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le mani, toccando di qua e di là nel Bottegone, dalla cartoleria alla pizzicheria, non isdegnasaero all’occorrenza di piantare il coltello in una forma di cacio parmigiano, o di staccare una striscia di lardo da una delle grandi mezzine pendenti alla parete. Ma questo, infine, doveva far più onore alla sua modestia, che onta alla sua eleganza: e del resto, non ci sono al mondo esseri perfetti.

Per la signorina Fulvia, a buon conto, non doveva essere perfetto neanche il suo babbo. La bella e aristocratica reduce del collegio di Lodi non intendeva quella mescolanza della pizzicheria e di tutti i suoi forti odori, con gli altri generi più serii, più eleganti, del paterno negozio. Ma bene la intendeva il signor Demetrio, e meglio la sapeva difendere, tanto che ci diventava perfino eloquente.

— Mio Dio, che cosa ci vuoi far tu, se da quella ho incominciato? Sai tu per che modo mi ritrovi io ad essere mercante di panni, gioielliere, cartolaio, e a ore avanzate anche un tantino banchiere? Perchè da principio sono stato pizzicagnolo. Possedevo quella botteguccia modesta, che aveva dato da vivere a me e a quella santa donna di tua madre. Avevo potuto aggiungerci l’appalto del sale e dei tabacchi, e senza il bisogno di allargarmi: in quello stanzone ci era posto per tutto, anche per una tavola con due panche, per uso di chi volesse mettere un bicchier di trebbiano o di lambrusco su due fette di salato o di spalla di San Secondo. Così si andava, così si tirava avanti, coll’aiuto di Dio. Ma c’era San Zenone che mi guastava le faccende. Quel santo, quel santo (non ne voglio dire troppo male, perchè è stato il santo di mio padre, e perchè dopo tutto mi ha mandato egli stesso una buona ispirazione), quel santo, dico, con la sua gran fiera di luglio, mi popolava la piazza di merciai ambulanti, che avevano il coraggio di piantare i loro banchi davanti al mio negozio. Loro a vendere, ed io a guardare, mi capisci? E vendevano perfino il formaggio e il sa-