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guardar lungamente Maria, seguendo col moto delle sbiadite pupille i movimenti delle mani di lei e la trasformazione della tela, e il riflesso infuocato delle lucide forbici.

Ella sentì con piacere questa intensa attenzione; sollevò gli occhi sereni e, incontrando lo sguardo del suocero, vide nelle piccole pupille un’espressione così insolitamente tenera e limpida che volle tentar la riconciliazione.

— Non ci credevate forse? — domandò, sorridendo e accennando alla cuffietta che tagliava.

Egli sporse le labbra per rispondere, ma le ritirò e tacque.

— Eppure è vero, proprio vero. Gli metteremo nome Stefano, come il padre?

Egli parve contrariato, e solo alla inopportuna osservazione di Ortensia:

— E se sarà femmina?

— Tu, zitta, stupida! — rispose.

Ed ella zittì. Breve silenzio, solo interrotto dal rumore del cilindro, dallo stridìo delle forbici e dal miagolìo del gattino, che introdottosi nel canestro volteggiava attorno al gomitolo. Maria si volse, si chinò e afferrata la bestiolina la tirò fuori.

— Va via, va via, cattivo.

E come ella s’indugiava curva ad avvolgere il filo del gomitolo, don Piane, non vedendosi guardato, ardì sporger le piccole labbra per esprimere il suo egoistico parere: