La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII

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CAPITOLO XVIII

Sommario: Le tre Università dell’Isola — I tre Cancellieri — I professori dì maggior fame — Sampolo, Pantaleo e Gorgone — Quel che si richiedeva per essere levatrice — Monsignor Crispi e l’architetto Giachery — Altri professori — Gli studii privati e gli studenti — Il decurionato di Palermo — L’ultimo bilancio dal 1856 al 1860 — Alcuni particolari caratteristici — Le spese di culto — Curiosità e aneddoti — Gli ultimi pretori — Il principe di Galati — Alcuni sindaci dei nuovi tempi — Confronti che sembrano inverosimili — La bonifica di Mondello — L’Università di Catania — Un libro apologetico — Professori, studenti od epigrammi — Zurria, Marchese e Tedeschi — Una curiosa lettera dell’intendente Panebianco — L’Università di Messina e i suoi insegnanti — Altri confronti.


La Sicilia aveva tre Università, a differenza delle provincie continentali, le quali ne avevano una sola. Le Università di Sicilia contavano gloriose tradizioni, ed hanno avuto recentemente qualche storico di valore. Dal 1849 al 1860 ebbero insegnamenti incompleti, e soltanto quella di Palermo contava un numero discreto di studenti, perchè poteva accoglierne da quattro provincie, mentre l’Università di Catania raccoglieva quelli di Catania e Siracusa, e Messina solamente quelli di Messina. Benchè a Palermo convenissero gli studenti di quattro provincie, nondimeno il loro numero di rado superò i cinquecento fra tutte le cinque facoltà; anzi nell’anno scolastico 1853-54 furono quattrocentosette, nel 1854-155, forse a causa del colera, discesero a trecentosessantaquattro. Il maggior numero era di studenti di diritto; scarsissimi quelli di filosofia e lettere; irrisorio il numero degli studenti nella facoltà di [p. 390 modifica]teologia. Il giovane clero preferiva l’insegnamento dei seminari, benché all’Università insegnasse diritto canonico quell’abate Crisafulli, vera autorità in questa materia e nel diritto feudale e che ebbe tante vicende dopo il 1860.

Il rettore, il maestro di spirito e il bibliotecario erano di nomina regia, su proposta della commissione di pubblica istruzione, e a Palermo si dovevano scegliere tra i padri teatini della casa di San Giuseppe, rimanendo in vigore una curiosa disposizione, contenuta in un rescritto del 1805, che concedeva i tre ufficii a quei frati, in compenso di una parte del locale che essi cedettero all’Università. I tre studii siciliani avevano, nominalmente sei facoltà: teologia, giurisprudenza, medicina, fisico-matematica, filosofia, lettere e belle arti; ma, dove più dove meno, queste facoltà erano, come già si è detto, incomplete. Sembra strano, ma nessun concorso fu mai bandito nell’ultimo decennio per provvedere alle cattedre che venivano a mancare, ad esse provvedendosi con sostituti interini o provvisori. Messina e Catania non avevano l’insegnamento della lingua ebraica, nè la spiegazione della sacra scrittura, anzi Messina non aveva neppure la cattedra di teologia morale. Della facoltà di giurisprudenza, Catania e Messina non avevano la medicina legale, ed in quest’ultima Università mancava persino l’insegnamento dell’economia, dell’etica e del diritto naturale. I tre teatini, che in quegli anni stettero a capo dell’Università palermitana, furono il padre Laviosa, rettore; il padre Piambanco, bibliotecario, e il padre Filippo Cumbo, maestro di spirito, i quali vissero senza infamia e senza lode.

La deputazione universitaria, che il Filangieri fece ottenere all’ateneo di Palermo, in luogo dell’antica commissione di pubblica istruzione, era preseduta da don Pietro Crispo Floran, col titolo di gran cancelliere. Uguale ufficio nell’Università di Messina era tenuto dall’arcivescovo, e a Catania da don Carmelo Martorana. Il Crispo Floran, presidente del tribunale civile di Palermo, dotto giurista, percorse tutti i gradi della magistratura e morì nel 1884 primo presidente della Cassazione di Palermo e senatore del regno d’Italia, benché non riuscisse a prestar giuramento. Il Martorana, consigliere della Gran Corte civile dì Catania, aveva fama di buon magistrato e morì vecchio nel 1870. Ma l’arcivescovo di Messina, Cardinal Villadicani, [p. 391 modifica]non aveva davvero alcun titolo per così alta oarica. Bonario e pietoso con gl’infelici e di tendenze piuttosto larghe in politica, egli non era uomo di studii, anzi a Messina ancora si ricordano parecchi aneddoti di sua poca sapienza.


A Palermo, nella facoltà giuridica, si distingueva Pietro Sampolo, che insegnava codice civile e pandette. Era stato fra i difensori delle vittime della Fieravecchia, e aveva raccolte delle somme per far celebrare un funerale in Genova a quei disgraziati, Gli studenti accorrevano numerosi e plaudenti alle sue lezioni. Lesse parecchie prolusioni, che sono pregiate monografie giuridiche; e nel 1859 lesse l’orazione inaugurale che gli procurò non poche molestie, non avendovi egli fatta menzione del re, nè del suo luogotenente, che assisteva alla cerimonia. Fu ucciso da mano ignota nel 1861, mentre tornava da una sua campagna presso Palermo, nè dell’assassino si seppe nulla. I nomi illustri nella facoltà di medicina erano il Gorgone e il Pantaleo, un chirurgo e un ostetrico, ì quali esercitavano la professione con grandissimo successo. Il Pantaleo fu il primo ostetrico dei suoi tempi, e i suoi alunni, oggi uomini maturi, ne ricordano la memoria con venerazione. Creò una clinica ostetrica, di cui non vi era l’ombra. Prima di lui, come ne ha scritto il Pitrè, Palermo non aveva che un rifugio di maternità, alla cui porta le donne andavano a battere, o strette dalla durezza della povertà, o spinte dal pudore di colpe da nascondere; e, come ricorda il professore Chiarleoni: “poche stanze erano nell’ospedale comune, destinate al ricovero delle gravide e partorienti, sotto l’immediata direzione di una levatrice maggiore, mentre ara fatto divieto al professore di penetrare nelle sale, se non chiamato dalla levatrice!„ Del resto non in Sicilia soltanto, ma in tutto l’antico Regno, l’esercizio della ostetricia era nelle mani delle levatrici, poiché nelle famiglie, senza distinzione di ceti, la levatrice godeva maggior fiducia che non ne godesse il chirurgo. Se il Pantaleo non ottenne quanto voleva, dati i tempi e i pregiudizi, ottenne però molto, perchè vennero abrogati i regolamenti vecchi e il professore di ostetricia fu riconosciuto indipendente nell’ospedale, e le sale delle ricoverate messe a sua disposizione. Ma per le levatrici seguitò a bastare, secondo le prammatiche viceregali e i sinodi diocesani, che fossero sui [p. 392 modifica]quarant’anni, “maritate o vedove, non mute, nè scilinguate, pulite, monde di morbo gallico e di malinconia, istruite nella dottrina cristiana„. Di una scuola per le levatrici, le quali erano adoperate a giudicare e trattare tutto ciò che offrono di morboso la gravidanza e il puerperio, a regolare l’allattamento e a dar pareri nelle malattie dell’utero, di una scuola così necessaria insomma, il governo borbonico non volle mai sentire. Occorrevano i nuovi tempi, perchè le idee del grande ostetrico divenissero un fatto compiuto.

