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eroi, nè filosofi greci; e il signor arciprete di Bercignasco non era un eroe nè un filosofo di quella nazione fortissima. Sopportò anche quella perdita, che aveva il guaio di venirgli così a contrattempo. Oramai si era assuefatto a quella donna di governo, che faceva tre passi sopra un mattone, che dieci volte al giorno gli esercitava la pazienza, meglio che non avrebbe fatto un sacco di nerbate, ma che dopo tutto possedeva la inestimabil virtù di tenergli casa pulita e lucente come uno specchio, e l’altra, non meno preziosa nelle grandi occasioni, di preparare un budino, variandolo sempre da una sostanza all’altra, dal dolce al brusco, di semolino, di riso, di patate, alla inglese, alla francese, destando ogni volta le maraviglie dei suoi religiosi commensali.
Triste cosa, la solitudine, a tutti e in ogni caso; ma più tristo nel caso di don Virginio Lorini. Non sentì egli a tutta prima quanto avesse perduto; ma non indugiò neanche molto ad esserne persuaso. Aveva preso un’altra donna di governo, sinodale e già pratica dell’ufficio, poichè era stata due anni col prevosto di Pannocchiara. Era una grande armeggiona; pareva il finimondo; metteva le mani da per tutto, e non concludeva mai nulla. In sala, nello studio del signor arciprete, niente si trovava al posto suo, e su tutti i mobili c’era sempre un dito di polvere. In cucina la confusione regnava sovrana; il fuoco si accendeva sempre troppo tardi; il desinare e la cena non erano mai all’ordine; l’arrosto sapeva troppo spesso di bruciato; la minestra non sapeva per contro di nulla.
— Santa Pazienza, voi me l’avete mandata in pena dei miei peccati, non è vero? Santa Pace benedetta, non ne posso più, non ne posso più! — esclamava il povero don Virginio, mandando interamente a quel paese la sua nuova padrona.
Quando proprio non ne potè più, prese il cappello a tre punte, e il suo ombrellone di seta verde dalle lunghe stecche di balena, annunziando che andava a Mercurano e non sarebbe ritornato fino al giorno seguente. Calato a Mercurano, an-