La figlia del re (Barrili)/IX
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IX.
Come Dio volle, anche quella noia ebbe fine, e Virginio si liberò dall’obbligo di giustificare con sciocchi discorsi la sua mancanza d’appetito. Per contro, due ore dopo ritornava al Bottegone il signor Demetrio, poco saldo sulle gambe, ma coi luccioloni che gli scendevano dagli occhi a rigare le guance; ed egli, il povero Virginio, fu costretto alla nuova e non meno molesta impresa di consolare quell’altro.
— Ah, povero me! povero me! — mugghiava il signor Demetrio, lasciandosi andare per morto sul canapè del salottino. — Non credevo di amarla tanto, quella cara figliuola; com’è vero Dio, non lo credevo. Hanno avuto un bel consolarmi colle loro ciance signorili; hanno avuto un bel confortarmi col loro «kummel» e col loro maraschino di Zara; niente è valso; niente ha potuto levarmi guesta spina dal cuore. Quando l'ho vista montare in carrozza, le gambe, caro mio, si son messe a far giacomo giacomo: e mi han dovuto reggere in due, il signor Momino e il marchese Paganuzzi. Così, vedi, neanche alla stazione, per abbracciarla un’ultima volta. Per fortuna ha fatte le mie parti la sua cara madrina. L’ha accompagnata lei al convoglio, insieme coll’avvocato. Ah, la mia cara figliuola! Come potrò mai consolarmi? —
E non sapeva star solo il desolatissimo uomo; e voleva Virginio ad ogni ora, ad ogni momento vicino; e quando lo aveva vicino voleva che gli parlasse, che gli parlasse sempre, di tutto quel che credeva meglio, purchè parlasse, purchè non lo lasciasse solo coi suoi brutti pensieri. Quel giorno, pur troppo, non poteva andare cogli amici, per la solita partita a tarocchi: le gambe non lo assistevano, e d’altra parte non sarebbe stato decente che un babbo cercasse nei tarocchi un conforto alla partenza della sua cara figliuola. Il signor Demetrio, del resto, s’era lasciato andare per morto sul canapè: dopo molti pianti, esclamazioni, interiezioni e brandelli di frasi compassionevoli, si assopì come al solito; e quella dormita, un po’ più lunga del solito, valse a ripristinargli le forze, snebbiandogli in pari tempo il cervello.
Risvegliatosi, sentiva il bisogno di prender aria; e Virginio, che per tutto quel tempo aveva lavorato, o finto di lavorare, dovette condurlo a passeggio. Il Bottegone andasse come voleva, o come poteva, senza il vigile occhio del suo segretario; il signor Demetrio non amava andar solo, nè con altri che fosse il suo confidente, il suo braccio destro. Presero una viottola e andarono a vagare pe’ campi, come due disperati; ma senza guardarsi dattorno, respirando senza gioia la buona aria dei prati, ricevendo negli occhi senza gratitudine il sempre nuovo e sempre maraviglioso spettacolo della verde campagna.
La cosa s’intendeva per Virginio, nello stato d’animo in cui era. Quanto al signor Demetrio, egli non era uomo che l’aspetto della natura potesse mai rallegrare. Ci sono dei cervelli che non hanno il senso del colore, ed altri che non hanno quello del disegno, come altri a cui manca la virtù di distinguer gli odori, o quella di gustare i suoni, o quella di comparare, di astrarre, di filosofare, e simili. E più numerosi, in un mondo che è pur così bello (tranne sempre la umanità, ci s’intende) son quelli che non amano il verde dei campi e l’azzurro dei cieli, che non gustano e non capiscono le bellezze della natura. Il signor Demetrio era proprio di questi; andava sempre terra terra, intento alla piccola cerchia del suo vivere, non guardando mai più in là, nè più in su. Così un buon coleottero, avvezzo a misurare, fiutandola, l’umile superficie del prato che lo ha visto nascere, si contenta di rompere le costumanze con un piccolo volo, cavando le alucce sottili di sotto il geloso coperchio delle tarde sue èlitre; poi, fatto quel grosso miracolo, ritorna felicissimo a terra, portando più volentieri sulle gambe lunghe e sottili la sua pigra scatola di color tabacco, ragionando a colpi d’antenna con tutti i fili d’erba che incontra per via, incespicando su tutti gli stecchi, che gli paiono travi, cascando qualche volta, ma se Dio vuole, da mezzo centimetro d’altezza, senza pericolo di farsi male. Ha dolori profondi, il buon coleottero? E quando li ha, come si regola? Bisognerebbe saperlo; i naturalisti non ce l’hanno ancor detto; attendiamo i responsi.
