nove del dì seguente il re scese in Duomo, per ascoltare la messa celebrata dal vescovo; e i numerosi convenuti rimasero impressionati dal volto pallido di lui, dopo quel viaggio e quella notte così disagiata. Ma forse questa circostanza contribuì a creare la favola che monsignor Caputo avesse avvelenato Ferdinando II. Il vescovo di Ariano apparteneva all’ordine dei predicatori, ed era nato nel 1808 a Nardò; preconizzato, nel 1852, vescovo di Oppido in Calabria, fu traslato nel 1858 ad Ariano, si disse per ragione di costumi. Non era uomo da immaginar regicida, anzi, fino al 1860, nessuno seppe mai che avesse nutrito sentimenti liberali, e lo si aveva invece in conto di fanatico reazionario. Fu solo dopo il 1860, che venne fuori la fiaba dell’avvelenamento, avvalorata dalla circostanza, che il Caputo fu dal governo dittatoriale nominato cappellano maggiore, e dalla sua amicizia con quel padre Prota, domenicano anche lui, che svestì e rivestì la tonaca. Monsignor Caputo era un bell’uomo, cui aggiungeva dignità l’abito bianco, ornato della croce episcopale. L’avvelenamento per cibo o per bevanda era impossibile, perchè il re mangiò quello che mangiarono gli altri, e il pranzo non fu fornito dal vescovo, ma preparato dal Cammarano. Si disse che l’avvelenamento fosse stato compiuto per mezzo di un sigaro estero, regalato al re dal vescovo dopo il pranzo, mentre è noto che Ferdinando II fumava solo sigari napoletani, e per quanto il suo fervore religioso gli facesse baciare la mano ai vescovi, nessuno di questi, e meno di tutti il Caputo, era con lui in tale dimestichezza, da prendersi la libertà di offrirgli un sigaro. Però la tradizione è rimasta viva fra i vecchi legittimisti, ed a conservarla contribuirono l’inconcludente vanità, o meglio l’imbecillità del vescovo, il suo postumo liberalismo e l’affermazione di Mostaccione, che il vallo di Bovino biancheggiasse di una canna di neve, mentre non ve n’era punta. Si ritenne che il vescovo Caputo e Federico Lupi ubbidissero alla “setta„ che aveva giurata la morte di Ferdinando II. E vi concorse anche il bisogno di attribuire la morte del re, di soli quarantanove anni e di complessione atletica, a ragioni straordinarie: tanto parve strana nei suoi fenomeni la malattia, e più strana la circostanza, che nessuno degli altri viaggiatori, molti dei quali erano più anziani, soffrì nulla di grave, oltre l’incomodo del viaggio: nulla soffrì la regina e nulla i principi;