La monadologia/Parte prima/II. La sostanza individuale
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II.
LA SOSTANZA INDIVIDUALE
Verità di ragione e di fatto sono dunque ciò di cui è costituita la realtà. Le une assolute, necessarie, universali, ma di una universalità astratta, che ha luogo solo nel mondo ideale delle possibilità, delle essenze. Le altre concrete, tangibili, esistenti, ma insieme contingenti, individuali, tali che la loro esistenza non può venire dimostrata a priori, né discendere matematicamente da alcuna forma inerente alla costituzione del reale. La necessità morale, basata sul principio di ragione e finalistico, non elimina, come si è visto, la contingenza: non dà quella assoluta certezza che appartiene alle verità di ragione e deriva dall'impossibilità del contrario.
Il problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità anche nel campo del contingente; o, in altri termini, la riduzione del principio di ragion sufficiente a una linea altrettanto fissa e immutabile che quella del principio di non contradizione. La sostanza individuale sarà la soluzione di questo problema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo modo, e sempre nell'ambito della sua concezione oggettivistica della realtà, una sintesi di universale e individuale.
Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei, sono uno di quelli che più ha approfondito la scienza matematica; ed ho scoperto metodi e procedimenti completamente nuovi, che portano questa scienza di là dai limiti che le erano stati prescritti.
I saggi che ne ho dati hanno avuto successo in Francia ed in Inghilterra: e mi sarebbe facile darne ancora molti altri; ma io non faccio gran caso delle scoperte particolari, e ciò che desidero maggiormente è di perfezionare l'arte d'inventare in generale, e di dare piuttosto metodi che soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende un'infinità di soluzioni....
E poiché ho avuto la fortuna di perfezionare considerevolmente l'arte d'inventare o analisi dei matematici, ho cominciato ad avere certe concezioni nuovissime, per ridurre tutti i ragionamenti umani ad una specie di calcolo che servirebbe a scoprire la verità, nei limiti di ciò che è possibile ex datis, posto cioè quel che ci è dato o conosciuto. E quando le conoscenze date non bastano a risolvere la questione proposta, questo metodo servirebbe, come nelle matematiche, ad accostarsi il più possibile alla soluzione e a determinare esattamente ciò che è più probabile.
Un tale calcolo generale formerebbe nello stesso tempo una specie di scrittura universale che avrebbe i medesimi vantaggi che quella dei cinesi, perché ciascuno la potrebbe intendere nella sua lingua. Ma supererebbe infinitamente la cinese in quanto la si potrebbe imparare in poche settimane, avendo essa caratteri ben collegati secondo l'ordine e la connessione delle cose; mentre i cinesi hanno una infinità di caratteri secondo la varietà delle cose, e occorre la vita di un uomo per imparar tiene la loro scrittura1.Questa scrittura o lingua (se si rendessero enunciabili i caratteri) potrebbe essere presto accolta nel mondo, perché la si potrebbe imparare in poche settimane, e fornirebbe un mezzo generale di comunicazione: il che sarebbe di grande importanza per la diffusione della fede e per l'istruzione dei popoli lontani.
Ma questo sarebbe il minore dei suoi vantaggi; giacche questa medesima scrittura sarebbe una specie di algebra generale, e darebbe modo di ragionare calcolando, sicché, invece di discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si troverebbe che gli errori di ragionamento non sono che errori di calcolo, riconoscibili mediante prove, come nell'aritmetica.
Gli uomini avrebbero così un giudice delle controversie veramente infallibile. Poiché potrebbero sempre sapere se è possibile decidere la questione per mezzo delle conoscenze che essi posseggono già, e quando non fosse possibile soddisfarsi intieramente, potrebbero sempre determinare ciò che è più verosimile....
Per giungere dunque a questa scrittura o caratteristica, che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna cercare le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le nostre parole sono assai oscure e non ci dànno spesso che nozioni confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri, la cui nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni non sono se non un'espressione distinta dell'idea della cosa.
E avendo io studiato con cura non solamente la storia e le matematiche, ma anche la teologia naturale, la giurisprudenza e la filosofia, ho portato molto avanti questo progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni. Per
esempio la definizione della giustizia per me è la seguente: La giustizia è la carità del saggio, o una carità conforme alla saggezza. La carità non è altro che la benevolenza generale; la saggezza è la scienza della felicità, la felicità è lo stato di gioia durevole, la gioia è un sentimento di perfezione, la perfezione è il grado di realtà.
Penso di poter dare definizioni analoghe di tutte le passioni. virtù, vizi e azioni umane, quanto ve ne è bisogno. E con questo mezzo si potrà parlare e ragionare con esattezza. E siccome i nuovi caratteri comprenderanno sempre le definizioni delle cose, ne segue che essi ci daranno modo di ragionare calcolando, come ho appunto detto sopra.
