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dò a piangere la sua sventura in seno al suo collega di San Zenone, ma più assai in quello del suo nipote Virginio.

Quanto tempo era che non lo vedeva più, il suo caro nipote! Alla sfuggita, sì, una volta all’anno, in occasione delle feste solenni di Mercurano, quando il signor arciprete di Bercignasco calava laggiù come tanti altri colleghi dei paesi circonvicini, per dare una mano all’arciprete di San Zenone, che nell’alta sua dignità di vicario foraneo era un po’ il superiore di tutti. Ma se don Virginio Lorini calava a Mercurano e si faceva veder sulla piazza, non era altrimenti necessario che entrasse al Bottegone. Qualche volta, vedendo il nipote e il signor Demetrio sull’uscio, si fermava a chiacchierare per qualche minuto; qualche volta si combinavano per via; qualche altra, non vedendosi, non si cercavano neanche. Erano come due amici d’antica data, che, senza perdersi addirittura di vista l’un l’altro, hanno mutato di consuetudini; si salutano, quando si vedono da lontano, e magari si sorrìdono a vicenda, ma non sentono il bisogno di parlarsi; e quando pure il caso li ravvicina, non hanno niente da dirsi. Sono allora vani discorsi, superficiali notizie, della salute, dell’annata, dei gran freddi che han fatto oltre il termine, dei bachi che non hanno potuto lavorare a tempo, del fieno di primo taglio ch’è andato a male, e simili altre scioccherie, nelle quali non mette importanza chi le dice, nè attenzione chi le sta ad ascoltare.

I discorsi di don Virginio zio e di Virginio nipote erano anche più vani. — E così? — Bene grazie al cielo, e voi? — Mai di peggio; abbiamo sbarcato quest’altro. — Così sbarcheremo gli altri che verranno. E buon giorno signoria. —

Virginio nipote era sempre in queste conversazioni il più premuroso, il più gentile dei due; un po’ per indole, molto per riflessione, avendo anche più merito a mostrarsi cortese. Non gli era mai avvenuto di fare un atto men che rispettoso ed amorevole allo zio, neanche nei primi anni della sua cacciata dalla canonica, quando