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me, e, da quel che pare, il più grande di tutti. Ma io non so più in là, e per cercarne altro è oramai troppo tardi. Lasciatemi dunque dormire, e contentatevi d’esser dotti voi altri. Anche quel Virginio.... chi l’avrebbe mai sospettato, che fosse uomo da tenerti bordone? O dove le pesca lui, tante cose difficili, lui che non ha studiato dalle Dame Inglesi? —

Chiudeva gli occhi, il signor Demetrio, e dormiva: dormendo lui, vegliava il suo cuore; e vegliando meditava. Son sempre amorose e buone le meditazioni del cuore; diversamente da quelle del cervello. Oh, il cervello! buono da friggere, se fosse almeno di bue. Ora il cuore del signor Demetrio ne aveva immaginata una; e molto naturalmente, badate; gliel’aveva fatta nascere il pensiero di quella ragazza così bene educata, che a Mercurano, tra tanti zoticoni suoi pari, nom avrebbe saputo come allogarla.

— Ed ora che ne facciamo? — diss’egli un giorno di schianto a Virginio, trovandosi a quattr’occhi con lui.

— Che ne facciamo? — ripetè Virginio, stordito. — Di che?

— Di Fulvia, perbacco. Dove trovarglielo, a Mercurano, un marito? È un impiccio, ti dico, un impiccio.

— Perchè volete torturarvi il cervello? — chiese Virginio, dopo un istante di pausa, che non lo aveva aiutato a trovar niente di meglio, e neanche a vincere il suo turbamento.

— E non voglio, difatti, non voglio; — replicò il signor Demetrio. — Ho meditato abbastanza, e quel che ho pensato mi pare che basti. Senti, ragazzo mio, fatti più in qua; che cosa diresti, se te la dessi in moglie.... a te? —

Virginio sussultò, e quasi si sentì venir meno.

— Signor Demetrio, ci pensate? — diss’egli.

— Ci penso sicuro, ed è l’unica. Io, per tua norma, mi voglio ritirare dal commercio. A buon conto, non ci capisco più niente, dacchè tu ci hai messo tanto abbaco. Dico per celia, sai; non disprezzo l’aritmetica, che è l’anima degli affari.