Ma per portare a termine un progetto di tanta importanza, il quale fornirebbe al genere umano una specie di strumento così adatto a perfezionare la vista dello spirito come gli occhiali servono a quella del corpo, occorrerà molta meditazione ed un poco di assistenza.
(Lettera al Duca di Hannover, 16852, G. VII, 25-27).
Con tale metodo sará possibile qualsiasi dimostrazione. Conosciuta, infatti, l'intima costituzione di ciascun concetto, si potrà sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il predicato rientri nel soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi elementi costitutivi.
Di qualsiasi cosa, nulla ci può essere dimostrato, neppure da un angelo, finché noi non conosciamo i termini costitutivi (requisita) di essa. Infatti in ogni verità tutti i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i termini costitutivi del soggetto, e i termini dell'effetto ricercato comprendono i mezzi che sono stati necessari per produrlo.
(Initia et specimina scientiae generalis, G. VII, 62).
Il predicato contenuto nel soggetto. — Criterio della verità è dunque che il predicato rientri nell'ambito del soggetto; e questo rientrare è perfettamente calcolabile. Ma tale criterio vale solamente per le verità di ragione che sono analitiche. In esse sole il predicato è già contenuto nel soggetto, poiché solo in esse tutto ciò che si afferma (predica) a proposito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se io dico che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non faccio altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una qualità giá implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo retti) fa parte già a priori del soggetto (angoli di un triangolo). Ma posso io affermare che nel concetto di Giulio Cesare, per esempio, sia già contenuta, a priori, l'azione di passare il Rubicone? La proposizione: «Cesare passò il Rubicone» non è analitica, il suo predicato cioè non è già compreso nel soggetto, ma vi viene aggiunto per esperienza diretta, contingente. Questa proposizione appartiene alle verità di fatto.
Ora, sarà possibile una dimostrazione rigorosa in questo campo, se ogni dimostrazione è, come si è visto, un semplice calcolo per stabilire che i termini componenti il predicato fanno parte del complesso dei termini componenti il soggetto? Leibniz dice a volte che la dimostrazione, quanto alle proposizioni di fatto, da solo la probabilità e non la certezza. Ma egli tenta anche di fondare in modo più rigoroso la sistemazione logica di queste verità, e di far rientrare anche esse nella regola del predicato contenuto nel soggetto. A tale scopo egli si serve del principio di causalità, cui sottostanno tutte le verità di fatto. «I termini dell'effetto ricercato - si è visto comprendono i mezzi necessari a produrlo»; l'effetto, cioè, comprende già nella sua nozione tutte le cause che l'hanno determinato. E, reciprocamente, potremo dire che la nozione della causa racchiude in sé già implicitamente tutti gli effetti cui darà luogo. Ora, poiché ogni dato di fatto appartiene alla serie delle cause e degli effetti, ed è insieme effetto e causa, si può affermare che ogni nozione individuale contiene in se le nozioni delle cause che 1 hanno prodotta e degli effetti cui darà luogo; e questa causa e questi effetti a loro volta conterranno le loro cause e i loro effetti, e così via, fino alla causa prima del tutto e causa di sé, cioè Dio; sicché ciascun singolo dato e collegato, attraverso tali rapporti causali, con tutto l'universo.
La conoscenza di tutti questi infiniti nessi causali è superiore alle forze dell ingegno umano, il quale perciò si contenta di ricorrere all'esperienza del dato di fatto, rinunciando a dedurlo dalle sue cause; sarebbe però, in linea di principio, possibile.
Le proposizioni certe per sé stesse sono di due tipi; le une hanno la loro validità nella ragione — e cioè nel contenuto dei loro termini e io le chiamo «note per sé stesse» o anche «identiche»; le altre sono di di fatto e ci si manifestano attraverso esperienze indubitabili; e tali sono anche le testimonianze immediate della coscienza. Ma veramente anche le proposizioni di fatto hanno le loro ragioni, e perciò potrebbero essere risolte nella propria costituzione4: ma noi non potremmo conoscerle a priori attraverso le loro cause, se non conoscendo la totalità dell'universo (cognita tota serie rerum): il che supera la forza dell'intelletto umano. Perciò le apprendiamo a posteriori, sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire riguardo a cose per le quali manchiamo di una sicura scienza, è preferibile che almeno sappiamo di sicuro che una certa proposizione è probabile.
(Praecognita ad Encyclopaediam, G. VII, 44).
L'apprensione per via sperimentale e il metodo della probabilità derivano dalla imperfezione della conoscenza umana. In linea di principio, anche di qualsiasi verità di fatto si può avere una nozione analitica, a priori, tale che contenga in sé già sviluppati tutti i predicati, cioè tutti gli effetti e le cause.
Il segno di una conoscenza perfetta si ha quando non c'è nulla della cosa trattata di cui non si possa render ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non si possa predire l'avverarsi.
(Frammento De la Sagesse, G. VII, S3).
Ora, tale conoscenza a priori dei contingenti, se è impossibile alla mente umana, non è impossibile a Dio che li ha scelti e li ha messi in atto.
Di qualsiasi verità si può rendere ragione; infatti la connessione del predicato col soggetto o è evidente di per sé, come nelle proposizioni identiche, oppure si deve spiegare, il che avviene con la scomposizione dei termini. E l'unico massimo criterio della verità, beninteso nelle proposizioni astratte e non derivanti dall'esperienza, è di risolversi nell'identità (ut sit rei identica vel ad identicas revocabilis). Di qui si possono dedurre gli elementi della eterna verità e il metodo in ogni problema, purché si sappia procedere in modo altrettanto dimostrativo che nella geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a priori e al modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno di esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui in modo adeguato, mentre da parte nostra quasi nessuna cosa è conosciuta adeguatamente, poche a priori, e le più per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di conoscenza si devono usare altri principi ed altri criteri.
(De Synthesi et Analysi universali, G. VII, 295-296).
Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua considerazione a priori, così come è nella mente di Dio, contiene in sé come predicati tutti gli altri contingenti che sono stati o saranno in una qualsiasi connessione causale con essa: in una parola, tutto il suo passato e tutto il suo avvenire. Ciò che erano i termini semplici nella costituzione dei concetti di ragione, sono, nelle verità di fatto, questa serie di cause e di effetti.
Intesa ciascuna verità di fatto in questo modo, come soggetto di infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza individuale: essa racchiude in sé, quando sia intesa in tutta la sua comprensione, con gli infiniti suoi collegamenti, tutto l'universo.
Per distinguere le azioni di Dio e delle creature, viene spiegato in che consista il concetto di sostanza individuale.
Poiché le azioni e le passioni appartengono propriamente alle sostanze individuali (actiones sunt sppositorum), sarebbe necessario spiegare che cosa sia una tale sostanza.
E pur vero che quando si attribuiscono più predicati ad un medesimo soggetto, e questo soggetto non si attribuisce come predicato a nessun altro, lo si chiama sostanza individuale: ma ciò non è sufficiente, ed una tale spiegazione non è che nominale. Bisogna dunque considerare che cosa significhi l’essere attribuito veramente ad un certo soggetto.Ora è evidente che ogni vera predicazione ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando una proposizione non è identica, quando cioè il predicato non è compreso espressamente nel soggetto, bisogna che vi sia compreso virtualmente5: ed è ciò che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così occorre che il termine del soggetto comprenda sempre quello del predicato, in modo che colui che intendesse perfettamente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il predicato gli appartiene.
Posto ciò, possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o di un essere completo è che la sua nozione sia così compiuta, da bastare a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto cui questa nozione si attribuisce. Mentre l'accidente è un essere la cui nozione non comprende affatto tutto ciò che si può attribuire al soggetto al quale si attribuisce questa nozione. Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza determinata ad un individuo, e non comprende affatto le altre qualità del medesimo soggetto, né tutto ciò che è compreso nella nozione di quel principe; mentre Dio, vedendo la nozione individuale o hecceitas d'Alessandro, vi vede nello stesso tempo il fondamento e la ragione di tutti i predicati che gli si possono veramente attribuire, come per esempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a conoscervi a priori (e non per esperienza) se egli sia morto di morte naturale o per veleno; cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia. Inoltre, quando si consideri bene la connessione delle cose, si può dire che vi sono da ogni tempo nell'anima di Alessandro resti di tutto ciò che gli è accaduto, e segni di tutto ciò che gli accadrà, perfino tracce di tutto ciò che accade nell'universo; benché non appartenga che a Dio di riconoscerle tutte.
(Discours de métaphysique, 1686, § VIII).
A questa stregua possiamo dire che l'atto di passare il Rubicone non si aggiunge alla nozione di Cesare come qualche cosa di nuovo, di contingente, d'imprevisto. Cesare, per chi intenda, questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene in sé già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, compreso l'atto di passare il Rubicone: il quale, quando si attuerà, non sarà che la conseguenza necessaria delle cause che l'hanno prodotto, quindi lo sviluppo di ciò che era già contenuto in esse.
Libertá e causalitá. — Sorge qui di nuovo, analogamente a ciò che si è visto poc'anzi a proposito della determinazione di Dio a scegliere il «migliore», il problema della libertà. Se ogni fatto contingento è presente nella mente di Dio, non cesserà esso di essere contingente? Non sarà per ciò stesso necessario, predeterminato? E non cadrà così anche qualsiasi libertà nell'azione dell'uomo, la quale si svolge nel campo delle verità di fatto? E insieme con essa, ogni responsabilità umana nel bene e nel male? Anche a proposito di questo problema, strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa una distinzione fra connessione necessaria e inclinante.
Poiché la nozione individuale di ogni persona comprende una volta per tutte ciò che mai le accadrà, si vedono in essa le prove a priori dell'avverarsi di ciascun avvenimento, o le ragioni per cui è avvenuta una cosa piuttosto che un'altra; ma queste verità, benché sicure, nondimeno sono contingenti, in quanto fondate sul libero arbitrio di Dio o delle creature, la cui scelta dipende sempre da ragioni che inclinano senza necessitare.
Bisogna cercare di risolvere una grave difficoltà che può nascere dai fondamenti che abbiamo fissato qui sopra. Abbiamo detto che la nozione di una sostanza individuale comprende una volta per tutte tutto ciò che le può mai accadere, e che, considerando tale nozione, vi si può vedere tutto ciò che si potrà veramente enunciare di essa, come possiamo vedere nella natura del circolo tutte le proprietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga con ciò distrutta la differenza fra le verità contingenti e le necessarie, che non vi sia più alcuna libertà umana, e che una fatalità assoluta venga a regnare su tutte le nostre azioni come su tutto il resto degli avvenimenti del mondo. Al che io rispondo che bisogna fare distinzione fra ciò che è certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i futuri contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede; ma non si riconosce, dicendo ciò, che siano necessari. Ma, si dirà, se qualche conclusione si può dedurre infallibilmente da una definizione o nozione, essa sarà necessaria. Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve accadere a qualsiasi persona è già compreso virtualmente nella sua natura o nozione, così come nella definizione del circolo sono comprese le sue proprietà, la difficoltà sussiste ancora. Per risolverla in modo plausibile, dico che la connessione o consecuzione è di due specie: l'una è assolutamente necessaria, e il suo contrario implica contradizione (e questo modo di deduzione ha luogo per le verità eterne, come quelle di geometria). L'altra non è necessaria che ex hypothesi e, per così dire, accidentalmente, ma in sé stessa è contingente: e ha luogo quando il contrario non implica contradizione. E questa connessione è fondata non sulle pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui suoi liberi decreti e sull'ordine dell'universo.
Veniamo ad un esempio: poiché Giulio Cesare diverrà dittatore perpetuo e capo della repubblica, e rovescerà la libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua nozione, poiché noi supponiamo che la natura di una tale nozione perfetta di un soggetto sia di comprendere tutto, affinché il predicato vi sia compreso, ut possit inesse subjecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di questa nozione o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa non gli conviene se non perché Dio sa tutto. Ma si insisterà che la sua natura o forma risponde a questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto questa parte, gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere invocando l'analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno ancor nulla di reale se non nell'intelletto e nella volontà di Dio, e poiché Dio ha dato loro inizialmente questa forma, bisognerà in ogni modo che vi rispondano.
Ma preferisco risolvere le difficoltà che giustificarle con l'esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò, servirà a chiarire sia l'una sia l'altra. È dunque ora il momento di applicare la distinzione fra le connessioni; ed io dico che ciò che accade conformemente a questi precedenti è sicuro, ma non necessario: e se qualcheduno facesse il contrario, non farebbe nulla d'impossibile in sé, quantunque sia impossibile (ex hypothesi) che ciò accada. Poiché, se qualche uomo fosse capace di portare a termine tutta la dimostrazione in virtù della quale potrebbe provare questa connessione del soggetto che è Cesare col predicato che è la sua fortunata impresa, mostrerebbe effettivamente che la dittatura futura di Cesare ha il suo fondamento nella sua nozione o natura: che vi si vede una ragione per cui egli ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che di arrestarvisi, e per cui egli ha vinto piuttosto che perso la giornata di Farsaglia, e si vede pure che era ragionevole e perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non che ciò fosse necessario in sé stesso, né che il contrario implicasse contradizione. Press'a poco come è ragionevole e sicuro che Dio farà sempre il migliore, benché ciò che è meno perfetto non implichi affatto contradizione.
Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di questo predicato di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei numeri o della geometria, ma che essa presuppone l'ordine delle cose che Dio ha scelto liberamente, e che è fondato sul primo libero decreto di Dio — il quale comporta di fare sempre tutto ciò ohe è più perfetto — e sul decreto che Dio ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura umana, cioè che l'uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò che parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su questa specie di decreti è contingente, benché sia certa; poiché questi decreti non cambiano affatto la possibilità delle cose e, come ho già detto, benché Dio scelga sempre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò che è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso, sebbene non accadrà; perché non è la sua impossibilità, ma la sua imperfezione che lo fa respingere. Ora nulla è necessario, di cui sia possibile l'opposto.
Si sarà dunque in condizione di risolvere queste specie di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti esse non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le altre che si sono mai riferite a tale materia), purché si consideri bene che tutte le proposizioni contingenti hanno ragioni per essere piuttosto così che altrimenti, oppure (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a priori della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano che la connessione del soggetto e del predicato di queste proposizioni ha il suo fondamento nella natura dell'imo e dell'altro: ma che esse non hanno dimostrazioni di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate che sul principio della contingenza o dell'esistenza delle cose, cioè su ciò che sembra il migliore fra varie cose ugualmente possibili: mentre le verità necessarie sono fondate sul principio di contradizione e sulla possibilità o impossibilità delle essenze stesse, senza riguardo, in ciò, alla volontà libera di Dio o delle creature.
(Discours de métaphysique, 1686, § XIII).
Quanto al libero arbitrio, sono dell'opinione dei tomisti6 e di altri filosofi, i quali credono che tutto sia predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però non impedisce che noi abbiamo una libertà esente non solo dalla costrizione, ma anche dalla necessità: ed in ciò la nostra situazione è analoga a quella di Dio stesso, il quale è pure sempre determinato nelle sue azioni, poiché non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma se egli non avesse da scegliere, e se ciò che egli la, fosse l'unico possibile, egli sarebbe sottomesso alla necessità. Più si è perfetti, più si è determinati al bene, ed anche più liberi nello stesso tempo. Poiché si ha una facoltà e conoscenza tanto più estesa ed una volontà tanto più rinchiusa nei limiti della perfetta ragione.
(Lettera al Bayle, G. III, 58-9).
Quantunque tutti i fatti dell'universo siano ora certi in rapporto a Dio, o (ciò che è poi lo stesso) determinati in sé stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di conseguenza che il loro legame sia sempre di una vera necessità, cioè che la verità la quale stabilisce che un fatto è conseguenza dell altro, sia necessaria. Ed è questo principio che bisogna applicare particolarmente alle azioni volontarie.
Quando ci si propone una scelta, per esempio di uscire o di non uscire, il problema è se, con tutte le circostanze interne od esterne, motivi, percezioni, disposizioni, impressioni. passioni, inclinazioni prese insieme, io sia ancora in istato di contingenza, o se io sia necessitato a scegliere, per esempio, di uscire. Cioè è da domandare se la proposizione vera ed effettivamente determinata: «in tutte queste circostanze prese insieme io sceglierò di uscire», sia contingente o necessaria. A ciò io rispondo che è contingente; perché né io né alcun altro spirito più illuminato di me potrebbe dimostrare che l'opposto di questa verità implichi contradizione. E supposto che per libertà d'indifferenza s'intenda una libertà opposta alla necessità (come ho or ora spiegato), io accetto tale concetto della libertà. Poiché sono effettivamente d'opinione che la nostra libertà, così come quella di Dio e degli spiriti beati, è esente non solo da coazione, ma anche da una necessità assoluta; benché essa non possa essere esente dalla determinazione e dalla certezza.
Ma io penso che in questo argomento sia necessaria una grande precauzione, per non cadere in una concezione chimerica che urta contro i principi del buon senso: la quale sarebbe ciò che io chiamo indifferenza assoluta o di equilibrio: concetto che taluni introducono nella libertà, e che io ritengo chimerico. Bisogna dunque considerare che questo legame di cui ho parlato, assolutamente parlando non è punto necessario, ma che non per questo è men vero; e che in generale, ogni volta che. in tutte le circostanze prese insieme, la bilancia della deliberazione è più carica da una parte che dall'altra, è certo e immancabile che questo partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno sempre il migliore conosciuto, e se un partito non fosse migliore dell'altro, essi non sceglierebbero né l'uno né l'altro. Nelle altre sostanze intelligenti, le passioni spesso terranno luogo di ragione, e si potrà semine dire, riguardo alla volontà in generale, che la scelta segue la più grande inclinazione, nella quale io comprendo sia le passioni, sia le ragioni vere o apparenti.
