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dito sulle chiare nebbie dell’orizzonte, cavalcando incontro al vento che rigettava indietro spartita la criniera del cavallo e apriva le falde del suo cappotto, Stefano provava un lieve brivido fra piacere e timore, se pel cupo verde dei cisti umidi o nel grigio chiarore degli sfondi del sentiero scorgeva la figura nera e bianca di un paesano.

Era lui? Chi? Filippo Gonnesa travestito. E se egli era, che intendeva Stefano di fare? Salutarlo come in cima alla montagna e ricercar nei limpidi occhi nemici il mistero dell’innocenza perseguitata; o inseguirlo quale selvaggina e far da sè quella giustizia che le autorità non riuscivano a compiere? Stefano non sapeva, ma sentiva il sangue pulsargli forte sulla nuca, e raggiunto o incontrato il paesano, e avvedutosi dell’inganno, provava un inesplicabile dolore.

Non ritrovandole dunque nella realtà, ricercava nella musica le profonde impressioni dell’indimenticabile giornata trascorsa nella tanca; ma non gli riusciva perfettamente. Lo sforzo che poneva nel fondere le varie melodie sarde, spezzava qua e là la suggestione sinfonica ch’egli s’imponeva; il passaggio, per quanto sfumato, da un motivo all’altro, riproduceva l’effetto di quel rotare di vettura, di quello schioccare di frusta che avevano interrotto il magnifico sogno musicale del torrente e della campana.