Quella sera il signor Demetrio andò a letto più presto del solito. Virginio ebbe tregua, finalmente, e si ritirò nel silenzio della sua camera, dove prese a ripassare per la millesima volta i quinterni della bambina cara, della scolarina bella, esercizi di calligrafia, di aritmetica, frammezzati da fiori strani, da uccellini non mai più visti, omettini e donnette da far morir dalle risa. Ma non rideva più allora, il povero Virginio, il primo maestro di Fulvia Bertòla. Gli veniva per l'appunto alle mani la bella copia di una piccola composizione; bella copia nella intenzione dell’autrice, ma poi ridotta a male, sgualcita, stracciata nel mezzo per tutta la sua lunghezza, e da lui pazientemente aggiustata, ricongiunta con liste gommate, tratte dai margini dei francobolli. «La figlia del Re» era il titolo della piccola composizione di Fulvia all’età di sett’anni: e doveva essere una novellina patetica, perchè quante volte Virginio la rileggeva, sempre gli s’inumidivano gli occhi.
E stette un pezzo anche allora a guardarla, a rileggerla, a guardarla da capo; e fu un gran piangere il suo, un pianger lungo e silenzioso, come una pioggia di marzo. Piangeva troppo, direte, e il piangere è da spiriti deboli. Sì, ma ancora da spiriti buoni; specie di coloro che sanno piangere per sè, colla sicura coscienza di non aver mai fatto piangere nessuno.
Lasciamolo piangere, ed anche rimanere assopito a tavolino, dove il poveraccio aveva a ritrovarsi la mattina seguente, senza aver toccato il letto. Quella mattina un telegramma giungeva al Bottegone. Era diretto a «Monsieur Domitio Bestola» e quelli della strada ferrata, intendendo per discrezione, lo avevano mandato al signor Demetrio Bertòla.
— Sempre lo stesso, il telegrafo! — disse il signor Demetrio. — Non c’è caso che ne azzecchi una. Ringraziamolo ancora che non mi abbia detto Bestiola. —
Il telegramma veniva da Modane, la stazione internazionale sulla via del Cenisio, tra Torino e Parigi. Era breve, in lingua francese, e recava notizie degli sposi.
“Santé excellerte voyage heureux. Embrassons cher papa.
“Fulitilì”
— Fulitilì! Questa è nuova di zecca; — esclamò il signor Demetrio. — Ma già, capisco. Mi han chiamato Domitio e Bestola, ed anche lei, di Fulvietta che aveva voluto essere, è diventata un’altra cosa. Fulitilì! Fulitilì! son sicuro che se lo dico al gatto, mi scappa via come il vento. —
Il giorno appresso venne un secondo telegramma; e portava in calce lo stesso rompicapo: «Fulitilì» Strana cosa! Che si facesse sbaglio una volta, si poteva intender benissimo; ma che lo sbaglio diventasse la regola fissa, non si poteva più intendere. E come andava che a Parigi il telegrafo imitasse Modane? Perchè non imitarla del tutto, nell’indirizzo come nella firma? A Parigi infatti, trasmettevano l’indirizzo così: «Monsieur Dematro Berthole».