So bensì che qualcuno immagina che ci si determini qualche volta per il partito meno carico di ragioni, che Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor bene, e che l'uomo scelga a volte senza motivo e contro tutte le sue ragioni, disposizioni e passioni; insomma che si scelga a volte senza che vi sia alcuna ragione che determini la scelta. Ma ciò, io lo ritengo falso e assurdo, poiché è uno dei massimi principi del buon senso che nulla accada senza causa o ragione determinante.
Così, quando Dio sceglie, lo fa secondo il criterio del migliore; quando l'uomo sceglie, sceglierà il partito che l'avrà colpito maggiormente. E se scegliesse ciò che vede meno utile e meno piacevole, sarà magari perché gli è divenuto piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o per analoghe ragioni di gusto depravato; le quali però non per questo saranno meno determinanti, anche quando non fossero concludenti. E non si troverà mai un esempio contrario a ciò.
Così, quantunque noi abbiamo una libertà di indifferenza che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai una indifferenza di equilibrio che ci esima dalle ragioni determinanti. C'è sempre qualche cosa che ci inclina e ci la scegliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio e sempre portato infallibilmente al migliore, per quanto non vi sia portato necessariamente (se non per mia necessità morale), noi siamo sempre portati infallibilmente a ciò che ci colpisce di più, ma non necessariamente. Poiché il contrario non implicava alcuna contradizione, non era punto necessario né essenziale che Dio creasse alcunché né che creasse particolarmente questo mondo: benché la sua saggezza e la sua bontà ve lo abbiano indotto.
(Lettera al Coste, 1707, 6. Ili, 400-102).
Previsione e predeterminazione. — Posto ciò, è possibile pensare che la previsione dei predicati contingenti da parte di Dio non contraddica alla libertà. Prevedere non significa predeterminare. Dio sceglie fra i possibili una serie nella quale sono già contenute determinate azioni col carattere di libertà. Nello sceglierle, egli non le crea né le determina: non fa che metterle in azione, attualizzare la loro possibilità. Nel farlo, egli vede tutta la serie, ne prevedo gli sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle azioni, le quali mantengono, nella serie attuale come in quella possibile, la loro caratteristica di libertà.
Dio inclina la nostra anima senza necessitarla; non si ha il diritto di lamentarsi, e non si deve domandare perchè Giuda pecchi, ma solamente perchè il peccatore Giuda sia ammesso all'esistenza a preferenza di altre persone possibili. Imperfezione originale prima del peccato e gradi della grazia.
Quanto all'azione di Dio sulla volontà umana, vi sono moltissime considerazioni assai difficili, che sarebbe lungo esporre qui. Ciò nonostante, ecco che cosa si può dire all'ingrosso: Dio, concorrendo ordinariamente alle nostre azioni, non fa che seguire le leggi che egli ha stabilite; egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro essere, in modo che i pensieri ci arrivino spontaneamente o liberamente nell'ordine determinato dalla nozione della nostra sostanza individuale, nella quale essi si potevano prevedere fin dall'eternità. In più, in virtù del suo decreto secondo cui la volontà tende sempre al bene apparente, esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi aspetti particolari, riguardo ai quali questo bene apparente ha sempre qualche cosa di reale, egli determina la nostra alla scelta di ciò che sembra il migliore, senza però necessitarla. Poiché, assolutamente parlando, essa è nell'indifferenza, in quanto la si oppone alla necessità, ed ha il potere di fare altrimenti o anche di sospendere affatto la propria azione; l'uno e l'altro partito essendo e rimanendo possibili.
Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le sorprese dell'apparenza, attraverso una ferma volontà di fare riflessioni, e di non agire né giudicare in determinate occasioni, se non dopo aver maturamente deliberato. È vero però, ed anche è assicurato da tutta l'eternità, che qualche anima non si servirà affatto di questo potere in una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi d'altri che di sè stessa? Poiché tutte queste lagnanze post factum sono ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum. Ora quest'anima, un poco prima di peccare, avrebbe motivo di lagnarsi di Dio come se egli la determinasse al peccato? Essendo le determinazioni di Dio in questa materia imprevedibili, d'onde sa essa di essere determinata a peccare, se non quando essa pecca già effettivamente? Non si tratta che di non volere; e Dio non potrebbe proporre condizione più agevole e più giusta; così tutti i giudici, senza cercare le ragioni che hanno disposto un uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a considerare soltanto quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse è fissato da tutta l'eternità che io peccherò? Rispondete voi stessi: forse no. E senza pensare a ciò che voi non potete conoscere e che non può darvi alcun lume, agite seguendo il vostro dovere, che conoscete.
Ma qualche altro dirà: D'onde consegue che quest'uomo commetterà sicuramente questo peccato? La risposta è facile: è che altrimenti non sarebbe quest'uomo. Poiché Dio vede dall'eternità che vi sarà un certo Giuda la cui nozione o idea posseduta da Dio contiene questa azione futura libera. Non resta dunque se non questo problema: perché un tal Giuda, traditore, che non è se non possibile nell'idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in generale si deve dire che, poiché Dio ha trovato giusto che Giuda esistesse nonostante il peccato che egli prevedeva, bisogna che questo male si compensi ad usura nell'universo, che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma questo ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è compresa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili7.Ma spiegare sempre l'ammirevole economia di questa scelta, non si può, durante il nostro passaggio su questo mondo; e basti saperlo, senza comprenderlo. Questo è il momento di riconoscere altitudinem divitiarum, la profondità e l'abisso della saggezza divina, senza voler sviluppare problemi di dettaglio, che implicano considerazioni infinite.
Si vede però bene che Dio non è la causa del male. Poiché non soltanto dopo la perdita dell'innocenza degli uomini il peccato originale si è impossessato dell'anima, ma ancor prima vi era una limitazione o imperfezione originale connaturale a tutte le creature, che le rendeva soggette al peccato e capaci di errare. Così non vi è maggior difficoltà riguardo ai supralapsari8 che riguardo agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opinione di S. Agostino e di altri autori, che l'origine del male sia nel nulla; cioè nella privazione o limitazione delle creature, alla quale Dio rimedia graziosamente col grado di perfezione che gli piace di dare. Questa grazia di Dio, sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le sue misure, è sempre efficace in sé stessa a produrre un certo effetto proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente, non solo a preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla salvazione, supponendo che l'uomo si unisca ad essa per quanto dipende da lui. Ma essa non è sempre sufficiente a superare le inclinazioni dell'uomo, perché altrimenti egli non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato alla sola grazia assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che lo sia per sé stessa, o per l'accordo delle circostanze.
(Discours de métaphysique, 1686, § XXX).
Ma a parto questi problemi di necessità, libertà, previsione predeterminazione, che rientrano piuttosto nell'ambito della Teodicea, il punto essenziale toccato qui è l'universalitá della sostanza individuale che, con le infinite connessioni che racchiude in sé, diviene l'universo stesso visto da un particolare punto di vista. Essa comprende il proprio passato e il proprio avvenire, e insieme il passato e l'avvenire di tutto l'universo; raggiunge cioè il massimo del l'universalitá: è una visione totale, complessiva del tutto.
E d'altra parte conserva tutta la sua individualità. Il punto di partenza è sempre il singolo dato di tatto, specifico, particolare, contingente. Esso non scompare nel tutto: rimane ben chiaro e visibile come capo dell'immenso filo svolgentesi all'infinito, al seguito di tutte le connessioni causali. Rimane e garantisce un punto di appoggio, una possibilità di percorrere ordinatamente tutto l'interminabile cammino. E d'altra parte ammette la possibilità di infiniti altri punti di partenza. Le sostanze individuali sono tante quanti sono i dati di fatto, cioè infinite. E ciascuna è tutto l'universo. Ma ciascuna da un diverso punto di vista, con diverso punto di partenza. L'universo è uno: ciascun particolare è una infinitesima parte di esso: ma da ciascun particolare si ha la possibilità di risalire alla totalità nel suo complesso. In questa unione di particolare e universale nella sostanza individuale, sta la prima grande scoperta di Leibniz, il nucleo fondamentale del concetto di monade.
Note
- ↑ I caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a quelli della sua caratteristica, in quanto rappresentano, così come i geroglifici egiziani, non le lettere di cui ciascuna parola è formata, ma l'oggetto stesso che essa rappresenta. Differiscono però dai geroglifici in quanto «sono forse più filosofici, e sembrano fondati su considerazioni più intellettuali, come quelle che dànno i numeri, l'ordine, le relazioni». (Lettera inedita citata in J. Baruzi, Leibniz et l'organisation religieuse de la terre, Paris, 1907, pp. 82-3).
- ↑ Data comunicatomi dal prof. Ritter.
- ↑ Ecco la primitiva formulazione di questo metodo nella giovanile Arte Combinatoria:
«L'analisi avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si risolva nei suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi clementi si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione dei termini della definizione stessa, fino agli elementi semplici o termini indefinibili; poiché non di tutte lo cose si deve ricercare la definizione». E questi ultimix 1 - ↑ Cioè potrebbero essere considerate come analitiche.
- ↑ Cioè, nelle proposizioni identiche (analitiche) il predicato è contenuto nel soggetto per la conformazione del soggetto stesso (espressamente). Nelle proposizioni di fatto, invece, il predicato è contenuto nel soggetto in quanto collegato ad esso da una relazione di causa ed effetto (virtualmente).
