La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XIX
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CAPITOLO XIX
Nel 1859, quando Francesco, duca di Calabria, sposò Maria Sofia Amalia di Baviera, contava ventitrè anni. Ferdinando II, deciso che ebbe di dargli moglie, condusse da sè e in gran segreto le trattative, che furono parecchie in più di una Corte di Europa. Si era trattato tre anni prima con la Corte belga, per dare in moglie all’erede della corona la bellissima principessaCarlotta, figlia del re Leopoldo I, la quale sposò poi l’arciduca Massimiliano d’Austria, e perdè la ragione dopo la tragedia di Queretaro; ma tanta fu la discrezione, con cui quelle pratiche ai svolsero, che non se ne seppe nulla, come nulla si conobbe del fidanzamento con l’arciduchessa Maria Sofia di Baviera, prima della richiesta ufficiale. Le trattative si erano iniziate fin dal 1856 fra la regina Maria Teresa e la duchessa Ludovioa Guglielmina di Baviera, e ne fu suggello l’istituzione di una rappresentanza diplomatica a Monaco, come si è detto, ma nessuno ne trapelò nulla. Considerazioni politiche di non lieve importanti dovettero indurre Ferdinando II a stringere maggiormente i legami di famiglia con l’impero austriaco, dando in moglie al figliuolo una cognata dell’imperatore. Memore forse dei versi uditi un anno prima alla rappresentazione della Stella di Mantova, si disse ch’egli passasse in rassegna le principesse italiane, e si fermasse su Maria Clotilde di Savoia, figliuola di Vittorio Emanuele li; ma non pare che vi siano state trattative neppure alla lontana: lo escluderei in modo assoluto, sia perchè il ricordo del suo matrimonio con una principessa di Savoia e l’astio, che palesemente nutriva verso la Corte ed il governo sardo, non potevano favorevolmente disporlo; sia perchè anche da parte della Corte di Torino non sarebbero mancate difficoltà, sapendo bene, dai rapporti del Gropello che cosa fosse la Corte di Napoli, la condizione del paese e del governo, e quale l’educazione data al principe ereditario, e l’indole di lui, assai difficile a definire. Di tali rapporti pubblico più innanzi quello del 18 gennaio 1857, e ch’è una mirabile dipintura di Francesco e dell’ambiente nel quale viveva. A determinare invece la scelta della giovane duchessa di Baviera, concorse esclusivamente la regina Maria Teresa. Ferdinando II teneva dietro, non senza inquietudine, agli avvenimenti che si succedevano in Europa, le sue diffidenze verso Napoleone e il Piemonte aumentavano di giorno in giorno, e pur non credendo ancora o simulando di non credere, che i francesi sarebbero scesi in Italia per far guerra all’Austria e venire in aiuto della rivoluzione, un senso di timore lo aveva invaso.
Le condizioni esteriori della felicità non mancavano. Gli sposi erano giovanissimi; cattolica e divota la Corte di Baviera; spregiudicata e semplice l’educazione delle figliuole di Massimiliano Giuseppe e di Luisa Guglielmina, duca e duchessa di Baviera, sia per avito costume, perchè otto erano i figliuoli, e perché infine assai modesto il patrimonio, tanto che Maria Sofia ebbe in dote soli venticinquemila ducati, cioè cinquantamila fiorini bavaresi come risulta dal contratto nuziale stipulato a Monaco il 4 novembre 1858, e firmato dal barone De Pfordten, presidente del Consiglio dei ministri e ministro della Real Casa, e dal conte Ludolf, incaricato d’affari di Napoli. Ferdinando II costituì alla futura nuora una controdote di ducati trentaseimila. La dote fu pagata a Napoli per mezzo del banchiere Kirsch. Ma quella semplicità era libertà nel tempo stesso, libertà comune alle grandi e alle piccole Corti tedesche. Maria Sofia e le sue sorelle giravano Monaco da sole, in carrozza e a piedi, guidavano cavalli, tiravano di scherma, si esercitavano al nuoto e al ballo, e avevan passione per le bestie, singolarmente per i cani e i pappagalli. Il padre loro, bellissimo uomo, ritenuto generalmente il più bel principe delle Corti di Europa, era in fama di stravagante e di donnaiolo, ma di cuore eccellente. Separato da sua moglie, viveva a Wiitzbourg fra amici e dissipazioni; e la moglie, zia del re di Baviera e sorella dell’arciduchessa Sofia, madre dell’imperatore Francesco Giuseppe, attendeva personalmente all’educazione delle cinque figliuole. La famiglia passava l’estate nel castello di Possenhofen e sulle rive del lago Sterbnerg, e l’inverno a Monaco, in un grandioso palazzo, nel oui ampio cortile era stato costruito un maneggio, dove le principesse si esercitavano nell’equitazione.1 Non bella, la duchessa Luisa Guglielmma era dotata di grande energia e di vivace spirito d’intrigo. Non senza orgoglio aveva veduta la seconda delle sue figlie, la bellissima Elisabetta, divenire imperatrice d’Austria, e vedeva ora la quarta, Maria Sofia, avviarsi, non ancora compiuti i diciotto anni, al trono delle Due Sicilie. Fu lei, che condusse le trattative del matrimonio, ripeto, perchè il duca se ne stava a Wiitzbourg e solo tre volte comparve a Monaco: il giorno della richiesta ufficiale, 22 dicembre 1858; il giorno del matrimonio, 8 gennaio 1859, e il 13 gennaio, quando la sposa partì. Una principessa bellissima e giovanissima, ardita, fantastica e impulsiva come suo padre e sua sorella Elisabetta, e vivace come la madre, non era la più adatta a entrare nella Corte napoletana, immagine di tristezza, di vecchiezza e di pregiudizio; nè a divenire moglie di un principe piuttosto insipido, soggiogato dagli scrupoli religiosi, inesperto della vita, e il quale non aveva conosciuto mai donne, anzi le fuggiva, facendosi rosso nel viso quando non ne poteva evitare gli sguardi, e con un suocero ancor giovane e vigoroso, soggiacente alla dominante volontà della moglie, matrigna del principe ereditario. A tanta disparità intrinseca Ferdinando II non badò gran fatto, persuaso che avrebbe plasmata lui l’educazione della principessa ereditaria: pretensione e leggerezza tutta borbonici, dalla quale non bastò a stornarlo l’esempio del suo primo matrimonio con Maria Cristina di Savoia, la cui educazione e le cui tendenze erano così profondamente diverse dalle sue.
La richiesta ufficiale venne fatta dunque, con grande solennità il 22 dicembre a Monaco, dal conte Ludolf, incaricato d’affari dì Napoli. Era aggiunto di legazione Domenico Bianchini, del quale si è parlato, e che ebbe l’incarico di presentare alla sposa sopra un cuscino di velluto il ritratto del fidanzato, dopo che ella ebbe dato pubblicamente il suo assenso. Era una miniatura ovale, molto fine. Francesco vi era raffigurato in costume di ufficiale degli usseri della guardia, e a tutti fece buona impressione. Corse la voce che fosse offeso in un occhio, tanto che una principessa di Corte se chiese riservatamente al ministro e all’aggiunto, i quali si affrettarono a smentirla. Il matrimonio religioso ebbe luogo, con la stessa solennità, il giorno 8 gennaio. Procuratore dello sposo fu il principe Luitpoldo, fratello del re e attuale Reggente. Il 13, la sposa lasciò Monaco, accompagnata dal fratello Luigi, dalla contessa Rechberg, dama di palazzo, dalla baronesse di Taenzl-Tratzberg, dama d’onore, dal tenente colonnello Heüsel, aiutante di campo del duca di Baviera, e da donna Nina Bisso, mandata da Napoli come cameriera personale della giovane duchessa e che divenne via via, come si dirà, la persona con la quale Maria Sofia avesse maggiore familiarità, e a cui volesse più bene. A Trieste, la duchessa di Calabria fu ricevuta a bordo del Fulminante dalla principessa di Partanna-Statella e dalla duchessa di San Cesario: signore piuttosto anziane e dal conte di Laurenzana, nominato cavallerizzo della principessa ereditaria e che l’accompagnarono sino a Bari, insieme col duca di Serracapriola, commissario per la consegna della sposa e che tornò a Napoli ventiquatt’ore dopo il matrimonio. Ferdinando II aveva mandata a Monaco, oltre a donna Nina Rizzo, un’altra cameriera, donna Giovannina Lo Giudice ma le due donne, contendendosi l’onore di fare ’a capa2 alla duchessa di Calabria, si bisticciarono così clamorosamente, che Ludolf fu costretto a rimandarne una. Restò donna Nina, di certo più intelligente e vivace; e tornata l’altra in Napoli, andò in ogni parte narrando il caso suo, contandone di tutte le tinte contro la rivale, come napoletanamente si costuma, nè apparve più in Corte.
I giornali di Napoli ebbero tutti parole cortesi e auguri per il matrimonio. Il Nomade scriveva: “Ecco benedetto dal Cielo un legame, che riempie di gioia due Regni è compie i voti più cari dì due Reali Corti. Possa la loro gioia esser duratura, secondo gli auguri* reciproci degli uni e delle altre„. Auguri sinceri, perchè Francesco era ben voluto e poco conosciuto, ma si aveva gran fiducia in lui, come si ha generalmente nei principi ereditarli: fiducia alla quale risponde spesso, dopo che sono saliti al trono, il più malinconico disinganno. Tutti eran curiosi di vedere la sposa, che i giornali decantavano per la bellezza, per lo spirito e l’ardimento. Si diceva che, arrivando lei, la reggia si sarebbe riaperta alle feste ed ai ricevimenti; che sarebbe ritornata la Corte a Napoli, e un nuovo soffio di vita avrebbe rianimato tutto quel vecchio mondo aristocratico e brontolone, condannato all’inerzia, pur essendo così avido di svaghi gratuiti. Nessuno fece sinistri prognostici, anzi tutti bene augurarono da quella anione, che riscaldò la musa di tanti poeti, ispirò narrazioni iperboliche a prosatori, e procurò forse la morte di quel povero NiccolaSole, il quale, non sapendosi sottrarre agli inviti insistenti di scrivere la celebre cantata, che Mercadante musicò e fu poi eseguita al San Carlo, n’ebbe, egli già cantore dell’Arpa Lucana e autore delle stupende ottave sulla tomba di Alessandro Poerio, tale pentimento e dolore, che ne morì nel Natale del 1859.
Poi avrà luogo la gran cantata, |
Cosi mordacemente verseggiava Carlo Zanobi Cafferecci in una specie di satira, dopo che egli stesso aveva stampato nell’Omaggio' Sebezio, volume di occasione per festeggiare il matrimonio, un’enfatica ode alla sposa, Eccone un saggio:
Oh! bel connubio! Quei d’avventurosi |
Da qualche tempo il re non si sentiva bene. Era incanutita, divenuto pingue, in maniera da non poter più montare a cavallo agilmente, nè rimanervi a lungo, e di tanto in tanto, avvertiva mia grande spossatezza. Il dottor Ramaglia, qualche mese prima, aveva scoperta intorno al collo di lui un’eruzione erpetica di un rosso vivace, che lo impensierì e prescrisse una cura che non fu eseguita. Dieci giorni prima di lasciare Caserta, la regina volle consultare nuovamente l’insigne clinico circa l’opportunità del viaggio, e il Ramaglia rispose: Il re non ha florida salute, ed io sono di parere che il viaggio nelle Puglie si dovrebbe rimandare alla prossima primavera; se irrigidisse il tempo, non so quanto ne soffrirebbe la salute del re„. Alla regina non piacque quel franco linguaggio e licenziò il Ramaglia con freddezza. Fu riferito che il re dicesse al Ramaglia: “Don Piè, quant’hai avuto pe darme sto consiglio?„ E risolvette due cose: partire il giorno 8 gennaio per le Puglie e far celebrare per procura il matrimonio, nello stesso giorno, a Monaco di Baviera. Ordinò inoltre che la sposa, imbarcandosi a Trieste il 15 gennaio a bordo del Fulminante, sbarcasse a Manfredonia, rinnovandosi cosi, dopo 62 anni, la cerimonia che nel 1797 ebbe luogo a Foggia, nella chiesa della Madonna dei Sette Veli, quando Francesco I, allora principe ereditario, condotto dal padre Ferdinando, sposò in prime nozze Maria Clementina, arciduchessa d’Austria, sbarcata appunto a Manfredonia. Colà cominciarono subito i preparativi per lo sbarco, venne stabilito minutamente tutto il cerimoniale, si pose mano a costruire il padiglione sullo sbarcatoio, e a ridurre in modo conveniente l’episcopio, dove la famiglia reale avrebbe alloggiato.
Preparativi per il viaggio del re nelle Puglie, e addobbi è intendenze o di palazzi di signori non vi furono, nè dissipazioni di amministrazioni provinciali; che anzi, fino all’ultimo l’itinerario fu tenuto segreto. Il re stabili di compiere il viaggio in una quindicina di giorni, tenendo conto delle indispensabili fermate e distribuendo le tappe cosi: da Caserta ad Avellino, da Avellino a Foggia, da Foggia ad Andria, da Andria ad Acquaviva, da Acquaviva a Lecce, da Lecce a Bari per l’andata; e per il ritorno: da Bari a Barletta, a Manfredonia, a Foggia, ad Avellino e a Caserta. Sarebbe stato ospite degli intendenti o dei vescovi, e mai di privati; anzi da nessuno avrebbe accettato colazioni o pranzi, così come fece nell’ultimo viaggio in Calabria. Aveva disposto che la cucina reale, col cuoco direttore Cammarano, facesse parte del seguito, portando tutto, anche l’acqua da bere in recipienti chiusi con lucchetto, perchè il re era abituato a bere l’acqua detta del Leone di Posillipo. Gl’intendenti e i vescovi erano persone di sua assoluta fiducia, anzi dal Mirabelli, intendente di Avellino, che sapeva a lui devotissimo, accettò un’ospitalità completa. Al re erano poi ben fedeli il vescovo di Andria, Longobardi, e l’arciprete mitrato di Acquaviva, Falconi.
Le carrozze da viaggio erano sei: tre di Corte e tre postali. L’amministrazione delle poste provvide al servizio dei cavalli. Il marchese Targiani e i fratelli Maldura avevano l’appalto del relativo servizio e dei procacci; e loro ispettore, incaricato del servizio cavalli e postiglioni, era Federico Lupi, in questo genere assai capace. Egli ebbe pieni poteri per la scelta delle bestie e la loro impostazione lungo la strada. Fu uno dei pochi, che conoscesse tutto l’itinerario dal primo giorno. Portava, anche allora, trionfalmente, i suoi enormi baffi biondi, e fu perciò soprannominato dal re, durante il viaggio, Mostaccione. Il Cervati era amministratore generale delle poste; lo stesso uffizio che ebbe nel 1860 il barone Gennaro Bellelli, quando andò a ricevere Vittorio Emanuele al confine di Abruzzo. Le poste dipendevano dal ministero delle finanze. Opportune disposizioni furon date per la sicurezza delle strade. Squadroni di cavalleria e di gendarmi a cavallo perlustravano la via consolare: più frequenti alla salita di Monteforte e nel vallo di Bovino, vecchi nidi dì malandrini. Furon dati ordini alle guardie d’onore delle provincie di Terra di Lavoro e di Napoli di tenersi pronte ad accompagnare il re, di tappa in tappa, e di raccogliersi a Nola, dove difatti si raccolsero, sotto il comando del duca di San Teodoro, caposquadrone, e di don Pasquale del Pezzo, duca di C&janello, caposquadrone in seconda. Il brigadiere don Riccardo di Sangro, comandante in capo di quelle guardie e cavaliere di compagnia del re, fece parte del seguito dei sovrani, nella prima tappa. Il seguito, il quale era formato dal Murena, ministro delle finanze: dal Bianchini, direttore dell’interno e della polizia generale; dal principe e dalla principessa della Scaletta; dal colonnello Severino, segretario particolare dei re; dal generale Ferrari, aiutante del duca di Calabria; dal colonnello Cappotta, istruttore dei principi secondogeniti e dal conte Francesco Latour, gentiluomo di settimana. Era un seguito ristretto, addirittura intima. Il principe della Scaletta, Vincenzo Ruffo, e la bionda principessa, nata contessa Wrbna e Trendenthaì di Vienna, dama di corte e di compagnia della regina, erano ritenute persone dì famiglia, anzi la principessa era l’amica preferita di Maria Teresa, che parlava con lei il tedesco viennese coi suoi idiotismi. La principessa, morta a Napoli nell’agosto dell’anno scorso, contava quarant’anni di età; non poteva dirsi bella, ma era assai piacente, e dotata di uno spirito arguto e festoso. Aveva un’adorazione per Ferdinando II, e finchè visse fu domma per lei che il re era stato avvelenato in Ariano da monsignor Caputo, per conto dei liberali. Io devo alla memoria di questa buona signora quasi tutta la miniera di aneddoti circa il disgraziato viaggio. Maria Teresa condusse inoltre una cameriera, la Rossi, moglie di un alabardiere, e il re, il suo cameriere fido Gaetano Galizia. Vi andò pure una sorella nubile della Rossi, e si rise lungo il viaggio, credendosi che il Galizia facesse la corte a questa ragazza. Il marchese Imperiali, cavallerizzo maggiore, il marchese del Vasto, primo cerimoniere, e il maresciallo di campo Giuseppe Statella, cerimoniere di corte soprannumerario, raggiunsero la Corte a Bari.
Si fece colazione a mezzogiorno. Era di sabato; rigida la giornata, anzi cruda; e pesanti mantelli e pellicce coprivano gli augusti viaggiatori. Ferdinando II indossava, come al solito, l’uniforme di colonnello di stato maggiore; portava guanti scamosciati e fumava i suoi favoriti sigari napoletani; anche i principi vestivano da militari, e Francesco la sua consueta divisa di colonnello del primo reggimento di linea, ch’era il reggimento Re. Gli addii di famiglia furono commoventi. Il re e la regina abbracciarono più volte i piccoli principi, che restavano; ma il re pareva preoccupato, e se ostentava un po’ di loquacità scherzosa, tutti sentivano che non era spontanea; e difatti sparì appena varcata la soglia della reggia. Nè la regina, nè i principi davano segno di gaiezza; anzi alcuni del seguito, napolitanamente, mormoravano, confidandosi paure e prognostici non lieti, per l’ostinazione, anzi per il capriccio del re di compiere un lungo viaggio nel cuore dell’inverno e con preparativi in verità cosi miseri e malinconici.
Nel Chiuso — così chiamavasi quel punto del parco ad occidente del palazzo, dove la famiglia reale era solita salire in carrozza — si trovavano raccolti ministri, generali, direttori, impiegati e personale di servizio, per baciar la mano ai sovrani e dar loro il buon viaggio. Le carrozze, dove montarono, erano naturalmente coperte. Nella prima presero posto il re, la regina, il duca di Calabria e il conte di Trani; nella seconda, il conte di Caserta, il generale Ferrari, il colonnello Cappotta e il colonnello Severino; nella terza, il principe e la principessa della Scaletta, il duca di Sangro e il conte Latour; nella quarta, Murena e Bianchini coi rispettivi segretari, Costantino Baer e Fiorindo de Giorgio; nella quinta carrozza, Galizia e le due donne di servizio; e infine, nell’ultima, il cuoco Cammarano e due servi di cucina. Quest’ultima carrozza portava alcune provviste e quanto occorreva per mangiare, non che due brande e alcuni piccoli materassi. Precedeva un’altra vettura, ma non di Corte e vi prese posto Federico Lupi, supremo condottiero della spedizione, il quale calzava stivaloni sino al ginocchio e si dava molto da fare. Ad ogni carrozza erano attaccati quattro cavalli a coppie, con postiglioni.
Saliti tutti in vettura a un’ora pomeridiana, il re diè ordine di aprire il cancello di fronte al quartiere della cavalleria, ed aperto che fu dal vecchio guardaportone, Giuseppe de Flora, avendo visto appoggiati due cappuccini alle mura dei quartiere, i quali si sprofondavano in inchini, Ferdinando li salutò, ma voltosi alla regina, le disse: “Terè, che brutto viaggio che facimmo sta vota!„3 Varcando il cancello, i sovrani si segnarono, e cominciò quella via crucis, che doveva poi avere un così triste epilogo. Verso il tramonto dello stesso giorno si scatenò un violento aeromoto su Caserta, che schiantò parecchi alberi secolari del bosco e mandò in frantumi molti vetri del palazzo reale. Il mattino seguente, neppure il treno tra Caserta e Napoli potè passare liberamente, perchè la via era ingombra da un grosso pino abbattuto dalla bufera nel giardino Ciccarelìi, presso la stazione.
La prima tappa fu Avellino, dopo una sosta al celebre santuario di Santa Filomena, in Mugnano. Questo santuario fu, sino alla metà del secolo, celebratissimo per opera di don Francesco de Luoia, sacerdote mugnanese, il quale si era assunta la missione di far conoscere al mondo i miracoli di Santa Filomena, una santa bizzarra, come la chiamava lui, Per fortuna del santuario, Mugnano divenne per Ferdinando II un altro San Leucio. Quand’era a Caserta, vi andava per divertimento anche due volte il mese, nella buona stagione, e le sue gite avevano creata molta intimità fra lui e i mugnanesi. Se uno di questi riceveva un torto, esclamava invariabilmente: “Va bene; ce la vedremo quando viene il Re„ Al De Lucia erano succedute nella direzione del santuario le suore della carità, ma i decurioni, su proposta del sindaco Giuseppe Cavaliere, si avvisarono di donare il tempio a Ferdinando II, credendo con questo eccesso di zelo recar maggior vantaggio al paese. Però il re non accettò il dono curioso, e solo per soddisfare la molta vanità del marchese Del Vasto e di Pescara, lo nominò nel 1850 sopraintendente di quel santuario. A Mugnano si era recato anche Pio IX nel 1849, celebrandovi la messa e dalla foresteria benedicendo il popolo.
Il marchese d’Avalos fece gli onori del ricevimento, nella chiesa di Santa Filomena. Le case del paese erano imbandierate; e da ogni parte bì allineavano compagnie di fanteria e squadroni di cavalleria. Le musiche militari annunziarono l’arrivo dei sovrani. Alla porta del santuario, li attendeva monsignor Formisano, vescovo di Nola, che lì benedisse con l’acqua santa, mentre le alunne dell’educatorio Maria Cristina cantavano un inno. La reale famiglia si prostrò innanzi all’altare maggiore e il re vi stette sempre con gii occhi bassi. Il suo contegno fece a tutti impressione: nessuno riconosceva più in lui il sovrano che tante volte nella stessa chiesa aveva suscitate le risa di tutti, con i suoi motti napoletaneschi e salaci. Si ricordava che la penultima volta, in cui egli era tornato a Magnano, per far celebrare le solite messe pontificali, volgendosi alla regina, aveva esclamato a voce abbastanza alta, additando il capitano di gendarmeria Bega: “Guarda, Terè, com’è brutto Bega!...„ Che era accaduto? Il calore della chiesa piena di gente aveva disciolta la mala mistura, con cui il Rega si tingeva i capelli; e la mistura, colando, gli rigava dì nero la fronte ed il volto. In quel giorno invece non una parola scherzevole uscì dalle labbra di lui. Dopo mezz’ora gli augusti viaggiatori, ricevuta la solenne benedizione, lasciarono Mugnano. Prima dì partire, il re volle che i principi donassero al santuario i bottoni di ametista e malachite, di cui avevano ornate le camicie, per farne un ostensorio, nel quale dovesse conservarsi il sangue di Santa Filomena. Il rettore della chiesa di Mugnano non dimenticò poi di raccontare il regalo dei bottoni, narrando le glorie del tempio ai pellegrini. A Magnano furono attaccati alle carrozze sei cavalli vigorosi, provveduti dal maestro delle poste Antonio Ippolito, che ebbe una lauta gratificazione. Tre erano i postiglioni del re, Guidava la prima coppia di cavalli, Modestino Testa; la seconda, Giuseppe Tuccillo, tutt’e due di Avellino, giovanissimi; e la terza, un vecchio postiglione, detto Belluvomma. Il re non parve soddisfatto di vedersi in balla di due giovanotti, ma Mostaccione, il quale nelle salite scendeva dalla sua vettura e camminava a piedi accanto a quella del Re, lo rassicurò pienamente.
Così mossero da Mugnano, in mezzo al popolo plaudente, scortati da un plotone di gendarmi a cavallo. Cresceva il freddo e cominciò a cadere la neve. I cavalli non potevano andare sempre di trotto; anzi, alla salita del Gaudio, il Re e alcuni del seguito dovettero fare un piccolo tratto a piedi. Fu questo l’unico momento durante il viaggio, in cui parve che al re tornasse il suo umore abituale. I postiglioni erano scesi di sella, e, camminando il re accanto alla prima coppia di cavalli, poco discosti da Modestino, questi, vedendolo fumare, gli disse: “Maestà, me voliti rà stu muzzone?„4 Il re, credendo dì fargli cosa più gradita, gli dette uno sigaro intiero, che l’altro prese di mala voglia, rigirandolo fra le dita e non decidendosi ad accenderlo, nè a metterlo in tasca. Il re capi, e ridendo gli disse: “Nè, Modestiniè, te vuoi sfizià ’nfaccia ’o muzzone, eh? E pigliatillo„.5 Rimontando in vettura, ricadde nel suo mutismo. Nella discesa di Monteforte, per quella strada serpeggiante con dolce pendio, che egli aveva fatto costruire dodici anni prima, allorchè, discendendo per l’antica via, era ribaltata la una carrozza, rimanendone incolume, Ferdinando II invitò la regina e i figli a recitare il rosario, in memoria dello scampato pericolo.
Era già notte, e i cavalli andavano adagio fra la neve. Alla borgata Speranza, quasi alle porte di Avellino, s’incontrò un plotone di guardie d’onore intirizzite e poche carrozze di autorità e di notabili, e fu udita rumoreggiare, fra tutte, la voce stridente e calabrese dell’intendente Mirabelli, che ossequiava i sovrani e i principi. Le guardie d’onore, dopo aver reso il saluto militare, presero il posto dei gendarmi attorno alla carrozza reale. Le comandava Giuseppe de Conciliis, e ne facevano parte parecchi giovani delle primarie famiglie. È da ricordare che ogni guardia d’onore doveva avere almeno una rendita di trecento ducati e mantenere il cavallo a proprie spese. Si giunse in Avellino alle sei e mezzo.
La città era illuminata e, nonostante il gran freddo, il popolo si accalcava per le vie. L’accoglienza però non fu molte clamorosa. Era corsa voce che il re mal avrebbe sopportato un chiasso smodato, e si confortavano gli zelanti con la speranza di preparare feste maggiori per il ritorno, cioè all’arrivo degli sposi. Il contegno di Ferdinando II non era tale da suscitate entusiasmi. Il corteo riuscì confuso e disordinato, e chi volle entrò nel palazzo dell’Intendenza, dove si erano preparati per il re e la regina tre stanze a un angolo del palazzo: quelle che si chiamano anche oggi appartamento reale, e formano i gabinetti del prefetto e del segretario. Su uno dei terrazzini di quei palazzo, sporgenti sul corso, che ora s’intitola Vittorio Emanuele, e allora si chiamava via dei Pioppi, Ferdinando II, quattro anni prima, sull’imbrunire di una splendidi giornata estiva, prendeva un gelato conversando con vari personaggi. Scorgendo sulla via alcune signore, che passavano in carrozza sventolando i fazzoletti, il re si sporse per salutarle, e nel fare quell’atto, gli scappò di mano il cucchiaino d’oro che cadde sulla strada. Era guardia del portone un vecchio caporale di gendarmeria, Antonio Tamburrino, noto al re Ferdinando II, temendo che il cucchiaino venisse rubato, gli gridò dal balcone: “Tamburrì, Tamburrì: piglia sto cucchiarino, primma che i guagliuni ’o fanno volà„.6 Questa volta però i balconi erano ermeticamente chiusi per la tramontana, che soffiava gelida e tagliente; e il re, in cambio del gelato, prese una bibita calda, poi assistette alla presentazione delle autorità che gli venne fatta dall’intendente, con teatralità e lusso di aggettivi. La regina fu ricevuta dalla signora Mirabelli e dalla gentile figliuola.
Don Pasquale Mirabellì Centurione era mezzo calabrese e mezzo basilisco, e da circa dieci anni governava quella provincia. Fedelissimo al re, cui doveva l’elevato posto, per la simpatia ispiratagli dai suoi modi di attore da arena e dal suo spirito rozzo, ma non senza qualche acume, egli, nativo di Amantea, vi era stato sindaco e poi sotto intendente, dalla quale ultima carica fu destituito durante il periodo costituzionale del 1848. La gesticolazione teatrale e l’enfasi calabrese erano gran parte della sua natura; ed egli, anzichè temperarle, le esagerava simulando sensi feroci, mentre in fondo aveva indole non cattiva, tranne coi liberali. Per questi perdeva addirittura la ragione. Erano nemici del re, e tanto bastava, perchè egli si potesse permettere ogni nequizia a loro danno, come fece con Poerio, Castromediano, Pironti, Schiavoni, Braico, Pica, Nisco e gli altri condannati politici, rinchiusi nelle galere di Montefusco, Il suo governo fu demoratizzatore per necessità degli eventi e per la quasi assoluta assenza di carattere. Certo la dignità umana non deve molta riconoscenza al Mirabelli, ma egli fu personalmente onesto; e perduto l’ufficio nel 1860, visse a Napoli in miseria il resto della sua vita. Suo figlio Filippo era sottointendente di Altamura e fu destituito anche lui.
Primi ad esser presentati furono il sindaco della città, don Niccola Maria Galasso, vecchio ed onesto amministratore; il segretario generale dell’intendenza Tortora Brayda, che da pooo tempo vi era stato destinato da Foggia; don Michele La Mola, presidente della Corte criminale e padre di Antonio, oggi prefetto in riposo, don Giuseppe Spennati, procuratore generale; il presidente del tribunale Giuseppe Talamo e don Gaetano Barbatelli, ricevitore generale della provincia, il quale, perchè devoto ai Borboni, fu destituito nel 1860, e non avendo svincolata a tempo la grossa oauzione, vide andare in forno la sua sostanza. La casa del vecchio colonnello De Concily era il ritrovo dei liberali. Il De Concily, tornato nel Regno in virtù della Costituzione del 1848, era stato invitato dal re a riprender servizio nell’esercito col suo grado di colonnello, ma ricusò e solo cedette alle insistenze dei suoi amici, Raffaele Carrascosa e Guglielmo Pepe, i quali lo vollero colonnello della guardia nazionale di Napoli. Abolita la Costituzione, si ritirò in Avellino e visse quasi da solitario. Garibaldi, con decreto del 10 settembre 1860, lo promosse generale; e Cavour, senatore del Regno, subito dopo l’annessione delle provincie meridionali. Morì nel 1866 in Avellino, all’età di 92 anni. In casa del De Concily convenivano in quegli anni Pirro de Luca, nobile animo e mente colta e geniale, che sapeva a memoria quasi tutti i Promessi Sposi; Emidio de Feo, che ha lasciato onorata fama di sè; Gioacchino Orta, Domenico Capuano, Gioacchino Testa, Enrico Capozzi, conservatore delle ipoteche, che univa alla grande fortuna spirito colto e gusto d’artista, il dottor Giuseppe Amabile, padre di Luigi, Angelo e Giuseppe Santangelo, Niccola e Vincenzo de Napoli, Tommaso Imbimbo, e, fra i più giovani, Raffaele Genovese, Vincenzo Salzano, Florestano Galasso e Tito Criscuolo; i quali più tardi vedremo figurare tra i più ardenti nel movimento rivoluzionario. Motto d’ordine dei liberali avellinesi fu l’astensione compieta dalle feste. La rigidità della stagione e l’età del De Conoily, che aveva superato gli ottantacinque anni, potevano rendere non sospetta l’assenza di lui; ma Ferdinando II la notò, nè mancò chi a lui la commentasse malignamente. Furono poi presentati il commissario di polizia Iannuzzi, assai malvisto per i suoi eccessi birreschi, il capourbano don Domenico, o don Micariello Festa, innocua persona e il generale Michelangelo Viglia, comandante militare della provincia. Viglia era succeduto al barone Fiugy, morto tre anni prima, lasciando buona fama di sè, perchè non aveva mancato più volte di rilevare in Corte gli eccessi polizieschi del Mirabelli. Svizzero di origine, egli aveva natura generosa; era stato fedele soldato di Murat, compagno del De Conciìy e intinto di carbonarismo anche lui.
Queste furono le autorità avellinesi presentate al re, insieme al mite vescovo monsignor Gallo ed ai principali cittadini: don Carlantonio Solimene, don Fiorentino Zigarelli, don Gianfrancesco Lanzilli, l’avvocato Luigi Trevisani, padre di Gaetano, ma per sentimenti politici assai diverso dal figlio, e don Crescenzo Capozzi, fratello di Enrico e padre di Michele, già deputato di Atripalda. Don Crescenzo era inquisitore costantiniano per la provincia. Erano tutti, naturalmente, in giamberga e guanti gialli. Il ricevimento fu breve e freddo. Il re era visibilmente impaziente, parlò poco e tagliò corto sulle iperboliche adulazioni, che riuscivano insopportabili anche a lui; e alla fine, quasi seccato da tante cerimonie, chiese all’intendente: “Nè, Mirabè, che ce dai da magnà stasera?„7 Pacchere, Pacchere, Maestà„, rispose il Mirabelli, ridendo e saltellando. E il re: “E camme pacchere? Bella accoglienza ca ce fai coi pacchere; non è vero, principè?8 rivolgendosi alla principessa della Scaletta. Alle otto si andò a pranzo, e alla mensa reale presero posto i personaggi del seguito, l’intendente e la sua famiglia. Si mangiarono i famosi paccheri, fatti preparare dal cuoco del Mirabelli, felice che incontrassero il favore dei sovrani, dei principi, ma soprattutto del principe ereditario. Il re mangiò poco, seguitò a celiare con l’intendente, e levandosi di tavola, prima che il pranzo finisse, con un asciutto buona sera salutò i commensali e se ne andò a letto, seguito pochi minuti dopo dalla regina. Il seguito alloggiò in case private, e il principe e la principessa della Scaletta furono ospiti dell’avvocato Carlantonio Solimene.
La dimane il re si levò di buon’ora. Era impaziente di partire, benchè il tempo fosse orribile e seguitasse a cadere la neve, resa più molesta dal vento che soffiava forte. Non ascoltò coloro che Io consigliavano a sospendere la partenza. Volle mostrarsi anzi faceto, perchè alla principessa della Scaletta disse, appena la vide: “principè, vì che bella sorpresa v’aggio cumbicumbinata? Non ve pare de sta a Vienna, co tutta sta neve?„9 II re aveva ricevute molte suppliche per grazie e sussidi, e prima di lasciare Avellino, dispose insieme con l’intendente alcune elargizioni di pani, doti, abiti e letti, ed offrì un sigaro a! Mirabelli, che questi conservò, finchè visse, sotto una campana di cristallo. Elargizioni ne fece in tutti i luoghi dove si fermò, onde, quando giunse a Bari, si erano già distribuiti 35 000 pani, e 400 doti di sessanta e di trenta ducati, 230 abiti, 109 gonne, 540 camicie, 60 letti, oltre i sussidii in danaro. Atti di amministrazione, di cui si serbi memoria, non ne compì in Avellino, ma ne aveva compiuti alcuni rimasti memorabili, tre anni prima, in un pomeriggio estivo, quando vi giunse all’improvviso per la via di Monteforte, in un carrozzino scoperto a due posti, guidato da lui, con un altro personaggio, di cui non si ricorda il nome. Arrivò di cattivo umore, e fece subito chiamare alla sua presenza il direttore dei ponti e strade, non che l’ispettore e il vice-ispettore forestale. Con parole brusche rimproverò a quest’ultimo la sua imprevidenza, avendo visto dissodate alcune terre a pendio di Monteforte, e senz’ascoltar ragioni lo sospese dall’ufficio. Rivoltosi poi al direttore dei ponti e strade, rampognò anche questi pubblicamente per il cattivo mantenimento delle vie, notato da lui stesso. E poichè il direttore osò timidamente osservare, che dalla carrosza Sua Maestà non poteva essere stata in grado di valutare esattamente le condizioni della strada, il re gli rispose: “bestia: lo stato delle vie si valuta col c... e non con gli occhi„.
Da Avellino si partì alle 11, e le guardie d’onore si spinsero fino a Piano d’Ardine. Giunte qui, il re volle che tornassero indietro, a causa della bufera che imperversava. Le ringraziò, assicurandole del suo prossimo ritorno con gli sposi e promettendo una fermata più lunga. Di là le carrozze reali tirarono via di corsa. I freschi cavalli, forniti dal maestro di posta, Vincenzo Siciliani, trottarono vigorosamente fino all’altura della Serra con soddisfazione del re, cui il viaggio recava sempre maggiori disagi. Ma la soddisfazione ebbe corta durata. Da quell’altura la strada precipita sull’opposto declivio, in linea quasi retta, sino a Dentecane, Due miglia di fortissima pendenza e due palmi di neve ghiacciata! 1 cavalli sdrucciolavano, parecchi caddero, le ruote delle carrozze non resistevano più alle martinicche. Si dovette scendere e andare a piedi per un miglio. Il re camminava a stento, appoggiandosi al braccio di don Leopoldo Zampetti, guardia d’onore di Montefusco, uomo di statura gigantesca, I terrazzani, i sindaci e i decurioni dei vicini borghi, accorsi al passaggio con stendardi e bande musicali, si studiavano di diminuire l’asprezza del cammino, o spargendo terra sopra il ghiaccio, o battendo con grida festive i piedi sopra la neve, in modo da lasciarvi le impronte, sulle quali i sovrani potessero camminare più sicuramente. Anche le donne buttavano i caratteristici mantelli sulla via, per renderla più agevole alla regina. Così si continuò, per tutta la forte discesa, fra la bufera di neve. Tali dimostrazioni di affetto confortavano assai mediocremente il re, ma resero possibile la continuazione del viaggio. A Dentecane si rimontò nelle carrozze, che i contadini avevano sorrette per mezzo di funi. A memoria d’uomo non si ricordava una nevicata simile. Alle cave di Scarnecchia i cavalli si dovettero staccare e le carrozze trascinare dai contadini, Federico Lupi moltiplicava la sua attività e bestemmiava come un eretico, ma sottovoce, perchè il re non lo udisse. Alcuni del seguito scesero di nuovo, e percorsero a piedi un altro buon tratto di strada; ma non avendo stivaloni ferrati scivolavano; e la regina, che aveva scarpine di seta, fu lì lì per cadere anch’essa. Si sorreggevano al braccio delle guardie d’onore, imbarazzate nell’uniforme che non erano avvezze a indossare. Alle cinque, come Dio volle, si giunse sotto Ariano, dov’era il cambio dei cavalli.
Il re era assiderato, e come lui quasi tutto il seguito, di cui facevano parte uomini avanzati negli anni e non avvezzi a tali disagi. Di tratto in tratto, egli prendeva qualche sorso di rum. La regina mostrava una certa intrepidezza, la quale non riusciva però a dissipare la nota di malinconia, che su tutti incombeva. Non pareva gente diretta a una cerimonia di nozze, ma un corteo funebre, che la rigidità della stagione rendeva più lugubre, e un destino inesorabile spingeva su quelle vette solitarie, coperte di neve. Tutta Ariano aspettava alla stazione della posta. I sovrani furono ricevuti dal sindaco Ottavio Carluccio, dal sottointendente Ercole della Valle, dal vescovo monsignor Michele Caputo e dalle minori autorità, Era calato il sole e il freddo si sentiva più intenso. Ariano non venne compresa fra le tappe; e perciò, cambiati i cavalli, si sarebbe dovuto proseguire immediatamente per Foggia. Mostaccione affermava che nel vallo di Bovino era caduta una canna di neve e sconsigliava di andare innanzi. Il re, disceso dalla vettura, andò a chieder consiglio ai personaggi del seguito, i quali risposero che ai rimettevano a lui. Le autorità e la popolazione imploravano con alte grida che il re rimanesse quella notte in Ariano, e il re finì per acconsentirvi, rassegnato innanzi alla forza maggiore. Si salì in città e bisognò, in fretta e in furia, preparare gli alloggi nella casa del vescovo per il re, i principi e gli Scaletta; nel seminario e in case private per gli altri. Il re scelse per sua camera da letto il salone e vi fece rizzare la branda. Volle che nella camera accanto dormissero gli Scaletta. Le due camere, freddissime, erano in comunicazione mercè una porta, ma don Vincenzo Ruffo vi addossò il letto, per rendere più libera li camera del re. Aiutato dal cuoco del vescovo, Cammarano preparò in due ore un discreto pranzo, e alle 8 si andò a tavola e si mangiò di buon appetito, facendo specialmente tutti onora al piatto dolce, formato da magnifiche “meringhe„. Si tentò di riscaldare le camere con bracieri, ma vi si riuscì molto imperfettamente. Quella notte non fu comoda per nessuno. La mattina di buon’ora il re picchiò alla porta della camera dove dormivano gli Scaletta, dicendo al principe: “Paisanuzzo, sienti che friddo; che stai facenno?„10 E Scaletta: “Maestà, sto dormenno„. Scaletta era siciliano, e Ferdinando II lo chiamava con quel vezzeggiativo familiare, parlando con lui il natio dialetto.
Si disse che il re nella notte fosse colto da fortissima febbre e tormentato da visioni paurose. Fu anche stampato che Galizia, udito rumore nella stanza del sovrano, vi entrasse e vedesse Ferdinando II in piedi, con una pistola in pugno, in atto di difendersi da un assassino immaginario. Si disse pure che il re passasse il resto della notte insieme col Galizia e coi marinai di scorta, che non c’erano: fandonie partigiane e postume. Alle nove del dì seguente il re scese in Duomo, per ascoltare la messa celebrata dal vescovo; e i numerosi convenuti rimasero impressionati dal volto pallido di lui, dopo quel viaggio e quella notte così disagiata. Ma forse questa circostanza contribuì a creare la favola che monsignor Caputo avesse avvelenato Ferdinando II. Il vescovo di Ariano apparteneva all’ordine dei predicatori, ed era nato nel 1808 a Nardò; preconizzato, nel 1852, vescovo di Oppido in Calabria, fu traslato nel 1858 ad Ariano, si disse per ragione di costumi. Non era uomo da immaginar regicida, anzi, fino al 1860, nessuno seppe mai che avesse nutrito sentimenti liberali, e lo si aveva invece in conto di fanatico reazionario. Fu solo dopo il 1860, che venne fuori la fiaba dell’avvelenamento, avvalorata dalla circostanza, che il Caputo fu dal governo dittatoriale nominato cappellano maggiore, e dalla sua amicizia con quel padre Prota, domenicano anche lui, che svestì e rivestì la tonaca. Monsignor Caputo era un bell’uomo, cui aggiungeva dignità l’abito bianco, ornato della croce episcopale. L’avvelenamento per cibo o per bevanda era impossibile, perchè il re mangiò quello che mangiarono gli altri, e il pranzo non fu fornito dal vescovo, ma preparato dal Cammarano. Si disse che l’avvelenamento fosse stato compiuto per mezzo di un sigaro estero, regalato al re dal vescovo dopo il pranzo, mentre è noto che Ferdinando II fumava solo sigari napoletani, e per quanto il suo fervore religioso gli facesse baciare la mano ai vescovi, nessuno di questi, e meno di tutti il Caputo, era con lui in tale dimestichezza, da prendersi la libertà di offrirgli un sigaro. Però la tradizione è rimasta viva fra i vecchi legittimisti, ed a conservarla contribuirono l’inconcludente vanità, o meglio l’imbecillità del vescovo, il suo postumo liberalismo e l’affermazione di Mostaccione, che il vallo di Bovino biancheggiasse di una canna di neve, mentre non ve n’era punta. Si ritenne che il vescovo Caputo e Federico Lupi ubbidissero alla “setta„ che aveva giurata la morte di Ferdinando II. E vi concorse anche il bisogno di attribuire la morte del re, di soli quarantanove anni e di complessione atletica, a ragioni straordinarie: tanto parve strana nei suoi fenomeni la malattia, e più strana la circostanza, che nessuno degli altri viaggiatori, molti dei quali erano più anziani, soffrì nulla di grave, oltre l’incomodo del viaggio: nulla soffrì la regina e nulla i principi; i soli che si permettessero qualche volta di celiare, ma di nascosto, sull’imbarazzo dei pacchiani cerimoniosi impacciati e resi muti dal freddo.11
Alle 10 1/2, i viaggiatori mossero da Ariano per Foggia. Era la seconda parte di quella tappa assurda, che il re voleva compiere da Avellino a Foggia: assurda, anche se le strade fossero state in buone condizioni, ma sempre però meno dell’ultima da Acquaviva a Lecce. Nell’atto della partenza non nevicava, anzi per un poco si vide il sole. Ma qualche miglio più in là, prima di entrare nello storico vallo di Bovino, riecco la bufera e con essa le difficoltà di andare innanzi. Alla salita di Camporeale si scese di nuovo dalle vetture, e il re, che si sentiva molto stanco, si mise a sedere sopra un mucchio di sassi, che coprì col suo mantello e vi rimase alcuni minuti. Nel levarsi, sentì un acuto dolore all’inguine e stentò a rimontare in vettura. All’ingresso della Capitanata, là dove si succedono le montagna di Greci e di Savignano, si trovarono le autorità dei comuni del Vallo, con le guardie urbane e le bande musicali e una folla di popolo, che acclamò i sovrani. Al primo cambio postale presso Montaguto, furono incontrati da don Raffaele Guerra, intendente della provincia, dal comandante delle armi e da altre autorità provinciali. Tutto il Vallo era perlustrato da gendarmi a cavallo. L’intendente presentò al re gli omaggi della provincia e n’ebbe in risposta poche e fredde parole. Fu ripreso il cammino che divenne men disagevole, di mano in mano che si discendeva in Puglia. La via era popolata da deputazioni dei vicini comuni; e le guardie urbane, disposte in doppia fila, battevano i denti dal freddo, ma si sforzavano di simulare un aspetto marziale. Non vi era più neve. Le deputazioni e i decurionati avevano stendardi di mussolina bianca con gigli, e vi si leggeva il nome delle rispettive comunità, con la scritta Viva il Re. Al secondo cambio, al ponte di Bovino, altre autorità e nuove acclamazioni; a Pozzo d’Albero aspettavano le autorità comunali di Troja. Si giunse a Foggia alle quattro, tra una moltitudine plaudente.
Era sindaco della città Vincenzo Celentano; caposquadrone delle guardie d’onore, Gaetano della Bocca; capo delle guardie urbane, Francesco Paolo Siniscalco. Foggia aveva fatti splendidi preparativi, anzi sontuosi. Componevano la commissione dei festeggiamenti, Alessio Barone, Gaetano de Benedictis, Antonio Bianco, il marchese Saggese, Lorenzo Scillitani, che poi fu sindaco e deputato di Foggia e il notaro Andrea Modula. Rossi e Recupito furono gli architetti degli addobbi. Un arco trionfale sorgeva al principio del corso Napoli, ora Garibaldi: arco grandioso, coronato da statue rappresentanti il genio borbonico nell’atto di coronare la giustizia e la virtù. Altro arco s’innalzava sulla via di Cerignola, e un tempio addirittura si estolleva accanto all’Intendenza, dove prese alloggio la famiglia reale. Su questo tempio erano dipinte sopra trasparenti le immagini dei sovrani, con questa epigrafe: A Sua Real Maestà — Ferdinando II — Re del regno delle Due Sicilie — monarca e padre augusto clementissimo — Foggia — glorificata da un avvento sospirato memorando — colma d’ineffabil gratitudine — l’omaggio avito di sua devota sudditanza — e d’incrollabile fede — tributa reverente. Festoni di mortella, candele di bengala e lumi dappertutto. Le feste costarono, si disse, cinque mila ducati, anticipati dagli appaltatori dei diversi servizi. Si aprirono sottoscrizioni private, ma fruttarono poco e finì col pagare il Comune, stornando quasi tutta la somma dalla fabbrica del porticato della villa. L’entusiasmo dei foggiani si spiega anche con questo, che consideravano Ferdinando II quale uno de’ loro, perchè era andato più volte alla famosa fiera di maggio, in borghese, con stivaloni e con grossa mazza ad uncino, a comprar cavalli e a vendere i prodotti delle sue tenute di Tressanti e di Santa Cecilia. Egli, che ci teneva ad essere un latifondista del Tavoliere, conosceva quasi tutti a Foggia, vi stava con grande fiducia e aveva preso a voler bene al brigadiere dei gendarmi, certo Fujano, borbonico furente.
Il corteo entrò da porta Napoli. Sotto il primo arco erano raccolte le altre autorità, col vescovo monsignor Berardino Frascolla, col clero e le congreghe. Il re baoiò la mano al vescovo e volle che la baciassero la regina, i principi, e tatti i personaggi che l’accompagnavano. Mentre il re baciava la mano al vescovo, si narrò che la statua della giustizia, posta sopra l’arco e fatta di cartapesta, girasse sul suo perno, e che da ciò abbia poi avuto origine il detto locale, a riguardo della giustizia: “purchè non rivolti come la statua„. Il reale corteo si diresse alla cattedrale e il re entrò nel tempio sotto un ricco baldacchino dorato, retto da otto decurioni. All’ingresso monsignor Frascolla gli offrì l’acqua benedetta e l’ossequiarono i vescovi di Sansevero e di Lucera, Sull’altar maggiore della chiesa, riccamente addobbata con damaschi e broccati, era posto il quadro della Madonna dei Sette Veli, protettrice della città. Tutti s’inginocchiarono e fu cantato il Te Deum a piena orchestra, poi le litanie, alle quali segui la benedizione. Ferdinando II fissò il binoccolo sul quadro della Madonna per vederla meglio, e, non riuscendovi, pregò il vescovo di fargli trovare, al ritorno, il quadro più in basso. Il quadro fu infatti abbassato, ma Ferdinando non lo rivide più. Dalla chiesa al palazzo della dogana, dov’è, anche oggi la prefettura, fu un cammino trionfale in mezzo a tutta la popolazione stranamente esaltata. Saliti che si fu nell’appartamento, le ovazioni non cessarono. Il re dovette ringraziare dal balcone, che guarda la piazza San Francesco Saverio, mentre la regina rimase dietro i vetri. I principi occupavano un altro balcone, e il principe ereditario gettava tarì12 al popolo, sollazzandosi coi fratelli a vedere il pigia pigia della folla per raccoglierli.
Durante la breve dimora in Foggia, Ferdinando II firmò il decreto, col quale volle “per così fausto avvenimento impartire i tratti della sua sovrana clemenza a coloro, che, per commessa violazione a’ precetti di legge, sono colpiti dalla corrispondente retribuzione delle pene„. Furono diminuite di quattro anni le condanne ai ferri, e di due le pene correzionali; vennero condonate le detenzioni ed ammende per contravvenzione, ma furono esclusi dalla sovrana indulgenza gl’imputati o condannati per furto, per falso, per frode, per bancarotta e per reati forestali. Il decreto, o atto sovrano, datato da Foggia il 10 gennaio, comprese pure i condannati politici rimasti nelle prigioni, poichè a sessantasei di loro, ritenuti i più pericolosi, Ferdinando II, tre giorni prima di partire da Caserta, aveva commutata con altro decreto, come si è detto, la pena dell’ergastolo e dei ferri, in esilio perpetuo dal Regno. Di quei sessantasei, non vi è più un superstite. Morirono ultimi Achille Argentino e Domenico Damis, che furono dei Mille e poi deputati, e Niccola Schiavoni, già deputato di Manduria e senatore del Regno. Damis entrò nell’esercito italiano, salì al grado di maggiore generale; Argentino fu direttore di una succursale del banco di Napoli. Il duca di Gabellino, Sigismondo Castromediano, morì nel 1896; nel 1897 Gennaro Placco; e Niccola Schiavoni, la cui verde vecchiezza era argomento di letizia per quanti lo conoscevano, morì nel novembre del 1904, in seguito a vivacissime invettive scagliate, con tutto l’impeto della sua indole generosa, contro un noto “galantuomo,, della sua città. Ad iniziativa di un Comitato nazionale13 gli sarà eretto, per pubblica sottoscrizione, un ricordo marmoreo a Manduria, pregevole opera dello scultore romano Giulio Tadolini.
Note
- ↑ En Glömd Hjältinna (Un’Eroina dimenticata) è il titolo di un libro di Clara Tschudi, pubblicato a Stoccolma nel 1904. In esso, ch’è tutto una apoteosi dell’ex regina di Napoli, sono narrati molti particolari circa l’educazione di lei. Altre notizie son tolte di pianta dalla seconda edizione della Fine di un Regno, senza citarla, naturalmente.
- ↑ Frase dialettale, che vuol dire pettinare.
- ↑ Teresa, che brutto viaggio che facciamo questa volta!
- ↑ Maestà, mi volete dare questo mozzicone?
- ↑ Nèh, Modestiniello, vuoi gustarti il mozzicone, eh? — Prendilo.
- ↑ Tambarrino, Tambarrino, raccogli questo cucchiaino, prima che i ragazzi lo facciano volare.
- ↑ Nèh, Mirabelli, che ci dai da mangiare questa sera?
- ↑ Paccheri, specie di grossi maccheroni, che sono una ghiotta specialità di Avellino. Nel linguaggio dialettale napoletano paccheri vuol dire schiaffi, e perciò il re scherzava sul doppio senso della parola.
- ↑ Principessa, guardato che bela sorpresa vi ho preparata! Non vi pare di stare a Vienna con tutta questa neve?
- ↑ Paesanuzzo, senti che freddo; che fai?
- ↑ Nel 1899 vide la luce in Catania, per i tipi dei fratelli Perrotta, un breve opuscolo del signor Francesco Catanoso, dal titolo: L’avvelenamento di re Ferdinando. Vi si afferma, senza alcuna prova, che monsignor Caputo aveva avvelenato il re, condendo di lue sifilitica (!) i cibi preparati per lui. Ma le inesattezze grossolane di quella narrazione son tante, e non val la pena di occuparsene.
- ↑ Moneta d’argento, equivalente a 85 centesimi.
- ↑ Comitato già preseduto dal compianto generale Carlo Mezzacapo, e dopo la morte dì lai, dal senatore barone Ottavio Serena.