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IV.

La signorina Fulvia notò con piacere, quel giorno, che Virginio Lorini non era un garzone di bottega, nè un commesso di negozio come gli altri. Già lo sapeva da un pezzo; ma quel giorno se ne persuadeva meglio, fermando la mente sul fatto.

Virginio Lorini, era, a ben guardare, assai più d’un primo commesso e d’un segretario; era un ministro, era il braccio destro del babbo, l’occhio vigile, la mente direttrice della casa Bertòla; e degno di quel posto, e d’altri ancora, che fossero più alti di quello. Ciò s’intendeva facilmente, si sentiva ancor meglio che non s’intendesse, dall’aria di superiorità che traspariva involontariamente dalla sua stessa modestia, facendolo parer nato ad ogni cosa che volesse intraprendere.

Non era alto della persona, ma di giuste proporzioni: il bell’aspetto, reso sommamente simpatico dalla finezza dei lineamenti e più dalla espressione profonda dei grandi occhi azzurri, la grazia naturale degli atti, la sobria gentilezza dei modi, tutto era in lui, se così possiam dire, all’altezza d’ogni uffizio più nobile. Senza pretendere all’eleganza di uno zerbinotto, che in verità non ci pensava neanche, senza darsi una cura al mondo dei suoi baffi e dei suoi capelli biondi, non appariva punto trasandato: vestiva con garbo signorile, non discostandosi mai dalle tinte grigie, anglicamente severe, che prendevano risalto dal bianco irreprensibile dei colletti e dei polsini, insaldati senza troppi luccicori, e da un nodo di cravatta di mezzo colore. La carnagione era chiara, un po’ cerea, come era naturale in chi usava restare tutto il santo giorno lontano dal sole. Una sua grande bellezza erano le mani, morbide, sottili, bianchissime. Peccato che quel-