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Quando don Piane, che non ostante la sua apparente tranquillità covava amaro astio contro Maria, ed evitava di rivolgerle parola, s’avvide dei piccoli preparativi, provò un senso di tenerezza improvvisa: per un momento, dileguatasi la nebbia senile che velava il piccolo cervello in dissoluzione, il vecchio pensò e sentì, soffrì e gioì normalmente.

E in quel momento mille sensazioni diverse gli passarono dietro la piccola fronte, entro il piccolo petto incartapecorito.

Era una mite sera di gennaio; Maria teneva a portata di mano un canestro d’asfodelo guarnito di nastri, ricolmo di tela e piqué e trine, e tagliava piccolissime cuffiette. Al fuoco, le forbici brillavano; un gattino allungava la zampetta sul canestro, cercando d’afferrar furbescamente un gomitolo di filo.

Dietro, nella quieta luminosità della finestra, sui cui ultimi vetri moriva il sole, Ortensia, seduta per terra, davanti a un bassissimo tavolo, faceva ravioli e sebadas, focaccie di pasta e formaggio fresco passato al fuoco. Ella stirava la bianca pasta oleosa con un piccolo cilindro di legno che produceva un lieve e monotono rumore: un gattino le stava coricato sul lembo della sottana, con la rosea pancia in aria; e Speranza, seduta sulle zampe posteriori, muovendo la coda sul pavimento per divertire gli altri due gattini, guardava con oc-