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per averle lette, che non per averne esperienza: diciamo anzi che di esperienza non ne aveva affatto; ma appunto per questo temeva, appunto per questo tremava.

Passarono ventiquattr’ore, come passano tutte, le tristi e le liete, le cattive e le buone. Quelle di Virginio erano state ore d’agonia; eppure tanto brevi! Con infinita mestizia vide allontanarsi la dolce Fulvia, in compagnia del glorioso suo babbo tutto vestito a festa. Anche lei si vedeva contenta; ma certo, all’ultim’ora, un tantino impacciata. Era quello il suo primo ingresso nel mondo, e non si poteva pretendere una grande disinvoltura da lei; piuttosto bisognava perdonarle se più dell’usato si guardasse allo specchio, al grande specchio di quell’armadio di magógano, che abbelliva tanto la sua camera, e per gentile pensiero di Virginio Lorini. Simili novità non sarebbero passate mai per la testa del signor Demetrio Bertòla.

Che giornataccia fu quella, pel povero segretario del Bottegone! Andava e veniva di continuo, passeggiava da una stanza all’altra, nervoso, irrequieto, guardando ad ogni tanto l’orologio.

— Dove sarà ora? In giardino, ad ammirare i fiori e la piante rare; nel parco, a godersi l'ombra dei grandi alberi secolari. Ed ora? Sotto l’atrio, sui sedili di ferro colorato, o sui piccoli divani di maiolica con le pitture pompeiane dipinte sotto lo smalto. —

Virginio conosceva benissimo i luoghi, per esserci stato altre volte, durante l’assenza dei padroni, da povero visitatore curioso.

— Ed ora? A tavola, sicuramente; sono le sette ormai; non possono essere che a tavola. Dove l'avranno collocata? tra chi? Da una parte avrà il signor Momino, senza dubbio, il padrone di casa: ma dall’altra? —

Ah, il povero Virginio non poteva star fermo; andava di qua e di là, e si sentiva da per tutto sulle spine.

— Finalmente avrà avuto termine, questo pranzo maledetto. Ed ora? Un’altra passeggiata; c’è