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i. — verità di ragione e di fatto | 25 |
tanto più vero, in quanto proprio attraverso la considerazione delle opere si può valutare chi le ha operate. Bisogna dunque che queste opere portino in sé il suo carattere. Confesso che l'opinione contraria mi sembra estremamente pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori1, i quali ritengono che la bellezza dell'universo e la bontà che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non chimere degli uomini che concepiscono Dio a modo loro. Cosi, dicendo che le cose non sono buone per nessuna regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si distrugge, mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua gloria. Infatti, perché lodarlo di ciò che egli ha fatto, se egli sarebbe ugualmente lodevole facendo tutto il contrario? Dove sarà dunque la sua giustizia e la sua saggezza, se non rimane che un certo potere dispotico, se la volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la definizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, appunto per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà supponga qualche ragione di volere, e che questa ragione sia naturalmente anteriore alla volontà. È per questo che io trovo anche molto strana l'espressione di altri filosofi2, i quali dicono che le verità eterne della metafisica e della geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà, della giustizia e della perfezione non sono che effetti della volontà di Dio, mentre mi sembra che esse non siano che conseguenze del suo intelletto, il quale non dipende affatto dalla sua volontà, così come non ne dipende la sua essenza.
Contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto far meglio.
Non posso neppure approvare l’opinione di alcuni moderni3 i quali sostengono arditamente che quello che Dio