Il Pantaleo fu il creatore della sua fama e della sua fortuna Era di Nicosia, di famiglia poverissima. Vestito da chierico, giovanetto a diciottenni, partì dalla sua terra di origine fra le lagrime dei parenti, a dorso di un mulo. I primi anni furono assai penosi, ma trionfò di ogni ostacolo e si affermò il maggior ostetrico dei suoi tempi, e dopo avere assistito alla propria apoteosi, colla celebrazione del cinquantesimo anniversario del suo insegnamento ufficiale, morì nel dicembre del 1896, a ottantacinque anni, lasciando un ricco patrimonio. Vincenzo Pantaleo, autore di graziosi racconti per l’infanzia, è il suo unico figliuolo maschio e ne porta degnamente il nome.

Se Pantaleo fu il creatore della clinica ostetrica, Giovanni Gorgone fu il creatore della clinica chirurgica, come il primo anatomista dell’Isola. Operatore di rara abilità e scienziato di molta dottrina, egli scrisse memorie e dissertazioni, nonché un trattato di anatomia descrittiva in due grossi volumi. In quei tempi, in cui la chirurgia non aveva l’immenso aiuto degli antisettici, compì operazioni audacissime, introducendo nuovi processi e rimedii. Fu membro di varie accademie italiane e straniere, e alcune sue memorie sono ancora consultate. Nativo di San Pietro sopra Patti, era professore, in seguito a concorso, a venticinque anni, e la sua carriera scientifica fu tutta un trionfo, Morì nel 1868. Non di pari fama del Pantaleo e del Gorgone, ma di forte ingegno, era il dottor G. B. Gallo, che insegnava anatomia e aveva nome di clinico esperto e di uomo eccentrico. Viveva solo, nè mai volle vicino chi ne avesse cura, neanche il gigantesco fratello Giuseppe, medico anche lui, ma d’ingegno molto inferiore.

Nella facoltà di filosofia e lettere brillava monsignor Giuseppe Crispi, professore di lingua e archeologia greca, ritenuto [p. 393 modifica]il maggior ellenista dei suoi tempi. Vescovo titolare di Lampsaco e zio di Francesco Crispi, si disse ch’egli aiutasse il nipote durante l’esilio, ma non è vero, anzi ne deplorava i principii liberali. Salì a meritata fama e lo attestano le sue pubblicazioni, soprattutto i tre volumi della grammatica greca. Fu anche presidente dell’Accademia reale di scienze, lettere ed arti di Palermo. Il professore di lettere italiane era Giuseppe Bozzo, brav’uomo, mite regio censore, morto una dozzina d’anni fa, ultimo degli arcadi in Palermo. I letterati del tempo gli preferivano Gaetano Daita, il quale non era professore all’Università perchè, ingiustamente, nel concorso universitario per la cattedra di eloquenza, poesia e letteratura italiana era stato posposto al Bozzo; ma dirigeva un istituto privato, che ebbe vita florida. Martino Beltrami Scalia vi dava lezioni di geografia, e quello spirito eletto di Carmelo Pardi, dell’Ordine dei minimi, insegnava lettere italiane e storia. Era il Pardi uomo di varia cultura, grazioso poeta e fu uno dei fondatori della Favilla. Morì a 53 anni nel 1875, e di lui scrisse con affetto il professore Luigi Sampolo. Nella lista degli scrittori colti, che rifulsero in Palermo negli ultimi dieci anni, il Pardi conta fra i primi. Ma per tornare all’istituto Daita, dirò che esso fu davvero un vivaio di giovani, i quali ebbero parte nel movimento liberale e poi nei pubblici uffici, e godeva maggior credito dello stesso real convitto San Ferdinando, tenuto dai gesuiti, e dello “stabilimento letterario Vittorino e Ginnasio„, posto sotto gli auspicii del principe dì Galati, pretore della città. Il Daita era fuggito a Malta, dopo la restaurazione: era stato deputato fra i più caldi nel 1848; tornò a Palermo nel 1851; aprì il suo istituto e non ebbe molestie. Nell’elenco degli ex deputati, che sottoscrissero la nota abiura, il suo nome non figura. Il Bozzo e il Daita erano gli epigrafisti del tempo: il Daita, più spontaneo e meno retore; il Bozzo, stentato e arcadico commentatore di Dante e di Petrarca, ma quanto lontano da quel G. B. Niccolini, che gli fu amico! Nella facoltà di belle arti va ricordato Carlo Giachery, uno dei migliori architetti di allora. Il Giachery era di Padova, andò giovinetto a Palermo con la famiglia, vi fece gli studii, si laureò noi 1833 e si perfezionò poi a Roma, ispirandosi nelle opere dei grandi maestri. Tornato a Palermo, divenne professore di architettura civile, e via via si affermò [p. 394 modifica]architetto di potente ingegno. Ingrandì il palazzo dei ministeri, rifece il teatro di Santa Cecilia, la facciata e il vestibolo dell’Università, costruì i primi molini a vento e fu il braccio destro di Vincenzo Florio; innalzò l’ospizio di beneficenza e, nominato nel 1855 ispettore di ponti e strade, compì altri lavori d’interesse pubblico. Era un architetto di gusto. Nella villa Florio dell’Arenella costruì una sala da pranzo in istile gotico così ben riuscita, che l’imperatore Niccolò di Russia, visitandola, fece rilevarne i disegni e ne volle una simile a Pietroburgo, la quale, in memoria di Palermo e dell’architetto, chiamò sala Areneìla. Morì a 53 anni, nel 1865.