Il rompicapo telegrafico valse almeno a dare un po’ di svago al signor Demetrio, un sollievo alle sue pene, un nuovo argomento alle sue chiacchiere. «Fulitilì!» andava mormorando per casa: «Fulitilì» andava ripetendo per tutte le stanze del Bottegone. Ed anche aveva portato il suo «Fulitilì» al castello dei signori Sferralancia, mettendone i nobili abitatori a parte del suo filologico almanacchìo. Donna Fulvia ci pensò un quarto d’ora; poi rinunziò ad una investigazione che le affaticava il cervello. Il signor Momino ci studiò mezza giornata, e finì col dichiarar che la lezione era oscurissima, certamente guasta ed impossibile a decifrare.
Quell’innocente esercizio permise al signor Demetrio di aspettare il quarto giorno; in capo al quale gli giunse una lettera da Parigi.
— Ah, sia lodato, il cielo! — gridò egli, dopo avere inforcato gli occhiali e riconosciuti i caratteri di Fulvia. — Qui non son più telegrafisti, da farvi perdere il cervello e la pazienza. —
La scrittura non era lunga, ma riempiva tutte le quattro facce del foglio; vera scrittura epistolare, di caratteri lunghi e coricati, tra lo stile francese e l’inglese, che paiono fatti a posta per occupar molto spazio con pochissimi segni. Fulvia metteva giù le lettere intiere; ben collegate, un pochino abbattute, ma senza timidità, senza umiltà, come per capriccio loro, o per vezzo dell’autrice. E filettava bene; Dio, come filettava bene! artisticamente, ma senza eccesso; graziosamente, ma con una certa rigidità contegnosa; a dir tutto con una sola parola, aristocraticamente. E il signor Demetrio ammirava con un occhio quella gloria di caratteri, mentre coll’altro badava alla sostanza dello scritto. Ad un certo punto tralasciò di ammirare, ma non di leggere; anzi, concentrate nella lettura le sue potenze visive, incalzò più strettamente il testo, e come fu giunto alla fine d’un certo paragrafo diede in un grido di giubilo, in un altro, in un altro ancora, tanto da parere un concerto di campane alla volata solenne del Sabato santo.
— Finalmente! oh, bene! ci siamo! benissimo! questa è nuova di zecca! Cari ragazzi! Come si voglion bene! Vieni qua, Virginio; leggi anche tu. Aveva dunque ragione il telegrafo di Modane a mandarci scritto «Fulitilì!» ed anche quello di Parigi, a copiare il suo fratello di Modane! La libertà non l’hanno usata ad altro che a storpiare il mio nome e cognome. —
Virginio aveva voglia di leggere, com’io e voi di farci frati. Ma a lui bisognava non parere: accettò dunque dalle mani del signor Demetrio un foglio di carta che gli scottava le dita, e lesse la lettera di Fulvia, della signora Fulvia, di donna Fulvia, della contessa Spilamberti, e di San Cesario per giunta.
La graziosa signora incominciava lo scritto dando notizie sommarie del viaggio e dell’arrivo a Parigi; viaggio bellissimo, con un tempo splendido; arrivo fantastico, tra le nebbie leggere che si levavano dalla Senna, involgendo la grande città, come un velo di mussolina bianca, trapunta di stelle d’oro. Le stelle d’oro, si capisce, erano i lumi, che in quell’ora vespertina dell’arrivo si andavano accendendo lungo le strade e le piazze della immensa capitale francese. Erano smontati all’albergo di Baden, «boulevard des Italiens»; da buoni italiani, adunque, e col vantaggio di aver sotto la mano tutti i luoghi più notevoli e più importanti così alle loro faccende quotidiane, come alla loro curiosità di viaggiatori. La sera stessa dell’arrivo avevano fatta una bella passeggiata al gran quadrivio dell'Opéra, donde erano scesi al Palazzo Reale e a quelle sue stupende gallerie tutte scintillanti di vetrine di gioiellieri; un prodigio, un incanto, una scena delle «Mille e una notte». Della mattina seguente sarebbe stato lungo il raccontare: tante cose avevano vedute, facendo una rapida corsa in vettura scoperta!
