La figlia del re (Barrili)/VII
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VII.
Buona notte! Virginio passò la sua molto male, usando gli occhi a piangere come un bambino. Tutta la forza d’animo che aveva dovuto logorare stando a quel doloroso discorso col suo principale era l’ultimo avanzo di quella che veniva adoperando da forse due mesi, cioè dal tempo che sull’orizzonte di Mercurano era apparso il signor conte Attilio Spilamberti di San Cesario. Ormai non ne poteva più; doveva dar fuori.
Ed era ben rassegnato, nel fatto; sapeva bene che quello era il suo destino, e lo accettava; lo aveva accettato fin di prima, ascoltando la voce del cuore, che non inganna mai. Non aveva esplorato l’animo di Fulvia; non ne aveva avuto bisogno; la verità gli era apparsa chiara e lampante fin dai primi giorni dopo il ritorno della signorina dal collegio di Lodi. Fulvia Bertòla non era passata impunemente tra le eleganze che si erano affacciate, immagini tentatrici, ed un intelletto come il suo, aperto e vivace, facile ad intenderle e disposto ugualmente ad accoglierle. Per quelle grandezze, per quelle eleganze era nata; le bastava averne avuto un’idea, per riconoscere la sua vocazione. Elevarsi, del resto, è l’aspirazione di tutti; e la donna che non aspiri ad elevarsi, ha forse ancora da nascere.
Virginio non aveva potuto chiuder occhio per tutta la notte, e vide con terrore i primi chiarori del giorno, bene immaginando quante altre angosce quel giorno gli dovesse portare. Balzò dal letto, si lavò il viso una mezza dozzina di volte, disperando sempre di cancellare dagli occhi stanchi la traccia delle sue lagrime, e scese al Bottegone, per ripigliare il suo solito uffizio. Era sempre il primo, del resto, sempre il primo ad attaccare il lavoro, come l’ultimo a smetterlo. Il signor Demetrio scese molto più tardi, ma non aveva gli occhi rossi. La notte porta consiglio; a lui aveva anche portato un buon sonno. Era tranquillo, per altro, e ragionò di cento cose col suo segretario, pacatamente, naturalmente, come se niente di grave fosse stato detto la sera innanzi tra loro. Lasciò poi di discorrere con Virginio, per risalire al primo piano; stette un pezzo lassù, e Virginio potè credere che proprio allora si decidesse la sua sorte; ma quando fu di ritorno al pian terreno, il signor Demetrio non parve niente mutato da quello di prima; uscì a prendere una boccata d’aria, stette un pezzo a chiacchierare con qualche amico sulla piazza; rientrò, riprese a ragionare con Virginio e con altri commessi del Bottegone, sempre tranquillo, ilare quasi, che parve miracolo a tutti, tanto erano avvezzi a non vederlo mai di buon umore prima di desinare.
Sicuramente, quella mattina egli non aveva ancora parlato di nulla con Fulvia. Virginio potè averne la certezza a tavola, vedendo la signorina esser tranquilla come il suo babbo, serena nell’aspetto e sorridente. Ad un certo punto, levando gli occhi verso Virginio, fece un atto di meraviglia, e gli disse:
— Come va? non ha dormito stanotte? —
Virginio sussultò, non intendendo bene il perchè di quella domanda improvvisa. Ma pensò ancora che i suoi occhi stanchi, e senza dubbio ancora un po’ rossi, lo avevano troppo facilmente tradito.
— Pochissimo, signorina; — rispose. — Ho dovuto far conti. Qualche volta le somme non tornano, e bisogna cercare la ragione dell’errore; non si ha pace fino a tanto non si riesce a trovarla.
— Eh via! Le mancava il tempo? — esclamò Fulvia, sorridendo. — Non si ammazzi così per una somma che non torna. Si direbbe, a sentirla, che il babbo è un tiranno, pei suoi impiegati, e non li lascia ben avere, neanche la notte. —
Virginio contrasse le labbra, volendo simulare un sorriso, in risposta a quello che temperava la benevola riprensione di Fulvia. Appena gli venne fatto, si alzò da tavola con un pretesto, e andò nella sua camera a sfogare un nuovo impeto d’amarezza. Oh, egli lo aveva bene inteso, quel discorso in apparenza tanto innocente. Egli era sempre, ma allora più che mai, un impiegato del signor Bertòla, il segretario, il ministro del Bottegone. Lo volevano sano, naturalmente; non gradivano che si ammazzasse al lavoro, che si levasse il sonno dagli occhi; gran mercè! Ma per lui, oltre quella bontà padronale, non c’era altro a sperare.
E però non c’era neanche da aspettare che cosa dovesse uscir fuori dal discorso del signor Demetrio con la sua Fulvia. Il discorso, a buon conto, doveva essere tenuto con tutta la comodità possibile e desiderabile. Quel giorno, a farlo a posta, da casa Sferralancia, non giunse nessuna visita, nessun messaggio a casa Bertòla; non passò carrozza in livrea, nè si lasciò vedere la zazzeretta del signor Momino in quei pressi. Casa Sferralancia voleva lasciare al signor Demetrio il tempo di pensare e la libertà di parlare alla sua bella figliuola.
Ma se il signor Demetrio andò da lei, Virginio non lo vide salire. Lo aveva lasciato a pisolare sul canapè del salottino; ed anche, andando e venendo per le stanze del Bottegone, lo aveva veduto parecchie volte immobile al suo posto: ma poi, ad un tratto, ritornando dalla stanza delle pannine, aveva trovato piazza pulita. Dov’era andato il signor Demetrio? nessuno lo sapeva, nessuno lo aveva veduto. Del resto era l’ora della partita a tarocchi: certamente era uscito.
Non lo credeva Virginio; ma non osò sincerarsene. Temeva, salendo con un pretesto al primo piano, di farsi cogliere in flagranti di curiosità; temeva sopra tutto d’incontrarsi nell’anticamera con la signorina Fulvia. E restava giù, reggendo l’anima coi denti, non osando neanche salire alla sua cameretta, dove certamente sarebbe stato assai meglio che là a pianterreno, in quella condizione d’animo, alla vista di tutti; restava giù, quasi straniero in quella casa che era tutta appoggiata su lui, come il vecchio mondo sulle spalle d’Atlante.
Inquieto, dissimulando a stento la sua inquietudine con le somme che non tornavano, con certe carte che andava cercando senza trovarle, col libro maestro che tormentava ad ogni tratto, non volle neanche spiare il ritorno del signor Demetrio, se era uscito, nè la sua discesa al pian terreno, se era rimasto in casa; e veramente non seppe se il suo principale ritornasse di fuori o solamente scendesse dal piano superiore, quando lo vide da capo nel Bottegone. Gli piaceva non saper niente; così avesse potuto seguitare a non saper niente per tutto quel giorno, e per molti altri alla fila!
Ma le cose del mondo non vanno mai come a noi piacerebbe. Quella sera, a cena, Virginio conobbe a troppo chiari segni che il signor Demetrio aveva parlato. La fanciulla si vedeva molto impacciata; non gli volse quasi mai il discorso; non levò mai gli occhi a guardarlo. Anche il signor Demetrio, di solito così discorsivo a tavola, non sapeva che dire, e per tener viva la conversazione non faceva più altro che trovar tutto cattivo, la minestra, il lesso, l’arrosto, perfino l’insalata. Ed era lattuga! Ma sì, perfino quella tenerissima tra tutte le creature di Dio, faceva brontolare il signor Demetrio; neppur quella trovava grazia presso il suo alto giudizio. Per fortuna, coll’insalata ebbe fine il suo posto serale, e col pasto la necessità di barattar parole inutili. La signorina Fulvia fuggì presto da tavola, come quel giorno era fuggito Virginio appena finito il desinare; si ritirò nella sua camera, col pretesto di dover rispondere alla lettera d’una amica, per poterla mandare di buon mattino alla posta; nè lasciò sperare per quella sera di volersi mettere al cembalo, come tutte l’altre sere aveva costume di fare.
Rimasto solo con Virginio, il signor Demetrio trasse una rifiatata, che parve di liberazione.
— Oh! andiamo a prendere una boccata d’aria; — diss’egli. — Sento che scoppio, se non mi levo di qui. —
Virginio non rispose nulla, ma lo accompagnò sulla piazza. Come ebbero passeggiato un tratto, e si furono allontanati abbastanza dalla casa, immaginando che a lui toccasse di attaccare il discorso, Virginio incominciò:
— E così? —
Non era che un filo; ma a quel filo si appigliò facilmente il suo interlocutore, che non aspettava altro per farla finita.
— E così, che vuoi che ti dica? La bomba è scoppiata; ho parlato. Ed accetta. —
Gli parve in questo modo di aver detto ogni cosa, al bravo signor Demetrio; tanto che diede un’altra rifiatata, di sollievo e di contentezza ad un tempo. Uno spartano, dopo quel lungo discorso, avrebbe almeno trattenuto il respiro. Ma non è spartano chi vuole; e il signor Demetrio Bertòla ebbe bisogno di quel piccolo sfogo.
— Accetta.... — ripetè Virginio. — Il conte?
— Il conte, sicuro, il conte. Non me l’avevano chiesta per altri.
— Scusate, vi prego, scusate; — si affrettò a dire Virginio, non dissimulando neppure un po’ d’amaro che gli veniva involontariamente alle labbra. — Una parola di più, per la chiarezza, non guasta; ed io non credevo di far male.
— E chi ti dice che hai fatto male? Sei sempre lo stesso puntigliosaccio sofistico; e con te bisogna pesar le parole. Vedi bene che sono in collera. Infine, me la rubano, quella cara figliuola; me la rubano, e non ho da dare nei lumi?
— Avete ragione, in questo, avete ragione. Ma prima che ve la rubino, spero bene che vorrete badare agl’interessi e mettere in chiaro le cose.
— Oh, per questo, non dubitare; voglio esser sicuro, e ci andrò col piede di piombo. Sta bene che il signor Momino, quanto a ciò, mi ha molto rassicurato, «Vedete, mi ha detto, si faranno le cose a modo; tratteremo punto per punto tra noi, coll’uomo della legge ai fianchi. Per fortuna l’abbiamo qui, sotto mano; il nostro caro Possidonio è un avvocato coi fiocchi. E non si direbbe, a quell’età; pure, già mezza Bologna ricorre ai suoi lumi; quanto a me, non muoverei un passo senza di lui; in tutti gli affari miei e in quelli di mia moglie mette sempre mano lo Zocchi». Vedi dunque, Virginio, che per questo rispetto siamo bene appoggiati. Il signor Momino, del resto, non mi ha nascosto che il conte Spilamberti, nobilissimo com’è, non è ugualmente ricchissimo: farà molto ad avere un dugentomila lire in terre, senza contar la bicocca di San Cesario, che andrà per il buon peso. Di più ci ha una zia, della quale è l’unico erede; una vecchia decrepita, la marchesa.... che so io? la marchesa.... Vattelapesca. Ma il nome non importa, ora; lo sapremo a suo tempo. Dopo tutto, sul patrimonio del conte c’è da assicurare una dote come quella che vorrei dar io; un centomila lire; non ti pare che basti?
— Può bastare, se il fidanzato se ne contenta; — rispose Virginio. — Ma voi potete dare assai più.
— Fosso.... posso.... sì e no.... Mi ho da levar tutto, insieme col tesoro che mi rubano?
— Vi rubano! Perchè dite questo, se potete far patti? Sicuramente, signor Demetrio; potete studiare il modo di aver la figliuola molto vicina a voi, o di esser sempre, quasi sempre, molto vicino a lei.