Nella facoltà di scienze fisiche e matematiche inseguii astronomia don Domenico Ragona Scinà, nominato nel 1860 direttore della Specola, dopo che fu destituito Gaetano Cacciatore, figlio del celebre Niccolò. E quando nel 1860 tornò il Cacciatore, il Ragona Scinà, dopo alcuni anni, fu mandato all’Università di Modena. Giuseppe Inzenga era sostituto alla cattedre di agricoltura. Vera competenza in fatto di scienza agraria, avevi fama di liberale e di spirito spregiudicato in fatto dì religione, Scriveva versi dialettali, che rispecchiano queste sue tendenze, non sempre di buona lega. Anche in tarda età, vegeto e robusto, dirigeva l’istituto agrario Castelnuovo ai Colli, che la munificenza del principe Carlo Cottone lasciò a scopo di pubblico insegnamento. Dirigeva inoltre gli Annali dell’agricoltura siciliana, dì cui si è parlato. Indomabile nella sua avversione ai Borboni, fu più tardi indomabile avversario della parte moderata, del Papa e dei preti. Era un libero pensatore, oui piacere la vita allegra e gioconda. Insegnava botanica ed era direttore dell’orto, don Vincenzo Tineo, che di numerose scoverte avevi arricchite le scienze naturali. Prima d’insegnar botanioa, il Tineo aveva dettate lezioni di materia medica. Altro esempio d’intelletto versatile fu più tardi Agostino Todaro, che gli successe nell’insegnamento della botanica. Insigne avvocato prima, da competere coi maggiori, e poi insigne botanico, morì nel 1892, senatore del Regno.

Ricorderò fra i professori della facoltà giuridica Giuseppe Mario Puglia, sostituto alla cattedra di diritto penale, avvocato animoso che difese il Garzilli e i suoi compagni della Fieravecchia, e poi Francesco Bentivegna e Mariano Siragusa, e [p. 395 modifica]aveva assunta la difesa di Giovanni e Francesco Riso, per i fatti della Gancia. Le poche e commosse pagine, che di lui scrisse Giuseppe Falcone, rivelano l’ingegno e la mirabile attività del Puglia, che fu deputato di Palermo e morì nel 1894. Giovanni Bruno insegnava economia, non politica o sociale, ma civile, fin dal 1846; deputato e giornalista nel 1848 e amico di Ferrara e di Crispi, fu persona colta e antico apostolo del libero cambio e delle casse di risparmio. Benchè avesse sottoscritto anche egli la nota ritrattazione, era tenuto d’occhio dalla polizìa, anzi si asseriva che un poliziotto travestito assistesse alle lezioni di lui. Certo è che il giorno 18 marzo del 1858 gli fu mandato da Maniscalco questo monito: “il direttore del dipartimento di Polizia avverte il stg. professore Bruno di essere più castigato nel linguaggio quando sulla cattedra svolge alcune teorie di economia, nelle quali balenano concetti arditi, che infiammano una gioventù ardente e facile a concitarsi alle idee, che sconfinano in esagerazioni politiche„. Liberista, era molto applaudito dagli studenti. Nel 1852 sostenne una lotta per la libertà del panificio, e negli anni 1859-1863 pubblicò la sua opera maggiore: Scienza dell’ordinamento sociale. Morì regionista, anzi autonomista convinto, a Palermo, nell’aprile del 1891.

Questi professori, che ho voluto rammentare, erano i più amati dalla scolaresca, mentre il più odiato era Giuseppe Danaro, sostituto alla cattedra dì codice civile, già liberale, poi ultra-borbonico e infine prefetto di polizia. Da principio credette conciliare i due uffici, ma gli studenti prima lo fischiarono, poi disertarono le sue lezioni ed egli fu costretto a lasciare la cattedra.


A Palermo fiorivano, meno che a Napoli, gli studi privati, e soli pochi professori universitarii avevano studio nelle proprie case. Tra gl’insegnanti privati mi limiterò a ricordare il professore Luigi Sampolo, che dettava dotte lezioni di diritto civile e il cui studio era il più frequentato, nonchè l’avvocato Niccola Uzzo, che insegnava procedura civile. Il Sampolo era fratello di Pietro e lo supplì per pochi mesi nel 1853. L’Uzzo, autore di opere non ispregevoli, fu nominato nel 1859 insegnante provvisorio di procedura civile all’Università. [p. 396 modifica]Gli studenti non formavano a Palermo, come a Napoli, un piccolo inondo a sè, nè abitavano in quartiere speciale della città. Si allogavano alla meglio in qualche locanda di più che mediocre ordine, o in qualche convento di frati, specialmente nella cosiddetta infermeria dei cappuccini, o in pensioni, ed erano da essi preferiti i paraggi più vicini all’Università e le minuscole locande di Lattarini e dell’Albergheria. Non avevano ritrovi speciali, nè erano fatti segno alle continue vessazioni della polizia, come a Napoli e a Catania. Di certo la polizia li teneva d’occhio, e chi entra oggi nell’atrio dell’Università trova a man diritta una porta chiusa da quarantotto anni. Quella porta dava in una stanza, dov’erano permanentemente un ispettore di polizia e due agenti di sicurezza, messi là per accorrete, se mai nell’atrio si fosse fatto chiasso fra una lezione e l’altra, o si fosse fischiato qualche professore. Non erano però temuti, anzi spesso prendevano anche loro una parte di fischi, senza riuscire a scoprire i fischiatori. Ma quei fischi e quei tumulti erano un nonnulla rispetto ai bestiali tumulti di oggi. Gli studenti potevano prendersi giuoco della polizia, fino a un certo punto, allora. Essendo pochi, era facile saperne vita e gesta, Nella stessa Università esisteva un oratorio, con obbligo agli studenti d’intervenirvi, occorrendo un certificato del prefetto dì spirito, per conseguire i gradi accademici: l’oratorio non era mai affollato, ma i certificati non si negavano. La polizia lasciava correre, ma i giovani non ne abusavano. L’Università presentava una vita tutta movimento, perchè la popolazione scolastica non era formata solo da studenti, ma ad essi si aggiungeva un numero notevole di uditori estranei, i quali amavano lo studio di alcune scienze e ne seguivano i corsi. Le tendenze politiche più liberali erano quelle della scolaresca: tutti sognavano una Sicilia libera da Napoli e dai Borboni, e molti, negli anni più raffini al 1860, un’Italia libera con Vittorio Emanuele, o costituita in repubblica. Mazzini esaltava molti cuori avidi d’ideali; ma negli ultimi tempi la tendenza monarchica con casa Savoia prese il disopra sulla tendenza mazziniana. Però non giova anticipare la narrazione. Non ostante le distanze, i pericoli e la vigilanza di Maniscalco, penetravano fra i giovani le opere politiche di maggior conto, ma singolarmente quelle degli esuli scrittori siciliani. La storia di Giuseppe Lafarina, pubblicata a [p. 397 modifica]Capolago nel 1850, ebbe fra i giovani larghissima diffusione, e molti recitavano pagine intere di quel libro emozionante. Coloro, fra i librai, che riuscivano a far penetrare in Palermo l’Assedio di Firenze del Guerrazzi, ed altri libri proibiti, in prosa o in versi, facevano lauti guadagni. Molto affiatamento era tra i giovani e i professori, e se ad ogni minaccia di dimostrazioni, l’ateneo era il primo ad essere chiuso e seguiva l’arresto di qualche studente, i compagni e i professori facevano a gara perchè fosse liberato. Tra i più attivamente cercati era quel grande audace di Cocò (Niccola) Botta da Cefaìù, il quale, noto come studente cospiratore, era costretto a barattare di continuo abiti coi fidi compagni ed a mutar sempre nascondigli, per sottrarsi alla vigile e sempre agitata polizia. Se l’insegnamento non era completo nè libero; se molti professori erano mediocri; se mancavano i gabinetti e difettavano le cliniche, questo non impedì che venissero su uomini di valore. Oggi le cattedre sono cresciute, abbondano i professori nominati per concorso, i gabinetti sono largamente forniti, l’insegnamento è libero, ma l’Università siciliana ritrae tutte le magagne dell’Università italiana, in genere: è folla senza ideali, è fabbrica di diplomi, e se non li ottengono nel più breve tempo e col minor profitto possibile, gli studenti si abbandonano ad eccessi del tutto ignoti a quelli di cinquantanni fa, ma che dico, anche a giovani mediocremente educati.


