Libro primo

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Dedica Libro secondo
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LIBRO PRIMO



Mentr’era per cantar l’origin vostra,
E i vostri lauri, o bionde Eliconine,
Donna viril di forme e di sembianti
Parvemi, e dagli azzurri occhi sereni
5Amor spirando, e reverenza, queste
Formò dolci parole; O spirto amico
Cui giovanil pensier fida all’eccelse
Mete di Pindo, e all’apollinea fronde
Me per altro cammin seguendo, volgi
10A più candidi studj il tuo desio.
Non vedi tu che di purpuree stille,
E di polve onorata è sparso il lauro?
Premio dei forti, al vincitor lo serba
Marte, cui piace addur per le contese
15Nordiche terre alla vittoria il Sire
De le battaglie, e fa del suo gran nome
Tremar Vïenna, e la gelata Mosca.
Altri diverso amor segua, e gli affanni
Del possente Guerriero a le venture

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20Età rammenti, e l’auspicato brando;
Tu di pace cantor con molle verso
Canta dell’arbor mio sacro alla pace.
Com’ebbe detto ciò d’un pio riguardo
Folgorò nel sembiante, e come piuma
25Fosse che vento rigirando estolle,
Per lo tranquillo ciel prese cammino
Del suo santo apparir fatto sereno.
Perch’io fidando al suo favor, se pari
Al buon voler risponderà l’ingegno,
30Non temerò cantar questa feconda
D’argomenti e di pregi arte gentile
Dell’arbor suo. Le Rodie balze, e il caro
Attico nido, e l’inclit’Argo, e l’onda
De le bionde 1 Acestoridi abbandona
35Tu Dea, che figlia al gran Tonante godi
Or tra Frigi Palladia esser nomata,
Or fra Greci Tritonide del bello
Cerulo sguardo, ed or Partenia in cielo
Dai casti membri; al mio lavor principio
40Sia dal tuo nume. Il forte usbergo, e l’arme,
E lo scudo fatale onde francheggi
Le fiorenti città, viril donzella
Lascia, e il cammin per molte ambagi avvolto
Né tocco mai da verun’orma, o Diva
45Mostrami. All’ombra de’ tuoi santi rami

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Crebber di Febo, e di Sofia le belle
Arti, e il saper che la fra l’altre al cielo
Dilettissima terra, Italia mia
Così alto locar, d’ogni sublime
50Studio maestra agi’invidi stranieri.
Qui seggio eterno aver ti piacque, ed are,
Qui regni o Dea, che indarno altri ti sforza
Duri climi a varcar dove inclemente
Natura a tardi ingegni il ver contende;
55E poiché dal congiunto ardir nemico 2
Ilio soggiacque a estremo fato, indarno
Il tuo gran simulacro a la deserta
Etolia piaggia di recar fu avviso
Di Tidide al fìgliol, che alla raminga
60Poppa fe’ guerra il ciel, la terra, e l’onda,
E spirato dai numi, al fuggitivo
Ver la promessa Italia Iliaco duce
Lo ritornò, che di Lavinio, e d’Alba
Pria le mura protesse, e dal Romano
65Crescente imperio al Tebro indi raccolto
Fermò la sede nell’Ausonia terra.
Questa adunque, se amor del nido antico
Pur ti consiglia, onde più lieto il verde
Onor d’umili colli arbor frondeggi.
70Questa per te si scorga a la sua meta
Del rustico saper non ultim’opra.

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     Voi d’Arno egregi spirti, e d’Elicona
Chiari lumi, per cui sublime tanto
Udì levarse il susurrar dell’api
75Con certe leggi, e fra le aurate spighe
Più superba innalzar Cerere il capo
Vidi, e le franche piagge ir belle e liete
Del gran Coltivator ch’esule d’Arno 3
Seguir le patrie muse ad altro cielo:
80Voi dell’Itala terra, e del dir nostro
Ornamento e splendor cui peregrini
D’Asera, e di Manto ai puri fonti addusse
Il favor delle muse, al mio cammino
Siate guida, e conforto. E tu dei prodi
85O magnanimo Seme, arbitro e donno
Del non mutabil fato, a cui natura
Fuor d’ogn’uso mortal, diè invitta forza,
E congiunto al poter, senno e virtude:
Tu solo in terra, o che ti piaccia il brando
90Adoprar nelle pugne, e portar l’ira
E la vendetta degl’infranti patti
Fulminando dall’Istro al Boristène,
O che discenda per la vasta Teti
Scorrendo la fraterna onda, che sdegna
95Dell ultima Inghilterra il rio servaggio,
E le sta sopra colle ardite prode:
E già Te appella dall’algoso fondo