— È un’idea, questa; non ci avevo pensato. Ma quanto alla dote, capirai, non voglio fare una troppo grossa levata dal fondo di cassa del Bottegone.
— Potete levare anche il doppio; — rispose Virginio.
— E non mi farà comodo; — replicò il signor Demetrio. — Perchè dovrei spogliarmi? Fulvia è figlia unica; salvo i legati, s’intende, i debiti di coscienza o, per parlare più esatto, debiti di gratitudine, mi capisci? -
Virginio non rispose a quell’accenno, che aveva mal suono per lui. Pensava ai legati e ai debiti di gratitudine, come al gran Cane dei Tartari e alla settimana dei due giovedì.
— Signor Demetrio; — diss’egli, — avete pensato a parecchie cose importanti, e dovete pensare anche alla felicità della vostra figliuola, che è poi l’essenziale. Se la felicità sua richiedesse di accompagnarne il collocamento con una maggior dignità, son sicuro che non vi fareste pregare. Io non so che cosa ci voglia, per questo matrimonio; non so se basti quello che voi fate conto di dare: ma so bene, da quel povero arnese di casa vostra ch’io sono, che la signorina Fulvia deve entrare in casa Spilamberti come una regina, a far grazia, non riceverla. Ciò posto, volevo dirvi soltanto, per quello che io conosco dei vostri interessi....
— Sfido io! — interruppe il signor Demetrio. — Sei tu che fai tutto.
— Ebbene, appunto per questo vi dico: potete dare il doppio di dote. Sia bene garantita, e non si badi a miserie.
— Già, sempre grande, tu, come se avessi sotto la mano i milioni di Rothschild! E sarà quel che vuol essere; — continuò il signor Demetrio. — Il guaio è che, con molti o con pochi, me la portano via. Basta, contenta lei, contento io; se pure non ci farò una malattia. Ah Virginio, Virginio! se si fosse potuto combinare altrimenti!
— Spero bene che di quel vostro disegno non avrete fatto parola; — disse Virginio, cogliendo il destro che gli offriva involontariamente quell’altro con la sua malinconica esclamazione.
— No; — rispose il signor Demetrio, dopo un istante di pausa. — Puoi credere?... Quantunque, se lo avessi fatto, non sarebbe stata la fine del mondo. Era a mia idea; un’idea stupenda....
— Lasciate, lasciate, per amor di Dio, non voglio saperne altro; — gridò Virginio, fremendo. — L’essenziale è che non l’abbiate messa fuori oggi.... un’idea così pazza!...
— Eh, per questo, non tanto, ragazzo mio, non tanto. Ma capisco ancor io; i babbi vedono ad un modo, e le ragazze ad un altro.
— Che cosa dite? Avete dunque parlato di me?
— Ma no, ti ripeto. Che sospettoso! Dicevo per me; rifacevo un’osservazione che avevo già fatta tra me, vedendo in quella benedetta figliuola tanta prontezza, a dirmi di sì.... per quell’altro. Ma sì, hai detto bene tu, lasciamo questi discorsi, che oramai non fanno e non ficcano. Si rientra in casa? Sono le nove suonate. —
Quella sera il signor Demetrio incominciò a respirare davvero. Che gran peso si era levato egli dall’anima!