«Ah babbo, che grande città, che cara città in pari tempo, è questa Parigi! Se si potesse viverci sempre! Capisco che ci si vivrebbe troppo in fretta, e si giungerebbe all’ultim’ora della nostra giornata, credendo di non essere giunti ancora alla metà. Lasciamo dunque i pazzi desiderii da banda; «soyons pratiques». Tili, che è pratico di Parigi come di Bologna e di Modena, è il mio maestro e il mio duce. Non ti puoi immaginare che buona guida egli sia, per veder tutto il meglio, nel più breve spazio di tempo.
«Ma tu mi vorrai fermar qui, per domandare che cosa sia questa novità. Chi è Tili? avrai già esclamato. Tili, per tua norma, è Attilio; e se Attilio non ti basta, mettici pure la fila dei due cognomi per il buon peso: che sono poi amiche quelli della tua Fulvia. Ma sappi ora come tutto questo raccorciamento si è fatto. Attilio mi diceva, rimettendoci noi in viaggio da Torino a Modane: «Dobbiamo far uso del tempo, tralasciando tutto l'inutile. Fulvia sei tu, Attilio son io. Ma perchè pronunziare i nostri nomi con tutte le lettere di cui sono composti? È un perditempo: senza contare che tu chiamando me ed io chiamando te proferiamo dei nomi portati anche da altri. A me, vedi, piacerebbe di chiamarti «Fuli»; che cosa ne dici?» Ed io risposi: «Quello che piace a te piace a me: chiamami «Fuli», ed io ti chiamerò «Tili»; va bene così?»
«Abbiamo riso da Susa a Modane della nostra bella trovata. E subito, giunti alla stazione di Modane, te ne abbiamo fatto parte a te, col nostro telegramma, firmato da noi due con una sola parola: «Fulitili». Che dirà il babbo, leggendo questo indovinello? E ridevamo, pensandoci, ridevamo come matti. «As-tu été bien intrigué, cher papa?» Perdonaci questa piccola burla, una vera «espièglerie» da scolaretti in vacanza. Eravamo tanto felici! Ma un’altra volta non lo faremo più, te lo prometto. Tanto più che non avremo nessuna ragione di far cambiamenti.»
Con altre poche frasi aveva fine la lettera di Fuli. E di Virginio, e per Virginio, non una parola, neanche in poscritto. Ma meglio così; tanto più che lì accanto a Fuli scriveva anche Tili; poche linee, per mandare un «grazie della mia felicità» al signor Demetrio, oramai suo babbo, e non ancora suo suocero. Quando son freschi di nomina, i suoceri, si sa, sono ancor babbi; ma di solito non durano molto così.
Era felice, il signor Demetrio, leggendo e rileggendo la prima lettera di quei cari ragazzi. Ah che bella burla, veramente nuova di zecca!
— «Fuli Tili!» — andava ripetendo e canticchiando, oramai con tanto di pausa tra le due coppie di sillabe. — Guardate che ingegno hanno avuto! Io non ci sarei arrivato, no, davvero, neanche ai miei bei tempi, quando facevo con Giuditta il mio viaggio di nozze, spingendomi da Mercurano fino a Parma.... non senza una corsa audace a Sant’Ilario. E sarebbe stato bello, perbacco, chiamarci Ditti e Demi.... no piuttosto Demi e Giudi.... Ma che? vediamo se non si poteva trovare di meglio. Memi e Diti.... Ditta e Metrio.... Sì, sì, ho un bel rigirarli, ma è sempre tutt’altra cosa. Non ti pare, Virginio? Forse i nostri due nomi non si sarebbero prestati. —
Virginio rispose con un gesto che voleva dire «et cum spiritu tuo,» ed anche, ad interpretarlo meglio «nunc dimittis servum tuum Domine.»
Le lettere di Parigi capitavano regolarmente ogni due giorni; tutte piene di belle notizie, di maraviglie parigine e di allegre scorribande nei dintorni. Anche Fuli e Tili avevano avuto il loro Sant’Ilario; anzi più d’uno; ma si chiamavano Saint-Germain-en-Laye, Saint-Cloud, ed altrettali. Dopo un mese di quella vita, si trattò di ritornare in patria; ma non a Mercurano, sotto il manto paterno di san Zenone. Andavano a Modena, dove c’erano parenti da salutare; poi a Bologna, dove era il quartiere d’inverno da mettere in ordine; poi per qualche giorno a Roma e Napoli, ma sempre dopo avere abbracciato il babbo carissimo. Il qual babbo, per altro, ad evitar loro una voltata fuori di strada, doveva andar lui a trovarli a Bologna. Quanto a Mercurano, ci sarebbero venuti più tardi, dopo essersi un po’ riposati di tanti viaggi lunghi e brevi.
Al giorno assegnato, il signor Demetrio si mise in moto per Bologna. Stette una settimana laggiù; ritornò solo soletto a Mercurano, come aveva annunziato partendo.
— Come? — gridavano amici e conoscenti, cioè a dire tutti gli avventori del Bottegone. — Non si lasceranno vedere a Mercurano?
— No, cari, per ora non possono; — rispondeva il signor Demetrio. — Hanno tante cose da fare! C’è ancor da visitare Roma e Napoli, dove il mio signor genero ha parenti ed amici: poi ritorneranno a Bologna per finire di metter su casa.... se pure non si risolveranno di levarla. Sicuro, anche questo è possibile; potrebbe darsi che si decidessero per Roma. Bisognerà appunto vedere se la mia cara figliuola ci si troverà bene per l’aria.
— Già, Roma è sempre Roma; — si replicava.
— E Roma guadagnerà la causa.
— Ma, lo prevedevo ancor io. E mi rincresce un poco, — mormorava il signor Demetrio. — Saranno ott’ore di più in istrada ferrata per andarla a vedere.
Questi erano i discorsi del signor Demetrio alle genti, quando pontificava, quando era costretto a ministrare un po’ delle sue ineffabili contentezze paterne ai curiosi avventori del Bottegone, e senza avvedersene usava anch’egli la maschera. Ma su al primo piano, nella intimità della casa, il signor Demetrio era assai meno loquace, e le rotte frasi che gli uscivano di bocca sapevano piuttosto d’amaro.
— Niente visita a Mercurano.... — borbottava allora. — Neanche per una mezza giornata! Verranno, sì, verranno quando potranno. E Dio sa quando potranno! Il signor conte.... il signor conte.... — (e qui, per proferire quel titolo, il signor Demetrio enfiava comicamente le gote) — il signor conte, con guella sua aria d’Artabano, vi fa balenare i suoi «non possumus» come i suggelli d’un segreto di stato. E lei, anche lei, non par più quella di prima. Già si capisce, invaghita del suo maritino.... Se quello dice che è notte, è notte anche per lei, sia pure mezzogiorno. —
Viiginio non metteva parola in quei soliloquii del principale; non cercava di andare al fondo, per indagarne il pensiero. Non ne aveva bisogno, del resto, perchè quel pensiero veniva a galla da sè, e quel tanto che ne appariva fuor d’acqua rispondeva ad un sospetto che già gli era balenato alla mente.
Gli sposi non si degnavano di mostrarsi a Mercurano. Che cosa ci sarebbero venuti a fare, del resto? Un giorno o l'altro, sicuramente; ma quel giorno era lontano, ancora «in mente Dei!» e quel giorno, se doveva arrivare, ci sarebbero venuti come la biscia all’incanto. Ma infine, perchè non intender le cose? Lui conte e lei contessa; non si poteva più astrarre da questa condizione sociale. E là, a Mercurano, c’era il Bottegone, il povero e vile Bottegone, colle pannine, la drogheria, l’appalto e la pizzicheria; che orrore! Ma poi, che pizzicheria! tutta quella volgarità di commercio minuto era fatta per dispiacere maledettamente ai signori Spilamberti di San Cesario, che pure a quel commercio minuto avevano fatto una prima cavata di duecentomila lire. E più ne poteva dare, almeno due volte tanto, quel povero e vile Bottegone. «Ah, ingrati!» avrebbe potuto esclamare, se avesse avuto anima e voce.
Per intanto, era ingrato Virginio a quei due. Il signor Demetrio, disfacendo la sua valigetta, aveva gittate sulla tavola un involtino di carta.
— Prendi; questo è per te; — gli diceva. — Ti pregano di gradirlo per amor loro. In questo, almeno, si son mostrati gentili. —
Virginio non ardiva toccare, e guardava trasognato il signor Demetrio.
— Ricordo del viaggio di nozze; non lo capisci? — soggiunse quell’altro. — Ne hanno portato parecchi, che verranno in un solo involto a Mercurano, per tutti i nostri commessi. Non ho voluto impacciarmi di tante scatole e scatolette, io; non ho portato che il mio ed il tuo, che per esser gioielli non mi facevano ingoimbro. —
Virginio non poteva decentemente lasciar lì sulla tavola il piccolo involtino di carta. Lo prese allora, ne sciolse il legaccio, e ne trasse fuori una scatolina, entro la quale era un astuccio di velluto, con tanto di corona comitale impressa, e sotto due lettere intrecciate, un A ed un F. Non si poteva negare che i conti Spilamberti di San Cesario sapessero fare le cose a modino, dando alle più piccole un pregio di grazia artistica e di delicata attenzione. Virginio aperse anche l’astuccio e allora gli si offerse alla vista una spilla di cravatta, bellissima, formata d’una perla tenuta lì sequestrata da un artiglio d’oro, ornato fino alle unghie da scaglie di rubini.
— Grazioso, non è vero? — borbottò il signor Demetrio, che s’era accostato a guardare, ma che già aveva veduto il gioiello a Bologna.
— Sì, molto; — rispose Virginio.
Ah, quella perla e quell’artiglio! era da credere che non lo avessero fatto a posta; ma quel ricordo del viaggio di nozze era significativo come le armi parlanti. Restava dubbio se la perla fosse Fulvia; nel qual caso l'artiglio sarebbe stato quel conte venuto a Mercurano per ghermirsela e portarsela via: oppure se fosse il cuore di Virginio; nel qual caso l’artiglio era la mano di lei, che non lo aveva solamente ghermito, ma era lì lì per ispezzarlo. Ma sì, pensandoci bene, era la mano di lei, ricca mano e crudele, come anche indicava il colore del sangue nelle piccole scaglie gemmate.
Virginio portò quel ricordo in camera sua, divotamente in atto, e costringendo i muscoli della faccia ad una espressione di contentezza. Quando fu là, aperse un certo cassetto, ne trasse un foglio sgualcito e rappezzato dov’era scritto il racconto: «La figlia del Re» e vi piantò la spilla attraverso. L’astuccio, povero astuccio di velluto con la corona comitale e le due iniziali intrecciate, andò a finire in un angolo del cassetto.
— Una spilla! — mormorava Virginio. — È giusto; una cosa che punge. Ma in verità non ce n’era bisogno. —
I giorni succedevano ai giorni, rassomigliandosi tutti, nella triste uniformità delle consuetudini. Il signor Demetrio aveva ripreso il costume della partita a tarocchi; ma con una certa svogliatezza, non trovandoci più il gusto di prima. Ed era naturale! i suoi compagni di tavolino lo seccavano sempre, entrandogli a parlare degli sposi.
