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— Ah! ch'io veda questo portento di figlioccia! — diss’egli al signor Demetrio Bertòla, dopo i convenevoli d’uso. — Come marito della madrina, posso dirmi padrino anch’io, non vi pare? Cara bambina, come vi siete fatta grande e bella! Sapete, sono già molti anni passati, che io non ho il piacere di vedervi.

— Ha ben ragione, signor conte; — entrò a dire il signor Demetrio. — È stata sette anni in collegio.

— Lo so, lo so, — riprese Momino, — dalle Dame Inglesi di Lodi. Un collegio riputatissimo. C’era anche la figliuola d’un mio mezzo parente e buon amico, il marchese Savignani.

— La mia Irene! — disse Fulvia, osando finalmente parlare, e infiammandosi tutta al ricordo. — Tanto cara e tanto savia! La migliore di tutte; sempre la prima in tutti gli studi.

— Ah sì? ho piacere, ho piacere; ne farò le mie congratulazioni al suo babbo, non senza ricordare la fonte delle mie informazioni. Accennare le fonti è un dovere. Anche voi, carina, sarete stata delle buone. Mi avete l’aria di saper molto.

— Italiano, francese, inglese, tedesco.... — enumerò il signor Demetrio, enfiando un pochettino la bocca ad ogni vocabolo che veniva aggiungendo. — Pianoforte, storia, geografia....

— Sì, so bene, e dell’altro ancora; — interruppe Momino, temperando l’atto con un amabil sorriso. — Queste care bambine oramai ne sanno più di noi, mio buon signor Demetrio. Ai nostri tempi, questa ricchezza, questa varietà d’insegnamenti non c’era. Basta, sarà per quando ritorneremo a nascere. Frattanto, bambina mia bella, ricevetemi qui come ambasciatore di casa Sferralancia e della sua graziosa padrona; in nome della quale ho a presentarvi scuse e rimostranze, profonde le prime, e le seconde non lievi. Incomincierò dalle scuse. Donna Fulvia è dolente di non esser passata più a salutare la sua cara figlioccia: ma in verità la colpa non è stata sua, bensì di un certo incomodo che l’ha tenuta parecchi giorni a letto.