— Finalmente! — diss’egli, come si fu messo a letto e ben tirata la rimboccatura del lenzuolo fin sotto il mento. — L’ho sbarcata assai meglio che non fosse da sperare, dopo quella proposta che m’ero lasciata sfuggire di bocca. Bravo ragazzo! Chi sa? ha fatto male a non mettermi con le spalle al muro; e forse avrei fatto meglio ancor io a governarmi con Fulvia, come se fossi davvero impegnato con lui. Ma come persuaderla? Mi aveva fatto una certa smorfia, al solo sentirmi accennare quell’idea! E le dicevo pure di parlarne accademicamente, per conto mio, badando piuttosto all’utile del Bottegone!... Ma lei vuole il suo conte; le si leggeva negli occhi «Babbo, se ti duole, non ne facciamo niente» mi ha detto; «ma se non ti dispiace che io diventi la contessa Spilamberti di San Cesario, ecco, non dispiace neppure a me.» Obbediente, quella cara figliuola, e docile come un agnellino. Già, si capisce, così bene educata! Se ne avessi un’altra, in parola d’onore, vorrei mettere anche quella in collegio. Virginio mi ha dato un buon consiglio davvero. Un po’ di signoria, lo ammetto, è la malattia che si prende in tutti questi collegi; ma infine, dov’è l’istituzione che sia perfetta, in questo povero mondo? Anche quel po’ di signoria fa buon giuoco, o non guasta, quando ci sono i quattrini. E ce ne sono, in casa Bertòla; grazie a Dio ce ne sono. La mia Fulvia sarà una contessa; chi l’avesse mai detto a quella santa donna di Giuditta? Ma è stata lei che l’ha voluta figlioccia d’una contessa; non si direbbe che fiutasse il vento anche lei? Contessa Fulvia Spilamberti di San Cesario! Suona bene, non è vero? E ci si potrebbe anche aggiungere Bertòla. Ce ne sono mai stati dei conti Bertòla? Voglio domandarne a Virginio, che ha imparate tante cose utili e inutili sui libri. Contessa Fulvia.... -
I monologhi del signor Demetrio non erano mai molto lunghi. Questo, che già usciva di misura, fu chiuso repentinamente dalla classica verga di Morfeo. Il bravuomo non pensò più, non sorrise più all’immagine di tante grandezze che gli piovevano in casa; si addormentò e prese a russare di gana, sommessamente da principio, come uno che preludia, poi via via rinforzando, con variati passaggi dal minore al maggiore, venendo da ultimo a certe archettate sode, metalliche, veri esercizi sulla quarta corda, che indicano ordinariamente la bontà degli organi, e la serenità di una illibata coscienza.
Virginio non aveva altro conforto nella sua infinita miseria fuor quello di sapere che il suo nome non era stato tirato in ballo dal signor Demetrio in quel malaugurato colloquio colla figliuola. Troppo gli sarebbe doluto che fosse andata altrimenti la cosa; gli avrebbe accresciuti a mille doppi i tormenti dell’anima, il pensare che la signorina Fulvia fosse informata delle sciocche speranze, delle pazze ambizioni che in quell’anima erano nate e cresciute.
Per verità, delle sue ambizioni, delle sue speranze non aveva egli mai lasciato trapelar nulla; al signor Demetrio che le voleva pur lusingare, aveva parlato in ben altra maniera. Ma se quel babbo, brav’uomo e non avvezzo a certe delicatezze di sentimento, avesse mai accennato di un suo vecchio disegno alla figlia, sicuramente non si sarebbe immaginato di far male, nascondendo che quel disegno era suo, tutto suo, e che le ambizioni di Virginio Lorini non c’entravano per nulla. In tal caso, che cosa avrebbe immaginato la signorina Fulvia di lui? E come, pensando a un caso simile, avrebbe più osato Virginio levar gli occhi a guardarla? Non una volta sarebbe fuggito da Mercurano, ma dieci, ma cento volte, ma mille.
Per fortuna, il signor Demetrio non aveva proferito il nome del suo segretario; non ne aveva posta la candidatura, in opposizione a quella del conte Spilamberti. Così asseriva il signor Demetrio; e Virginio Lorini, che non aveva mai avuto occasione di dubitare delle parole del suo principale, non aveva ragione per dubitarne allora. Fu anzi ben certo che la signorina Fulvia non avesse fumo di nulla. Essa non aveva dunque da giudicarlo male; non aveva da disprezzarlo, non aveva da riderne.
Con questa certezza nell’anima, sentì di poter essere così forte da affrontare la vista di Fulvia, senza tremare, senza impallidire, senza confondersi. Del resto, per giungere a quel grado di forza, si era anche dato tante volte dello sciocco; si era tanto offeso, flagellato, mortificato nella sua dignità, chiamandola vanità, tracotanza e peggio, che ormai gli pareva d’essere diventato un altro. La maschera, per parere un altro, l’aveva; una maschera superficiale, dozzinale, di cartapesta, ma che per intanto non cambiava colore, non contorceva le fattezze, non contraeva i muscoli, non tradiva nessuno dei più piccoli moti dell’anima. Buona maschera insensibile, composta, rigida, quasi ieratica nell’eccesso della tua stupidaggine, come stai bene al viso, in mezzo a una folla di curiosi, di maligni e di vili! Il mondo ci vede felici e c’invidia, donde non è che un passo all’odiarci: il mondo ci vede dolenti e ci compatisce, donde non è che un passo a disprezzarci: il mondo ci vede calmi, freddi, impassibili, e resta a tutta prima un po’ male: ma poi si rassegna e lascia correre; tanto è fuggifatica, tanto è facile trascurare ciò che non gli è dato d’intendere.
Virginio vide la signorina Fulvia il giorno seguente, alle solite ore, e sorrise. Aveva anche potuto dormire, vinto dalla stanchezza, e non mostrava più gli occhi rossi. E fu così calmo, tranquillo, sereno, che la signorina Fulvia non ebbe ragione di cansarne lo sguardo, di lasciar morire la conversazione, di cogliere il primo appiglio per levarsi da tavola e lasciarlo solo col babbo. Anch’essa, vedendolo così quieto, tutto alle cure del suo ufficio modesto e agli interessi del Bottegone, si venne di giorno in giorno rammorbidendo: non ebbe più riguardo di apparir felice, come si sentiva veramente; le avvenne perfino, e non se ne dolse poi troppo, di lasciarsi trascorrere a qualche impeto di gioia pazza, di abbracciare amorosamente il babbo, quando egli facetamente, con una anticipazione di qualche mese, le dava il futuro suo titolo. Signora contessa, che bella cosa! Suonava bene; faceva piacere a due persone su tre; nè si poteva poi dire che dispiacesse alla terza, se la bocca e gli occhi di quella sua maschera erano sempre atteggiati al sorriso.
Il signor Momino Sferralancia era presto venuto a casa Bertòla, facendo ballare più vivamente che mai le ciocche inanellate della sua zazzeretta tra il bianco e il rossigno. Donna Fulvia, sua signora e padrona, ricompariva anche lei e ripigliava la bella consuetudine di portarsi via la sua cara figlioccia ogni giorno. Oramai non poteva più starne senza; la covava con gli occhi, la divorava coi baci.
Mentre le donne scarrozzavano pei dintorni, o facevano musica in salotto, laggiù nel castello degli Sferralancia, tra il signor Demetrio Bertòla e il dolce avvocato Possidonio Zocchi, si trattava d’affari, auspice il grazioso signor Momino, che tralasciava per quella cura amorevole i suoi studi eruditi. Ne soffrisse pure il padre Giovan Battista da Modena, al secolo Alfonso III di casa d’Este, i cui sermoni avrebbero indugiato ancora un anno ad uscire alla luce. Poco male era quello, dopo dugento cinquant’anni che erano rimasti a dormire in un pluteo di biblioteca; l’essenziale era di assistere il prossimo suo, di assicurare la felicità di una cara figlioccia, se figlioccia poteva dirsi per lui, di render servizio ad un nobile suo pari, ad un amico di casa, non dimenticando neanche i giusti interessi dell’ottimo signor Demetrio Bertòla.
Naturalmente, sotto gli auspicii del signor Momino, i negoziati si proseguivano nella biblioteca del castello. Virginio non aveva voluto saperne mai nulla. Occorreva al signor Demetrio di chiedergli carte, note, schiarimenti, rispetto al suo stato patrimoniale; e Virginio dava schiarimenti, note, carte, tutto ciò che gli era richiesto, senza fiatare, sviando accortamente il discorso, quando il signor Demetrio accennava di voler scendere a qualche confidenza sul tema.
Virginio capiva così alla grossa (e ci voleva poco a capirlo) che le centomila lire mentalmente assegnate dal signor Demetrio in dote alla figlioccia non erano parse bastanti al decoro di quella nobile unione; e pensava che dovessero andarci le duecentomila proposte da lui, che al signor Demetrio in principio parevano troppe. Certo, era una dote vistosa, una somma favolosa, per quel che faceva la piazza di Mercurano: ma infine, il signor Bertòla poteva darla, e nessuno ci aveva da metter bocca. Piuttosto starebbe stato da vedere se quella dote fosse garantita. Ma c’era un avvocato di mezzo, un avvocato valente, che godeva tutta la fiducia di casa Sferralancia, tanto che il signor Momino e donna Fulvia non facevano niente senza di lui. Si poteva dunque viver sicuri; le cose sarebbero state fatte a dovere.
Un giorno il signor Demetrio portò a casa un fascio di carte bollate. Le sfogliò, le sparpagliò, le squadernò con grande ostentazione sulla scrivania del salottino, col desiderio evidente di destar l'attenzione del suo segretario. Ma il suo segretario non se ne diede per inteso; lavorava al libro maestro e faceva le viste di non badare a quella esposizione straordinaria, che pure aveva osservata con la coda dell’occhio.
— Vedi queste carte? — disse il signor Demetrio, volendo ad ogni costo far voltare la testa a Virginio. — C’è qui documentato tutto l’avere del conte Spilamberti. Testamenti, atti di cessione e di compera, titoli di possesso, stati ipotecarii, ricevute, dichiarazioni di registro, certificati di trascrizione, e che so io; ne capisco poco, e in quel poco mi ci confondo; ma l'avvocato Zecchi mi dice che tutto è in regola, che posso vedere e far vedere liberamente ogni cosa a persone di mia confidenza. Ho dovuto prendere tutta questa carta bollata per fargli piacere, per aver l’aria di esaminarla con comodo e di farla esaminare. Ma dov’è la persona che abbia più di te la mia confidenza e la meriti? Guarda tu, Virginio, esamina tu; mi dirai domani il tuo riverito parere.
— Nè domani nè poi, caro signor Demetrio; — rispose Virginio, che non si era mosso dal suo libro maestro, solo contentandosi di voltarsi a mezzo sulla vita.
— Oh, questa è nuova di zecca! — esclamò il signor Demetrio, facendo gli occhiacci. — E perchè, se è lecito saperlo?
— Perchè non sono avvocato; — replicò Virginio, pacatamente. — Io non m’intendo di queste cose. Troppo volete da me, che tutti i miei studi li ho fatti qui, sotto i vostri occhi, e voi sapete bene che tra i miei studi non c’è stato quello del codice civile, nè di alcun altro codice.... salvo forse il commerciale, per gl’interessi del Bottegone.
— È vero; — disse rabbonito il signor Demetrio; — e questi interessi li hai curati bene, come se fossero i tuoi, meglio che se fossero i tuoi. Ma infine, con un po’ di buon senso, e con la tua perspicacia per giunta....
— Con un po’ di buon senso, — interruppe Virginio, — e con tutta la perspicacia che mi volete attribuire, io ne saprò sempre meno di voi, in materia di stabili. L’amministrazione dei vostri non la curate voi in persona? e non vi occupate voi di tutto ciò che si attiene a questa partita?
— Anche di questa voglio scaricarmi su te, ragazzo mio; — riprese il signor Demetrio, immaginando che un altro sentimento avesse ispirata l’osservazione del suo segretario. — Tu fai tutto bene; farai bene anche questo.
