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munque fosse, bisognava mettere in conto cinquantanove anni di mensa parrocchiale, tranquillamente goduta; una mensa abbastanza lauta, ch’egli aveva saputo far fruttare largamente, spendendo sempre così poco per sè. Buon governo di stabili, risparmio di tutti i giorni e lunga vita, portavano spiegazione e giustificazione di tutto.

Il giovane Virginio non aveva mai dato molta importanza al denaro, nè mai fatto assegnamento sulla eredità dello zio, al quale sinceramente egli augurava cent’anni di vita. Ma poichè questi fu morto, ed egli ebbe preso cognizione di quel testamento che lo faceva unico erede d’una vistosa sostanza, non potè trattenersi dal pensare che se il suo povero zio avesse pagato un anno prima il suo debito alla madre natura, egli, il povero segretario del Bottegone, si sarebbe trovato in ben altra condizione di spirito per accogliere una certa proposta del signor Demetrio Bertòla. E sospirò; ma anche subito si pentì di un moto involontario dell’animo, che era così poco conforme al suo modo di sentire.

Il signor Demetrio ritornò, quindici o venti giorni dopo, dalla sua impresa battesimale di Roma. Laggiù aveva avuto notizia del mortorio di Bercignasco; e fu quello per l’appunto che lo persuase ad abbreviare i termini del suo soggiorno nella eterna città. Anch’egli spese la sua parolina di rimpianto per la memoria del vecchio arciprete, e poi si rallegrò con Virginio della manna che gli era piovuta dal cielo.

— Ora sei ricco; — gli disse; — e penserai a lasciarmi qui solo, come Olimpia sullo scoglio.

— Io! — esclamò Virginio. — Che pensieri son questi? Mi credete un ingrato? e potete immaginare che un po’ di fortuna mi faccia impazzire? Capitata poi quando meno ne sentivo il bisogno! Che cos’è questo denaro? Io l’ho sempre stimato per quello che vale; poco per sè, niente per noi, se non serve ad assicurare la nostra felicità. Vedete, signor Demetrio? parlo come un libro stampato; — soggiunse Virginio, con un malinconico