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mente portava in seno il fiore del suo mite amore, e pareva che la gioia di questo evento avesse cambiato anche il carattere e i modi di Stefano.

Egli sembrava un altro.

Era tornato spesso in campagna, e cacciava sull’altipiano; luogo forse ancor più suggestivo e grandioso della montagna. Smarrendosi fra le paludi e gli argentei canneti, fra le stoppie imbrunite dall’umido e fra le macchie bruciate a sera dai dissodatori, egli aveva trascorso intere giornate con un profondo oblìo di se stesso, occupato più del volo d’una tardiva quaglia che del processo Gonnesa; ma, o per la crescente malinconia autunnale, o per l’aria già troppo fredda e il cielo vaporoso, se aveva gustato le forti emozioni del cacciatore, non aveva però ritrovato più quel complesso di profonde sensazioni per le quali s’era sentito sollevar al disopra di se stesso.

Eppure, spesso, anzi ogni volta che usciva in campagna, anelava segretamente ad un nuovo incontro con Filippo Gonnesa. Era un desiderio strano, quasi morboso, senza scopo nè perchè, non confessato, ma pungente e vivo. Mentre per la sterminata solitudine dell’altipiano, sotto la grave tristezza del cielo, dalle cui nebulosità metalliche il sole nascosto gettava per sottili squarci d’argento lunghi raggi pallidi, descriventi un enorme ventaglio d’oro sbia-