— No, per carità; troppa roba, e ne ho abbastjanza del Bottegone; — disse Virginio. — Il Bottegone è un mondo, come voi dite qualche volta; ora il governo del mondo può bastare ad ogni ambizione, senza aggiungersi ancora i vostri stabili, i vostri mutui, le vostre ipoteche, i vostri contratti di affitto, le tasse, le riparazioni, le scorte, e via discorrendo. Che cosa vorreste voi fare, se anche questa parte di lavoro vi fosse sottratta? Vorreste dormire tutto il santo giorno su quel canapè? Occupatevi delle vostre sostanze, signor Demetrio, delle vostre case, dei vostri campi, e della vostra rendita; ciò basterà a tenervi desto, ed anche di buon umore.
— La rendita se ne andrà, pur troppo; — disse il signor Demetrio, sospirando; — ed io non avrò più da pensarci. Ma poichè la dote dev'essere assicurata sui possessi del conte Spilamberti, sarà bene leggere i documenti che ho portati con me. Tu non vuoi vederli...
— Perchè ciò non serve; perchè io non ci capisco nulla, e dove non può aver luogo un mio consiglio è inutile che si spenda la mia curiosità; o piuttosto diciamo la mia attenzione, poichè di curiosità non ho mai peccato nè sofferto.
— Benedetto ragazzo! con lui non si può vincere nè impattare; — borbottò il signor Demetrio. — Dovrò io andare dal cugino delle Cometti, per avere il suo riverito parere? —
Quello che il signor Demetrio accennava era un avvocato di Mercurano. Possidente modesto, l'avvocato Calestani non aveva avuto bisogno dì esercitare una professione per la quale non era forse tagliato. Qualche consulto dato a contadini litigiosi, qualche comparsa davanti al pretore, erano tutto il bagaglio col quale sarebbe andato alla immortalità, per prendere il suo posto nella sezione degli oratori e legisti, avvocati e giudici, procuratori, notai, cancellieri, uscieri; e chi più n’ha ne metta, che mi farà sempre piacere.
Consigliarsi con lui, coll'avvocato senza cause, col cugino delle signorine Cometti? Senza contare la poca pratica di quel Bartolo da strapazzo, sarebbe stato come appendere il sonaglio al collare del gatto: in due ore tutta Mercurano sarebbe stata messa a parte del geloso segreto. Il signor Demetrio non amava che si sapessero prima del tempo ì fatti suoi e quelli degli altri che avevano da fare con lui. Del resto, quelle carte legali egli non le aveva accettate se non per farle vedere a Virginio. Istintivamente sentiva di dover dare quella prova di confidenza al suo segretario, senza il cui consiglio non aveva mai mosso un dito in nessuna occasione. Virginio non voleva saperne? ricusava di leggere, di esaminare, di consigliare? ricusasse pure; quelle carte si potevano dare per lette. Il signor Demetrio le conosceva; ci aveva perfino schiacciato un sonno di mezz’ora, sentendole leggere dal dolce Possidonio con quella sua bella voce di dottor Balanzone raffinato. Per quello che ne aveva inteso, era convinto; per quello che non ne masticava, non essendo uomo di legge, gliene importava poco, anzi niente; poichè ci aveva visto tutto chiaro, tutto in regola, un avvocato come lo Zocchi, che aveva la clientela di mezza Bologna, che godeva la piena fiducia del signor Momino Sferralancia, come della sua savia, stagionata e navigata signora.
— Infine, — diss’egli, — quando c’è l’ipoteca sugli stabili.... non ti pare?
— Eh, certo; — rispose Virginio; — quando c’è l'ipoteca non occorre più altro. Far registrare poi gli atti, e farli trascrivere, è affar da notai; e il vostro, signor Demetrio, ha sempre fatte le cose per bene. —
Sospirò, così dicendo, il povero Virginio Lorini. Pensava in quel punto ad un altro notaio che le aveva fatte male, costringendo il suo unico figlio a limosinare la vita da uno zio senza cuore, e a trovare per grazia di casa Bertòla un tozzo di pane, che incominciava a condirsi di lagrime.