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Così grinzoso e ricciuto, restava ancora un giovanotto, anzi un adolescente; tanto che si diceva sempre Momino, come ai bei tempi della sua puerizia, quando un grand’uomo, il Giordani, gli aveva paternamente accarezzata la guancia; donde gli era venuto il desiderio onesto dell’illustrarsi nelle lettere, e donde forse gli era piovuta a suo tempo la fama di corretto ed elegante scrittore, insieme col diritto di mutare la commissione teatrale della città natìa nella regia deputazione sopra gli studi di storia patria. Non è bene che le grandi famiglie si occupino delle grandi cose? e che col crescer degli anni crescano ancora le malleverie, nobilitandosi lo spirito nella scala ascendente dei pubblici uffizi?
Momino Sferralancia era giunto oramai all’apice delle grandezze: non gli restava che di mettere il suggello alla sua gloria. E ci lavorava, badate, ci lavorava a tutt’uomo; specie nei mesi di villeggiatura, che erano per lui i veri mesi del forte e proficuo lavoro. Da tre anni, per dirvi tutto, da tre anni spendeva le sue cure di erudito intorno ad un codice manoscritto, contenente i sermoni del padre Giovan Battista da Modena, un gran personaggio, che prima d'essere cappuccino era stato Alfonso III d'Este, e da Isabella di Savoia sua moglie aveva avuta la bellezza di quattordici figliuoli. Non erano tanti i sermoni del codice; ma al conte Momino parevano bastanti a stabilire la fama di Alfonso III come sacro oratore, e ad ogni modo la sua come scopritore fortunato e annotatore erudito del prezioso manoscritto; il quale, vedete capriccio di fortuna, era sfuggito all’attenzione del Muratori, del Tiraboschi, del Bacchini, dello Zaccaria, del Granelli. La immortalità era per tal modo assicurata a Momino: perchè avrebbe dovuto egli occuparsi di piccole cose? e come avrebbe potuto, volendolo?
Non era orgoglioso, alla maniera di tanti dotti, che si credono arche di scienza, e vogliono far sentire il loro peso ai profani. No, povero Momino; era tanto affabile, cortese, abbondante di