— Com’è che non si vedono ancora? Da Napoli son ritornati; perchè stanno tanto a Roma? Vogliono fermarcisi? Ragione di più per non vedere tutto in una volta, e per fare una scappata a Mercurano. Che cos’hanno con Mercurano, che non lo degnano d’una visita? Presto avremo i primi freddi, e non sarà più il caso di venirci a battere i denti —
Tutti questi discorsetti, variati di poco da un giorno all’altro, erano altrettante stilettate per il signor Demetrio, che non poteva rispondere a tono, e che doveva sorridere, mendicando scuse e pretesti.
Se almeno gli fosse riuscito dì ricattarsene con Virginio! Ma quell’altro non parlava mai di nulla che lontanamente accennasse agli sposi lontani; e quando vi accennava il suo principale, destramente egli sviava il discorso, con qualche noioso e lungo ritorno sul capitolo degli affari. Il Bottegone, naturalmente, doveva essere in prima riga, aver esso tutte le cure di un accorto ministro, di un perfetto segretario.
Fulvia scriveva spesso al suo babbo, almeno due volte ogni settimana. Gli sposi erano andati a Napoli in una corsa difilata, restandoci una ventina di giorni; tante erano le cose da vedere laggiù. Poi erano venuti a Roma, dove non ci era da veder meno. Roma piaceva a Tili; piaceva molto anche a Fuli. Capivano ambedue come un grande Italiano avesse potuto chiamarla «la città dell'anima»; per conto loro temevano, quando fossero per abbandonarla, di lasciarci il cuore. Roma eccelsa, monumentale, eterna, luminosa e divina! Quello era il luogo per viverci; ne avevano ragionato a lungo, notando, vagliando il pro ed il contro; si erano finalmente decisi; volevano stabilirsi a Roma, dove anche il principe Andolfi li esortava a restare, per tutte le grandi cose che Tili ci avrebbe potuto fare, dedicandosi alle vaste imprese bancarie, edilizie insieme ed artistiche, degne di un gran signore che non volesse poltrire nell’ozio, nè dormire sui vecchi allori di casa.
A Roma, dunque; avrebbero piantate le tende colà. Quanto al loro quartiere di Bologna, si poteva lasciare, cedendone la locazione. Se volevano accostarsi al vecchio nido degli Spilamberti, avevano sempre il palazzo di Modena. Ed anche quello, che necessità di tenerlo disabitato? Se si fosse offerta una buona occasione, non si poteva appigionarlo? e magari disfarsene, avendone un prezzo conveniente?
Il proposito era consigliato da uno spirito d’economia bene intesa. L’economia è la regola, è la norma, è la chiave di tutto. Senza economia non è sicurezza di vita pubblica, nè di vita privata. Queste cose qualche volta le pensano anche i ricchi. E dovevano pensarci i signori Spilamberti, che non erano poi milionarii; dovevano pensarci in tempo, se volevano fare una buona figura nel mondo. Il quartierino a Roma lo avevano trovato, e tanto carino, un vero gioiello, al Macao, che è il piccolo paradiso della nuova Roma. Ci voleva un «coupè», non potendosi intendere la vita in paradiso senza la comodità d’una quotidiana discesa all’inferno. Per fortuna, il «coupè» non era una spesa da metter paura; in Roma, sapendosi contentare, non pretendendo di aver cavalli di sangue, se ne usciva con poco. Ma anche quel poco domandava l’economia del palazzo di Modena, specie in attesa dei guadagni sulla «Nuova Esperia», che non potevano mancare. Il principe Andolfi e il banchiere Spitzbolzen stavano mallevadori di tutto.
