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Restava ancora la pura ed intima dolcezza della salita su per la Scala dei gigli, del saluto al nemico, della sera e della notte trascorsa all’ovile, ma invano l’anima di Stefano ricercava avidamente la superiorità di percezione e di sentimenti che gli aveva lasciato una indelebile orma, un desiderio quasi angoscioso di bene.
Qualche cosa mancava ancora alle sue note; un filo, una sfumatura, un inafferrabile colore: ma egli sperava di ritrovarli un giorno o l’altro, forse in qualche melodia popolare non ancora sentita, e s’acquetava in questo desiderio.
Così, fra la caccia e la musica, passò l’autunno e venne l’inverno, un inverno straordinariamente mite e verde.
Nella misera quiete del villaggio, l’elegante casa pisana, con a fianco il vigilante muro giallo del ritiro di Silvestra, sonnecchiava al tepore del sole smorto; pareva una regina assopita, nelle cui pupille (i limpidi vetri chiusi) dilagavano tranquilli sogni di felicità. L’orto verdeggiava di chiare erbe invernali, sotto le tenui ombre dei rami spogli, rossi quelli dei peschi, dei ciliegi e degli albicocchi, grigi-argentei quelli del noce e dei salici; in fondo la vasca luccicava ad intervalli con rapidi riflessi metallici.
Nell’angolo del camino, entro cui ardeva odo-