Col reale decreto del 7 maggio 1838 era stata estesa alla Sicilia la legge del 12 dicembre 1816 sull’amministrazione civile nelle provincie napoletane, uguagliandosi l’amministrazione dei municipi di Palermo, Messina e Catania a quella stabilita per la città di Napoli, ma conservandosi al sindaco di Palermo il titolo di Pretore e di Patrizio a quelli di Messina e di Catania. Per effetto di quel decreto, il comune di Palermo fu amministrato da un Corpo di città, composto del Pretore e di sei Eletti col titolo di Senatori, corrispondenti alle sei sezioni, in cui era divisa la città, coadiuvati da un cancelliere, da un controllo (ragioniere), un tesoriere e un archivario. Eranvi inoltre un maestro di cerimonie con alcuni paggi, un capitano della minuscola guardia urbana ed altri impiegati subalterni, nonché una cappella senatoria. Questo Corpo di città ritenne il titolo di Senato, e il Consiglio, che poteva considerarsi come la [p. 398 modifica]diretta rappresentanza della città, fa composto di trenta cittadini e si chiamò, come nel continente, Decurionato. I comuni erano distinti in tre classi, secondo che avevano seimila o più abitanti, o erano sedi di Intendenza, Corte di appello o Corte criminale, o avevano una rendita ordinaria di ducati cinquemila. Con tali norme il comune di Palermo, che allora contava poco meno di 180 000 anime,1 venne classificato fra quelli di prima classe, pei quali il sindaco, gli eletti e i decurioni erano di nomina sovrana, su proposta del ministro dell’interno. E mentre poi i sindaci, gli eletti e i decurioni, che non adempivano al loro ufficio, potevano essere ammoniti dall’intendente e provvisoriamente sospesi, per quelli di Napoli, Palermo, Messina e Catania, la sospensione non poteva essere ordinata se non dal re, ed apparteneva anche al re la facoltà di destituirli, sempre su proposta del ministro dell’interno.

Ho innanzi ai miei occhi l’ultimo stato discusso del comune di Palermo per gli esercizi dal 1856 al 1860. È da avvertire innanzitutto, che, per le difficilissime condizioni in cui era ridotta la finanza comunale dopo la rivoluzione, con rescritto del 23 ottobre 1854 il vicepresidente della Corte dei conti dei dominii oltre il Faro, barone Pietro Scrofani, venne nominato regio delegato per la compilazione dello stato discusso pel quinquennio anzidetto. Il bilancio è suo, non del Decurionato, che l’accettò tal quale, e il pretore e i senatori l’eseguirono. A tutto il 1855, dunque, l’erario comunale di Palermo presentava l’enorme deficienza di ducati 260 000, pari a lire 1 105 000. I creditori erano molti e insistevano per essere soddisfatti. Il regio delegato riuscì a formare, dopo molto lavoro, un bilancio, con un’entrata ordinaria di ducati 219 404 (lire 932 467), e straordinaria di ducati 229 727 (lire 976 339): in totale ducati 449 131 (lire 1 908 806). La maggiore entrata era costituita dai dazi di consumo, dalle tasse e dalle privative, che rendevano complessivamente la somma di ducati 382 075, mentre ben poca cosa erano le entrate provenienti dalle multe per contravvenzioni di polizia o per la tassa per occupazioni di spazi ed aree pubbliche, conosciute sotto il nome di posti fissi e volanti.

Sembra incredibile, che fino all’anno 1856 non esistesse pel [p. 399 modifica]comune di Palermo un regolamento per la polizia urbana e rurale della città e del territorio. Invano Filangieri ne aveva fatte le più vive premure all’intendente della provincia ed al pretore. Nè è meno oredibile che fino al 1854 un privato, il barone Xasa, avesse riscosso la tassa dell’uno percento sul carbone, detta diritto del tumoliere, obbligando tutti coloro che recavansi in Palermo per ismaìtirvi del carbone, a servirai di un suo tomolo, e a corrispondegli l’uno per cento sulla derrata! Morto il barone, il comune aveva avocato a sè questo diritto, ma l’intendente con sua ordinanza del 27 maggio 1854 credette di sopprimerlo.


Si verificavano cose inverosimili. Fino al 1856 un altro privato, sotto il nome di “aggiustatore pubblico dei pesi e misure„ esercitava l’ufficio di verificatore e ne riscuoteva i diritti. Ed anche più notevole abuso era quello del Monte di pietà, che esigeva, per suo conto, la tassa de’ posti fissi e volanti, secondo le antiche concessioni, e ci volle un regio delegato per proporre che, a norma di legge, la tassa venisse avocata al comune. È anche da notare, che nè il comune, nè il regio delegato credettero di giovarsi mai della sovrimposta addizionale alla contribuzione fondiaria, la quale era consentita dalla legge nella misura di sole grana due per ogni ducato, e che avrebbe prodotta una discreta entrata. E la conseguenza era che, mentre sulla generalità dei cittadini pesavano i dazi sui consumi e le altre tasse, i proprietari fondiari non concorrevano quasi punto all’erario comunale. Per il personale del l’amministrazione si spendeva relativamente poco, pur essendo abbastanza numeroso. Vi erano quarantasette impiegati e dieciannove alunni nella cancelleria centrale; trentadue impiegati nelle cancellerie delle sei sezioni; nove commessi presso gli eletti dei comuni riuniti e dodici uscieri. Si spendevano ducati 12 938, più ducati 2067 per cancellerie. Queste cifre rivelano un grande disquilibrio tra il numero degl’impiegati e i loro assegni; alcuni avevano assegni affatto irrisorii. Con un rescritto del 20 aprile 1856 approvavasi il progetto compilato dallo Scrofani, e si disponeva che il Decurionato, nel termine improrogabile di tre mesi, proponesse un nuovo organico, limitando il numero degli impiegati al preciso bisogno, e regolando i loro stipendi nei termini della legge amministrativa, E non meno meritevole di [p. 400 modifica]considerazione è il fatto che l’intendente della provincia, don Francesco Benso, duca della Verdura, di fronte ad ordini sovrani così perentori, si limitasse filosoficamente a trascrivere al pretore il reate rescritto pel corrispondente adempimento, perchè nel più breve termine possibile ne facesse eseguire la stampa? Oltre agli stipendi per gl’impiegati degli uffici, bisogna notare quelli per altri agenti subalterni, come il massaro, i due orologiari, il notaio comunale e il ministro delle Quarantore retribuiti complessivamente con annue lire 867.

Al pretore era concessa l’indennità annua di ducati 1440, e l’indennità di ducati trecento, per la festa da celebrarsi il 14 luglio nel palazzo di città, in onore di Santa Rosalia, mentre ai sei senatori era data una indennità di ducati 2592, poco meno di due mila lire per uno, come a Napoli. Vi era inoltre l’assegnamento al pretore e senatori di annui ducati 790 per Le funzioni civili e religiose, alle quali avevano l’obbligo d’intervenire in forma puhblica. Queste funzioni non erano meno di trentotto all’anno e le indennità servivano specialmente per la manutenzione di carrozze e livree, per l’affitto dei cavalli, pei trombettieri e tamburi che precedevano il corteo, per le mercedi ai cocchieri e a ogni ogni altro servidorame, per la cera e per le altre spese. Così fra stipendi, indennità ed assegnamenti, si erogava la non lieve somma di lire 88 982,25 sopra un bilancio che non arrivava, come si è visto, tra ordinario e straordinario, a due milioni. Eccessive ed innumerevoli le spese pel culto. Il comune pagava il predicatore quaresimalista piuttosto largamente, il mantenimento della cappella senatoria, il santuario e la collegiata del monte Pellegrino, il capitolo e il clero della cattedrale, i parroci, cappellani ed altri ministri del culto, la cappella di Santa Rosalia alla cattedrale medesima, quella dell’Immacolata nella chiesa di San Francesco, il cereo a Maria Santissima di Trapani, il Te Deum del 12 gennaio nella cattedrale, l’altro Te Deum per la commemorazione dei terremoti del 1783 e del 1823, la festa di Santa Rosalia in luglio, l’assegnamento alla cattedrale e alla cappella di Sant’Antonio per santo Sepolcro, le prestazioni di cera in denaro, la celebrazione di varie feste religiose, alla cattedrale, a diverse chiese e conventi, ed a compagnie; e vana sovvenzioni ed esiti diversi ai conventi de’ padri cappuccini, dei frati di Sant’Antonino, di Santa Maria di Gesù, delle vergini [p. 401 modifica]cappuccinelle e alle due congregazioni sotto il titolo dell’esposizione e dell’elevazione del SS. Sacramento; e pagava infine una sovvenzione speciale ai padri cappuccini, l’illuminazione delle lampade innanzi all’immagine di Maria SS. ai Quattro Venti. È questa veramente la parte caratteristica di quel bilancio. La metà di tal somma era assorbita dal capitolo della cattedrale e dai parroci della città, i quali erano, e sono anche oggi, di nomina municipale. All’infuori di un capo maestro comunale, al quale si dava un salario di ducati 36, nulla spendeva il municipio per l’ufficio tecnico che, nonostante il pomposo titolo di Corpo degli Ingegneri, era costituito da un direttore e da quattro ingegneri di sezione, che avevano piccole indennità dirette, ma venivano pagati da un diritto del tre per cento da riscuoterai dagli appaltatori delle opere pubbliche comunali. Se nulla si spendeva per l’ufficio tecnico, pochissimo o quasi nulla per l’istruzione elementare. Non si avevano che sei scuole lancastriane di mutuo insegnamento; due scuole serali, una nel villaggio Altarello di Baida ed una scuola per le fanciulle a Bocca di Falco, sotto la vigilanza di un direttore speciale; in tutto, gli alunni non sommavano a ottocento. I maestri prendevano complessivamente lire 765, poco più di cento lire per uno all’anno, quelli delle scuole serali ducati trentasei e il direttore ducati centoventi. Lo Scrofani aveva timidamente proposto di istituire altre due scuole serali, ma Castelcicala trovò che nelle angustie del bilancio non era ammissibile l’aumento di altri ducati cento e otto all’anno, e rimandò l’attuazione della proposta a miglior tempo, pur dichiarandola utilissima.


Ma se egli fu così zelante per una spesa tanto lieve, non lo fu per la Milizia Urbana, chiamata comunemente dei soldati di marina. Si componeva questa, come abbiamo detto, di un capitano, un sergente, un caporale, diciannove soldati e tre trombettieri. L’ufficio del capitano era onorifico. Parrà strano, che per diciannove soldati vi fossero tre trombettieri, ma questi erano i superstiti della banda musicale del Senato, soppressa nel 1855. I tre trombettieri furono aggregati alla milizia urbana, perchè non mancasse l’uso delle trombe e dei tamburi nei solenni cortei. L’assistenza sanitaria era burlesca, Non vi era che un medico comunale, ma è da notare a titolo di lode, che i vaccinatori non [p. 402 modifica]potevano riscuotere il compenso, se non quando il senatore della sezione avesse personalmente verificato, in compagnia dei parroco, che tutti i nati nell’ambito della propria giurisdizione erano stati vaccinati.

Si era più generosi per le istituzioni, che miravano all’istruzione superiore ed ai progressi delle lettere, delle scienze e delle arti. Ed invero il Decurionato sussidiava la biblioteca pubblica comunale, l’istituto dei sordomuti, l’istituto d’incoraggiamento, l’accademia già del Buon Gusto e divenuta poi di scienze, lettere e belle arti, e l’Università degli studi, per la quarta parte della cattedra di architettura decorativa e dì disegno topografico. E se fra le istituzioni educative promotrici della cultura dell’arte musicale si può noverare il teatro, il comune forniva la dotazione di ducati diciottomila al teatro Carolino.

La città era illuminata ad olio e l’illuminazione costavi lire 127 600. Solo il Fôro borbonico era illuminato a gaz, ma i rari fanali non si accendevano che nei tre mesi estivi. Per lo spazzamento della città e l’annaffiamento delle strade interne e di una parte delle esterne, la cifra era irrisoria, sole lire 13 277; e però non è da meravigliare, se, nonostante la passione dei palermitani per la nettezza, la città fosse tra le più sporche, ma sempre meno di Napoli, e quasi non vi fosse strada, dai cui balconi e finestre non pendessero biancherie o cenci ad asciugare.

Il regio delegato aveva introdotto rispetto ai bilanci degli anni passati, una economia di ducati 46 585,66, ma quanti altri risparmi non sarebbe stato possibile ottenere! Egli ne fu impedito, sia da ostacoli incontrati da parte di altre amministrazioni nel fornirgli le debite spiegazioni, sia da inveterate tradizioni e pregiudizii popolari, che non credette opportuno di offendere. Egli avrebbe voluto far concorrere le opere di beneficenza della provincia al mantenimento degli stabilimenti pubblici della capitale; ma il Consiglio degli ospizi gli fece intendere di non potersi contare sui legati di messe, perchè destinati in suffragio delle anime purganti; non potersi far uso dei legati a favore di persone determinate, perchè di diritto privato, e non potersi fare assegnamento sulle opere di vera pubblica beneficenza, perchè ridotte in modo, da non potersene cavare il menomo costrutto. Aveva ritenuta maggiore del bisogno la somma di ducati trentamila per l’illuminazione notturna della città e [p. 403 modifica]dintorni; e rivoltosi al pretore pei debiti chiarimenti, ne ebbe tale risposta da convincerlo, che allora solamente poteva farsi un’economia in questa spesa, quando sarebbe riuscito a chi toccava di superare gli ostacoli.

I due ultimi pretori di questi anni furono il principe di Manganelli, don Antonio Alvaro Paternò, brav’uomo, ma una vera nullità amministrativa, e il principe dì Galati, Giuseppe de Spuches, uomo di larga cultura specialmente classica, che ebbe molte critiche per l’offerta fatta a Ferdinando II, della sella di Ruggiero normanno, offerta, dicevano alcuni, da lui subita. Il Galati, che fu nei nuovi tempi deputato di Caccamo, di cui portava pure il titolo, sposò in prime nozze la poetessa Giuseppina Turrisi Colonna, che gli morì dopo undici mesi. Era un uomo di studii, ellenista e poeta. Tradusse Euripide e scrisse poemi non senza pregi ed elegie greche e latine. Morì nel 1884, presidente dell’Accademia delle scienze e lettere: mite uomo, che nei giorni più agitati del 1860 si rifugiò a bordo di un bastimento nei porto di Palermo, e invitato da Garibaldi a rimanere a capo del nuovo municipio, non volle accettare, secondo afferma Vincenzo di Giovanni, il quale nei funerali celebrati nella chiesa dei Crociferi ne disse l’elogio. Con un bilancio quale abbiamo esaminato, e con sì rigorosa dipendenza da Napoli, il sindaco di Palermo era in verità il luogotenente, e neppure il principe di Galati potè fare tutto quel bene che forse voleva. Erano in verità cariche decorative per le grandi cerimonie civili e religiose, anzi più religiose che civili, e durante la luogotenenza del Castelcicala, il pretore di Palermo fu il marchese di Spaccaforno, direttore per l’interno; come, durante la luogotenenza di Filangieri, il pretore effettivo fu lui stesso, il principe di Satriano.

Nei nuovi tempi, invece, Palermo ebbe sindaci di prim’ordine. Ricorderò quelli morti, e che furono anche i maggiori, Mariano Stabile, il quale, reduce dall’esilio, si dedicò alla prima trasformazione della sua città natale; Salesio Balsano, Domenico Peranni, Emanuele Notarbartolo e Antonio di Rudinì, che sarà lungamente rammentato. Il sindacato del Peranni si ricorda per questo, ch’egli lasciò la cassa in buone condizioni e i servizii benissimo ordinati. Amicissimo del Minghetti, morì nel 1875, senatore del Regno. Durante il sindacato [p. 404 modifica]del Notarbartolo, nel quale ebbe parte, come assessore, Emanuele Paternò, giovanissimo e più tardi sindaco anche lui dì Palermo, fu cominciato il teatro Massimo e votate altre opere pubbliche; ebbe grande impulso l’insegnamento elementare e fu sottoposto a processo e condannato il vecchio tesoriere, sul quale le precedenti amministrazioni avevano chiuso gli occhi. Oggi Palermo, grazie al valore e alle cure di questi bravi uomini, una delle più belle e salubri città d’Italia; è una città che non ha perduto il suo aspetto caratteristico, ma il nuovo si è così armonicamente innestato sul vecchio, che non sembra quasi impossibile che prima del 1848 non vi fosse la via della Libertà, e la città finisse a porta Macqueda e al ferriato di Villafranca, non sembra possibile che non esistesse fino al 1870 lo splendido Politeama, e fino al 1892 non esistesse il nuovo magnifico quartiere, dove fu l’Esposizione, e la passeggiata non si estendesse oltre la Favorita, fino a Mondello e a Partanna da una parte, e ai Colli dall’altra, in quell’incantevole foresta di agrumi, che sino a pochi anni fa era una palude, prosciugata da un consorzio di cittadini, a capo dei quali fu un nomo illuminato e tenace, il senatore Francesco Lanza di Scalea. Quell’opera può dirsi oggi compiuta e la malaria, che infestava quelle contrade, è scomparsa. Da pochi e incerti fanali a gaz, che illuminavano nelle sere estive il Fôro Borbonico, alla presente illuminazione, per cui i Quattro Canti sono trasformati in un salone, e la villa Giulia in una féerie, che non ha l’eguale nel mondo, quanto cammino! Palermo, che aveva acqua bastante sol per disseta», ora n’è largamente fornita dalle sorgenti di Soffiato, e ne rad merito in gran parte al sindaco marchese Ugo delle Favare, che ne fece il contratto. E di tutto questo progresso, compiuto in poco più di sei lustri, si vedono i segni nel bilancio comunale, aumentato ben dieci volte da allora. Se nel quinquennio 1856-1860 non era che di lire 1 908 806, nel 1897 era già salito a lire 19 332 347.


L’Università di Catania, chiamata Siculorum Gymnasium, aveva fama superiore a quella di Messina, e forse pari a quella di Palermo. Anzi in un libro pubblicato nel 1862 da Giuseppe Carnazza Amari, allora studente di legge ed oggi senatore, la prima origine di quella Università rimonterebbe ai tempi di [p. 405 modifica]Caronta, fondatore di una accademia dette degli Omosipii e nato quattrocentoquarantaquattro anni avanti Cristo, e sempre secondo lo stesso Carnazza,2 anteriore a Pitagora. Questo libro diretto a provare il diritto di Catania ad avere una Università di prim’ordine, è ricco di notizie interessanti, ma non tutte dimostrabili, circa la vita intellettuale di Catania e la sua storia antica, nè la vita intellettuale soltanto, ma l’agricola, la manifatturiera e la commerciale, per cui, come dice il Carnazza: “la fama risuona chiarissima per tutto il mondo, perìocohè abbiamo ben ragione di esclamare con Antonio: Quis Catanam sillat? Quia quadruplices Syracusas„? Monografia interessante sì, ma esageratamente apologetica. I professori avevano preso parte alla rivoluzione del 1848, anzi l’insegnante di diritto romano, Francesco Marletta, era stato presidente del Comitato catanese e poi pari elettivo. Per ragioni politiche venne destituito nel 1852 Salvatore Marchese, giurista egregio, e uomo per carattere e per cultura veramente superiore. Non rientrò nell’Università che nel 1860, con decreto di Garibaldi; nel 1861 resse il dicastero della pubblica istruzione presso la luogotenenza di Palermo: fu deputato di Catania e morì senatore del Regno, ma non prese parte alle sedute del Senato, e credo non abbia nemmeno giurato. Nato in Misterbianco nel 1811, vi morì nel novembre del 1880. Sostituto del professore Scuderi, ancora giovanissimo, insegnò economia politica all’Università; e morto nel 1841 lo Scuderi, fu nominato per merito professore di diritto naturale. Nel 1848 fondò in Catania col detto Scuderi e Mario Rizzari il giornale l’Unità, donde la sua destituzione, restaurati i Borboni. Nei nuovi tempi fu rettore per oltre un decennio, dal 1869 al 1880, e molto concorse al progresso dell’Università, creando il consorzio del comune e della provincia per assicurarne le sorti. Furono destituiti anche il canonico Geremia e Giuseppe Catalano, ma vennero poi rimessi. Più devoto ai re fra i professori era l’abate Ferrara, il quale, dopo avere atteso al riordinamento della biblioteca di Casa reale, insegnò letteratura greca, prima a Palermo e poi a Catania, ma del suo borbonismo faceva mostra con prudenza, mentre il professor Ruscica, che dava lezione di diritto romano, era assolutista fanatico e imprudente, [p. 406 modifica]al punto da profferire dalla cattedra proposizioni come questa: I popoli si governano col cannone e la mitraglia. Era odiato dai giovani al punto che nel 1860 si nascose in cantina e vi stette tre anni, anche perchè era tenuto in conto di spia. Ma degl’insegnanti di allora la figura più caratteristica era quella di Vincenzo Tedeschi Paternò Castello, della famiglia dei Francica, il quale, divenuto cieco all’età di tredici anni, invece di imparare a suonare il violino come voleva il padre, con l’aiuto di un buon lettore, si approfondi nelle scienze morali e tenne la cattedra di logica e metafisica. Le truppe borboniche, entrando in Catania, fecero crudele scempio della famiglia di lui. Insegnava matematiche sublimi una sommità della scienza: Giuseppe Zurria, morto di recente a 86 anni, dopo quarantaquattro d’insegnamento: mirabile esempio di diligenza, di bontà e di modestia. Anche negli ultimi anni, nessuna rigidità di stagione gl’impedì mai di far lezione; e pochi mesi prima di morire, a Mario Mandalari, direttore della segreteria di quell’Università, che, in una fredda giornata di gennaio, lo pregava con affetto filiale di non esporsi alle inclemenze della stagione, rispondeva: “'U duviri, figghiu3 La morte dello Zuma, avvenuta nel settembre del 1896, fu pubblico lutto a Catania. Vasta, svariata, multiforme, sebbene non sempre profonda cultura aveva il professore don Agatino Longo, che insegnava fisica, ed era cattolico osservantissimo; scienziato dì fama mondiale era Carlo Gemellaro di Nicolosi, celebre per i suoi studi sull’Etna. Egli insegnava geologia e mineralogia, dirigeva il gabinetto di storia naturale e fu anche rettore, Insegnavano i due fratelli Fulci: Francesco, ritenuto il più reputato medico di Catania, e Innocenzio professore di letteratura italiana, ed erano abbastanza animosi nei loro insegnamenti, È giustizia ricordare Euplio Reina, buon chirurgo e ostetrico, e Salvatore Ursino, il quale insegnava codice civile confrontato ool diritto romano: giureconsulto e magistrato di grande rettitudine, sedendo trai gridici della Gran Corte Civile. Anche speciale menzione va fetta del professore Catalano, che amava molto i giovani, benchè d’indole malinconica e schiva si mostrasse freddo, al punto che gli scolari scrissero un giorno sui banchi:

Catalano è un letterato
Ma più freddo d’un gelato.

[p. 407 modifica]Egli fu padre di Tommaso, morto ambasciatore del regno d’Italia. Molto affiatamento esisteva fra i professori e gli studenti, che negli ultimi tre anni superarono la cifra di seicento. Oggi, hanno superato il migliaio; e mentre in quegli anni la facoltà di filosofia e lettere non ebbe alcun iscritto, oggi ne conta settantanove. Il maggior numero degli iscritti era allora nelle facoltà di giurisprudenza e di matematica, perchè in quelle facoltà erano i professori più valorosi. Nella facoltà di teologia ve ne furono due soli nel 1858, e cinque negli anni successivi!