- ↑ Il principio che il mondo sensibile sia rotto dalla legge di causalità appartiene alla tradizione aristotelica, ricevuta da Leibniz attraverso la scolastica.
- ↑ Questo concetto del male come parte integrante e necessario dell'armonia universale, sarà il tema fondamentale della Teodicea.
- ↑ I supralapsari sostenevano, contro gli infralapsari, che la predeterminazione divina si esercitasse anche prima del peccato originale (supra lapsum, prima della caduta) e che quindi il fallo di Adamo non fosse stato compiuto per un atto di libera volontà. Leibniz, con questa sua conciliazione di predeterminazione e contingenza o libertà, rende ozioso il problema.
termini non si comprendono piú per definizione, ma per analogia x 2. Trovati tutti questi primi termini, si pongano in una classe, e si indichino con segni qualsiasi; il più comodo sarà numerarli. Fra i termini primi si pongano non solo lo cose ma anche i modi o rapportix 3. Poiché i termini composti variano in distanza dai termini primi, a seconda del numero di termini primi di cui si compongono — cioè a seconda dell'esponente della combinazione, — si facciano tante classi, quanti sono gli esponenti, e in ciascuna classe si pongano i termini che constano di un ugual numero di termini primi. I termini sorti da una combinazione di due non si potranno indicare altrimenti che scrivendo i termini primi di cui si compongono; e poiché i termini primi sono indicati da numeri, si scrivano due numeri che indichino i due termini. Ma i termini derivati da una combinazione di tre o anche da una combinazione di maggior esponente — cioè quelli che sono nella classe terza e seguenti — si possono indicare ciascuno in tanti modi diversi quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, considerato non più come esponente, ma come numero. ....Per esempio, siano alcuni termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine composto della classe terza, cioè formato da una combinazione di tre, p. es. dai tre termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le seguenti combinazioni: 1.°) 3.6; 2.°) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7; 5.°) 6.9; 6.°) 7.9. Dico che quel dato termine della classe terza si può scrivere o così: 3. 6. 9,
esprimendo tutti i suoi termini semplici; oppure esprimendo un semplice o, in luogo degli altri duo semplici, la loro combinazione, p. es. così; 1/2 . 9 oppure 3/2 . 6, oppure 5/2 . 3... Ogni qualvolta un tonnine composto viene usato fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il cui numero superiore o numeratore è il numero d'ordine nella classe, e quello inferiore o denominatore il numero della classe.x 4 È più comodo, nell'indicare i termini composti, di non scrivere tutti i termini primi, ma gli intermedi, per diminuirne il gran numero, e fra questi intermedi di scegliere quelli che più facilmente vengono in mente a chi consideri quella determinata cosa. Ma sarebbe più rigoroso scrivere tutti i termini primi. Stabiliti questi principi, si possono trovare tutti i soggetti e i predicati, sia affermativi sia negativi, sia universali sia particolari. I predicati di un soggetto dato sono infatti i suoi termini primi; così pure tutti i termini composti più vicini di esso ai primi, i termini primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque il termino dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione dei suoi termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si predicano, o si potranno anche trovare i composti che di esso si predicano, se si conserverà l'ordine nel formare le combinazioni. Se invece il termine dato è indicato come una composizione di composti, o in parte di composti, in parte di semplici, tutto ciò che si può predicare dei composti che lo compongono si può predicare anche del termine datox 5... In tal modo sarà facile indagare per mezzo del calcolo tutto ciò che si può predicare di qualsiasi soggetto dato».
(Ars Combinatoria, 1666, C. IV, 64-6).
- ↑ In greco nel testo: citazione da Aristotele.
- ↑ Per «analogia» Leibniz intende un modo di apprensione più immediato e diretto che non sia il processo logico definitorio; per esempio un'immagine sensibile. Altrove egli dice che i termini semplici si apprendono coi sensi.
- ↑ Questo significa che i termini semplici non si devono intendere solamente come dati concreti, di fato, sensibili, ma comprendono anche dati astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi termini semplici è molto poco chiaro, e Leibniz si è espresso in proposito sempre in modo vago e impreciso.
- ↑ P. es. 5/2 . 3 significa la combinazione del termine semplice 3 col termine composto che ha il quinto posto nella seconda classe; e cioè, secondo la lista indicata sopra, con 5.9. La notazione 5/2 . 3 indica dunque il termine composto 3.6.9.
- ↑ Questo è, in sostanza, lo schema del procedimento sillogistico, in cui ciò che si predica del termine più generale si può predicare anche dal particolare in esso contenuto.