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Il buon padre Nettuno, a cui di mano
Tolto è il grave tridente, e a quella stolta
100Cede il secondo impero, e il trono avito;
O che ti piaccia con serena fronte
Visitar le cittadi, e i lieti campi,
Saturnio Giove, e dettar leggi, e l’alme
Ritornare a virtù con nuovi esempi,
105E di speme d’onor le generose
Avvivar de’ gran genj opre sublimi,
Arti, e scienze ristorando, ed armi;
Tu finalmente alla civil salute
Dal chiaro ordin de’ fati, e nell’estreme
110Della cadente etade infauste sorti
A noi concesso, e al declinato mondo,
Tu la diva tua mente a questo intendi
Poetico lavor, che in disadorni
Versi Pieria umil fra i campi, e l’onde
115De’ Cenomani tuoi medita, e parla.
Nè si sdegni la man che il freno or regge
Della terra soggetta, e nel tremendo
Pugno racchiude le mortali sorti
Trattar l’umile falce, e il sarchio adunco
120Nel preparato suolo, onde più lieta
Sorga la pianta dell’Inachia diva;
Che all’Ispano Filippo, ed al Francese
Dall’esule Toscan lodato Sire,

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Trovar facile un giorno adito, e grazia
125Di Flora il pio cultore, e del sonante
Adige il primo lodator del Riso.
Nè si sdegnaro allor che alla vincente
Roma tributi offria la conquistata
Dal romano poter libera terra,
130D’Italia i prodi maneggiar la marra,
E il duro aratro. Onesto era de’ campi
E lodato lo studio; e tal che salvi
I trepidanti avea lari, pugnando,
E i cittadini a libertà tornati,
135Sopra l’are di Giove, e di Quirino
Le ricche insegue, e i consolari fasci
E le verghe, e gli onor deposti, e il nome
Lieto rendeasi ai campi, onde lo tolse
Amor di gloria, e della patria il grido.
140Forse avverrà, se riposato albergo
Fia che mi accoglia, e poche al viver mio
Ore tranquille assentirà la Parca:
E finchè irrequieta e generosa
Fiamma, e di giovinezza ardir fa lieve
145All’impavido core ogn’alto incarco,
Ch’io le imprese dirò, le memorande
Pugne, e gli spirti in amistà congiunti
Dei discordi Fratelli, e la tiranna
Del mar tornata ai mal lasciati scogli,

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150Dove or credendo sue speranze ai venti
Sogna il servaggio della stanca terra.
     » L’amor che move il sole e l’altre stelle,
Com’a lui parve, nelle varie terre
Vario infuse poter, che le diverse
155Piante, e i semi diversi, e i dolci frutti
Crescesse all’Uom che della terra è donno.
Il due volte fecondo Egitto miri
Produr fertili spighe, alla guerriera
Un giorno Italia non esausta annona.
160Ne’ suoi boschi odorosi all’Indo nasce
L’animosa vainiglia, e il cinnamomo,
Amor di nobil mensa, e l’abbronzato
Minuto ardente seme i pingui armenti
Nato a servar più lungamente intatti.
165Tra le sterili selve, e la deserta
Sabbia il mistico Aleppo all’Ottomano
Reca il verde caffè, che l’arte indarno,
E cupidigia batava traspose
Nell’odiata Martinica. Disdegna
170La canna d’Ibla di Sicilia il pingue
Terreno, e sotto più benigni soli
Non culta alligna, e l’incorrotta palma
Suo frutto educa l’Africa. Vestite
De’ palmiti di Bacco alzan le fronti
175Somma, e Tokai, dove l’aratro indarno