E di venire a Mercurano, per consolar d’una visita quel povero babbo, non una parola mai! Del resto, non si poteva più pensare a viaggi, se era per avverarsi una certa notizia, ancora incerta ma degna di conferma assai più di tante e tante che corrono il mondo ogni giorno. Fuli incominciava a darne un minimo cenno, promettendo di ritornarci su; e questo faceva per l’appunto una settimana dopo, innalzando i suoi dubbi al grado di una fondata speranza. Ancora una dozzina di giorni e la speranza volgeva a certezza, la certezza ad una effusione di amore e di orgoglio, ad un principio d’inno per colui o per colei che doveva venire. Fuli era tutta trepidante di gioiosa ansietà; Tili, più calmo nella sua virile allegrezza, non s’innalzava alla poesia dell’inno, ma raddoppiava di energia nella prova degli affari, che dovevano assicurare un largo stato a colui che doveva venire. Così i due salmi finivano in gloria ugualmente: solo la madre futura, preparata ad amare e non a preferire, diceva colui o colei, senza far distinzione.
Che bella cosa, la creatura aspettata! Come lusinga in anticipazione l’orecchio la musica ancora ignota del suo primo vagito! E quanti bei sogni, quante dolci fantasticherie, quanti disegni maravigliosi, quante ricche tele di fili d’oro, d’argento e di seta s’intessono col pensiero, per rendergli facile, felice, gloriosa la vita! Fuli ne ragionava al suo babbo in pagine più frequenti, più numerose e spesse che non avesse fatto mai prima d’allora. Anch’egli, il futuro nonno, avrebbe amato il sangue suo: anch’egli, per l’occasione del sospirato natale, sarebbe andato a Roma.
— Oh questo, poi!... — borbottava il signor Demetrio, gittando la lettera, per ripigliarla un minuto dopo. — No davvero, non mi ci pigliano, neanche coll’esca del nipotino. Ma che! Dovrò sempre scomodarmi io? Per chi m’han preso? Da Mercurano a Roma c’è un bel tratto, più ancora che da Roma a Mercurano, che a loro par così grave. Che cosa ne dici tu, Virginio? Io andare a Roma? dopo quel bell’esempio che mi han dato loro!...
— Signor Demetrio, non vi regolate sugli altri; non è buon metodo; — rispondeva Virginio. — Fate quello che dovete far voi. E se, come mi par naturale, sarete voi il padrino...
— Sicuro che sarò io; ma che importa? c’è egli bisogno d’andare a Roma, per questo? Ricordo che quando è nata lei, si è voluta una madrina per la quale; e la madrina ha accettato, e s’è fatta rappresentare, tenendo la sua figlioccia a battesimo.... per procura.
— L’esempio non calza; — replicò Virginio. — Si trattava d’una signora, e voi siete un uomo, non vecchio ancora, sano come una lasca. Del resto, in quella cerimonia, la madrina conta poco; l’essenziale è il padrino; essenzialissimo poi quando è il nonno.
— Sì, essenzialissimo fin che vorrai. Ma avrò sempre da esser io il sacrificato? Perchè non son venuti loro a Mercurano? Qui ti voglio.
— Me?
— Sì, te, proprio te. Poichè sei tu che li difendi, che sostieni la parte loro, rispondimi un poco, perchè non si sono lasciati vedere? Capirai che non hanno guadagnato niente nell’animo mio. È stata un’azionaccia, che m’han fatto e mi fa sfigurare davanti al paese.
— Di che cosa vi date pensiero? — esclamò Virginio girando la difficoltà che non voleva affrontare. — Il paese! Il paese dica quel che gli pare: quando avrà ben detto, si cheterà. Quanti discorsi si saran fatti a Mercurano, che ora dormono laggiù, dentro San Zenone, con le bocche che gli han proferiti! I vostri figliuoli non sono venuti a trovarvi per la semplicissima ragione che non avranno potuto. Le circostanze possono bene averli frastornati. Non sono venuti prima? Verramno poi; e Mercurano non avrà perduto nulla, per avere aspettato un po’ più del bisogno. —