La polizia teneva d’occhio la studentesca, trattandola con maggior severità, che non a Palermo e a Messina, e come in quelle Università, anche a Catania gli studenti non potevano presentarsi agli esami senza il certificato della comunione di Pasqua. Erano perciò condotti in settimana santa nella chiesa dei gesuiti per farvi gli esercizi; e se si manifestava qualche scatto di ribellione, la polizia ricorreva al carcere, allo sfratto e qualche volta al bastone. La parte disciplinare dell’Università, relativamente alla religione e alla politica, era affidata specialmente ad un ecclesiastico che fu sino al 1870 un prete Zappolà, morto a 92 anni, e che essendo uomo di buone viscere si trovava come fra l’incudine ed il martello; tra la polizia, l’intendente e la scolaresca quasi tutta liberale. E assai rigido era difetti l’intendente Panebianco, il quale non risparmiava nemmeno i proprii figli, da lui, un giorno puniti, sì disse, con l’arresto in casa. Si rileva dal bel libro di Emanuele de Marco,4 come l’autorità politica cercasse anche in questo l’aiuto del rettore, che doveva trasmettere alla polizia i nomi degli studenti, per il rilascio delle carte di soggiorno. Ed anche più in là si spinse il Panebianco con questa lettera, comicissima di certo, se giudicata coi criteri di oggi, e da lui diretta al rettore, in data 20 ottobre 1852, quattro giorni prima dell’arrivo del re: “Per ordine superiore essendosi considerato che le barbe non sono più di moda, e che il portarle fuori d’uso, richiama tristi rimembranze, è necessario che tutti coloro, i quali amino comparire di buona morale, levassero dai loro volti quel segno. Epperò io mi rivolgo a lei, affinchè sotto la sua responsabilità, [p. 408 modifica]nessun professore, studente o impiegato della R. Università indugi all’osservanza dell’ordine suaccennato„.


Messina riebbe da Ferdinando II, nel 1838, la sua Università, che le era stata tolta due secoli prima dal vicerè, conte di San Stefano. Tranne la facoltà di matematica, pur non interamente completa, le altre facoltà, come si è detto, mancavano di insegnamenti anche principali, e il numero degli studenti era molto esiguo. Ne fu rettore fino al 1854 Luigi Bruno, che insegnava logica e metafisica; e, morto lui, gli successe il parroco Gaetano Messina, il quale insegnava teologia dommatica ed era uomo di soda cultura. Nella faooltà di lettere ricordo Giovanni Saccano, studioso della Divina Commedia e latinista insigne. Insegnava eloquenza don Mauro Granata, cassinese, purista e autore di un dizionario dantesco. Morì nei primi mesi del 1860, non essendosi mai riavuto dallo spavento, che provò nel giugno del 1859, quando, leggendo nel duomo l’elogio funebre di Ferdinando II, vi scoppiò una bomba con grande fracasso. Insegnava letteratura italiana Felice Bisazza, e filosofia l’ontologo Catara-Lettieri. La cattedra d’incissione fa tenuta interrottamente da Tommaso Aloysio Iuvara, che creò allievi come il Di Bartolo, Micali e quel Saro Cucinotta, intimo amico di Vittorio Imbriani e mio, ucciso dai Versagliesi nel 1871, a Parigi, essendo stato guardia mobile per forza, durante la Comune. L’insegnamento della pittura e del disegno fu affidato sino al 1843 a Letterio Subba, artista d’ingegno vasto e multiforme. Ma avendo preso molta parte alla rivoluzione, fu destituito e gli successe Michele Panebianco, pittore e disegnatore distinto, il quale creò una scuola di valorosi alunni. Nel concorso fatto nel 1862 per il sipario del teatro di Santa Elisabetta, ora Vittorio Emanuele, vinse egli il premio col bozzetto, che si disse suggeritogli dal principe di Satriano, allusivo alle vicende del 1848: “Gerone, che concede la pace ai Cartaginesi, a patto di non sacrificar vittime umane.

Negli ultimi anni occupava la cattedra di estetica Riccardo Mitchell, poeta vigoroso, galantuomo a tutta prova, cognato a1 Bisazza, ma da lui, che era ultra-borbonioo, assai discordante; amico del principe di Galati, intimo di don Lionardo Vigo di Acireale e traduttore di Teocrito. La facoltà di medicina era, [p. 409 modifica]dopo quella di matematica, la meno incompleta; e tra gli insegnanti avevano maggior fama il Coco, naturalista ittiologo che insegnava materia medica; il Minà, professore di fisiologia; Pispisa, di patologia medica, e noto anche per i suoi spiriti liberali. Il padre del Pispisa, imprigionato per ragioni politiche, era morto in carcere. Ricordo inoltre il Catanoso, che insegnava istituzioni cerusiche ed era operatore arditissimo: a lui era successo il professore Garufi; e, più insigne di tutti, il Pugliatti, che insegnava clinica chirurgica. Figura simpatica, e alla quale gli studenti si mostravano molto affezionati, era quella del bidello don Spiro Cortimiglia, che li aiutava a tenera! in guardia dalla polizia. Gli spiriti liberali prevalevano fra gli studenti per vecchia tradizione. Gli studenti si erano particolarmente distinti anche nei moti del settembre 1847 e del 1848. Fra i più rumorosi e irrequieti agitatori era lo studente di terzo anno di medicina Francesco Todaro di Tripi, oggi senatore del Regno, e professore di anatomia all’Università di Roma. La polizia perciò non li lasciava tranquilli, ma non erano presecuzioni feroci: si limitavano ad arresti, che duravano poche ore, ma in compenso si verificavano di frequente, e l’Università non venne chiusa che una sol volta, dopo i moti dell’aprile 1860, come si dirà più innanzi.

I professori universitari avevano stipendio meschino, anche quelli tra loro che godevano maggior fama, ma in generale la meschinità dello stipendio corrispondeva al poco lavoro, perchè allora, anche più di oggi, l’insegnamento era limitato a sette mesi dell’anno, e le feste maggiori. Ricevevano inoltre frequenti propine, che gli scolari chiamavano rapine, e i professori erano quasi tutti professionisti esercenti; ovvero cumulavano altri uffici, perchè nel regno di Napoli, come nello Stato del Papa, i cumuli erano permessi fino allo scandalo.



Note

  1. V. Giornale di statistica — Tavola dei movimenti della popolazione siciliana nell’anno 1851-1852.
  2. Sul diritto che ha l’archiginnasio di Catania di essere riconosciuto di 1ª classe, dissertazione di G. Carnazza Amari, — Catania, 1862.
  3. Il dovere, figlio.
  4. La Sicilia nel decennio avanti la spedizione dei Mille. — Catania, tip. Sicula, Monaco e Mollica, 1898.