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sereno, ma nel dopo pranzo, mentre i padroni stavano ritirati nelle stanze di sopra, ecco Ortensia con aria altera e beffarda piombar in cucina.

— Serafina, il padrone ti manda queste venticinque lire.

— Qual padrone?

— Don Isténe!

— Allora le avrà date a te, non a me.

— Le ha date a me per darle a te. E ti prega d’andartene prima ch’egli scenda.

— Che il diavolo lo faccia scendere nel profondo dell’inferno! — gridò Serafina, battendosi i pugni sulle anche. E cominciò a imprecare con maledizioni e spergiuri mai uditi.

— Serafina, disse l’altra con prudenza, cercando di calmarla, e piegando e spiegando il foglio da venticinque lire, — Serafina, fa la savia! Perchè te la pigli così? La colpa è tutta tua, e riconoscila, e sta zitta, invece di pigliarti la parte maggiore, come fai. Se ieri notte avessi fatto entrare quel moccioso di Bore Porri dalla parte dell’orto...

— Mocciosa sei tu! E del resto io non ho mai fatto entrar nessuno, nè dalla parte dell’orto, nè dalla parte dell’inferno... Chi fa entrare gli amanti sotto i muri non son io...

Ortensia se la prese per sè, arrossì, stese il braccio col foglio da venticinque spiegato e gridò: