale prova considera quindi l'esistenza come un attributo dell'essenza dell'essere perfettissimo.
  13. Crf. per esempio, Meditazioni metafisiche, Risposte alle seste obbiezioni, n. 6: «...Io dico che è impossibile che una tale idea [del bene o del vero] abbia preceduto la determinazione della volontà di Dio.... in modo che questa idea del bene abbia portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che l'altra. Por esempio, non per aver visto che era meglio che il mondo fosse creato nel tempo piuttosto che dall'eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo; o non ha voluto che i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti per aver visto che non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per il fatto che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo è meglio così che se fosse stato creato dall'eternità; e solo perché egli ha voluto che i tre angoli di un triangolo fossero necessariamente uguali a due retti, ciò è ora vero o non può essere altrimenti; e così di tutte le altre cose».
  14. Tale sostanza è Dio. Crf. la prima definizione dell'Etica di Spinoza: «Per causam sui intelligo id, cujus essentia involvit existentiam; sive id, cujus natura non potest concipi, nisi existens»
  15. Cartesio è costretto alla concezione che tutti i mondi possibili siano effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle sole idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di una netta separazione fra la possibilità e l'esistenza, può esimersi da questo passaggio per tutte le forme della possibilità, e risolvere il problema dell origine del mondo sensibile con un diretto ricorso al principio delle verità di fatto.
  16. È il principio di ragion sufficente. Non bisogna far confusione fra questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente «principio di ragione», e le veritá di ragione. Il principio di ragione è la forma generale che regola la verità di fatto. Le verità di ragione si contrappongono invece a queste ultime, e si fondano sul principio di non contradizione. La somiglianza di due termini dal significato così differente e quasi opposto, deriva da un diverso uso del termine «ragione». Nella locuzione «principio di ragione» esso equivale a «motivo, causa».
  17. Traduciamo così il termine existiturire.
  18. Leibniz allude qui al racconto del Cap. I della Genesi, in cui a ciascun atto della creazione segue la frase: «E Dio vide che ciò era buono».
  19. Allude agli spinozisti (crf. l'ed. cit. del Lestienne). L'opinione che Leibniz ha della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e turbata da preconcetti.
  20. Cartesio (crf. ibid.99).
  21. Gli scolastici del suo tempo (crf. ibid.).