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Si volgerebbe ne’ petrosi colli.
Tal pianta ama il terren lieve, tal altro
Seme gode nel forte, e tal nel secco
Di soave pendio, cui nudo sasso
180Sostegna, e la scorrevol onda tosto
Versata fugga le inclinate glebe.
Altro l’orezzo d’umida convalle
In che rado pervenga il solar raggio
Estivo, e la stagnante acqua mantegna
185Paludosa la terra, ama, e profonde
Nel molle limo le radici impiglia.
Che più! se fra le stesse aride mura
L’edera parassita i tralci implica
In mille modi, e i nudi tetti, e l’alte
190Colonne offron talora ai semi albergo!
Miracol parve sulle dure pietre
Verde fiorir la minutissim’erba:
Ma poichè la restia fisica aperse
L’occhio a mortali, Zeffìro palese
195Fece l’innocuo furto, e come aleggi
Sul calice de’ fiori depredando
Le polveri odorate, e la semente
Combattuta nell’aere alfin si posi
Sul fastigio de’ templi, e delle torri.
200Non presso alle sorgenti acque, nè presso
A la palude, ama il terren leggero 4

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Il casto ulivo, cui minuta ghiaja
Natura, od arte abbia commista. Il Tasso,
Il velivolo abete, e la robusta
205Erculea quercia, noderose e torte
Profonde nel terren metton radici.
Questi il ricco pedale un braccio appena
Sotterra avanza, ma si gira intorno
Con duttili vermene. A questo eleggi
210Ver mezzodì rivolto d’una dolce
Collina il dosso, a cui da tergo schiena
Alta di monti sia barriera incontro
Al rigido Aquilon, che i frutti, e i rami
Degli arbor crolla impetuoso, e rompe.
215Come nell’uman corpo erra, e nutrìca
I membri il sangue, e per le tonde vene,
E per le erranti arterie all’aere misto
Agilissimo scorre, onde fomenta
Coll’incostante suo moto la vita;
220Così ne’ tronchi, e nelle foglie è chiuso
Vegetabile umor succo gentile,
Che dall’imo si parte a le supreme
Frondi, e l’arbor di se nudrendo avviva
Da tutte parti; ed han le piante anch’esse
225Aditi, e valvolette, e filtri, e vene
Aere spiranti, e arcane fibre, e fini
Rigagnoletti che d’esterna offesa

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Hanno sentore, e morte irreparata
Le assal massimamente ove le aggiunga
230Il greve fiato che continuo move
Dal settentrional polo gelato.
D’ogni studio il primier, d’ogni argomento
Fia la scelta del loco, e della terra;
Nè il dilicato a palla arbor diletto
235Sede otterrà non degna e perigliosa
Ne le valli remote, in ardue vette
Di rio terren, cui borea signoreggia;
Ma ben dove perduto ogni suo primo
Impeto, rotto dagli avversi monti
240Mite si spazia negli ameni piani;
Altrimenti la dea Pallade a schifo
Il loco avendo, dal malposto ulivo
Si toglierebbe. Oltre al durar poc’ anni
Screpola il tronco, e tutta si distacca
245La scorza, e orrende piaghe, e brutte cave
Crearsi io vidi nelle afflitte piante.
Così se ignara man vaga di troppo
Guadagno il dilicato albero pose
Ver l’aperta Malsesine, e il sublime
250Selvoso Baldo, o v’è ripida monta
L’ alpestre Nizza, orrida peste io vidi
Dominar negli Ulivi, e qual raggrinza
La tuberosa scorza, e la dispoglia,

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Qual di nocchj va pieno, e di gran gobbe
255Tutto si sforma; altro di rami appena
La fronte adombra, e non maturo il frutto
Dalle povere frondi arido casca.
Tardi accorto del fallo, allor la spesa
Piagne fatica, e l’irrito lavoro
260Il contadin, che dispettoso e mesto
Sveglie l’arbor perduto, e fa la selva
Suonar de’ spessi colpi a se d’intorno.
Misero! intanto non rimane a lui
Di che la vulgar rapa, e il fragil porro
265Intrida a desco rusticale, e l’almo
Pesce, e l’erbe condisca, e del perduto
Olio il disagio risarcir gli è duopo
Di secche stoppie, e fragil canne, e faci
Che la selva ministra, allorché stretto
270Con sua famiglia le prodotte notti
Tempra del verno ne’ presepj, e canta.
     Come scelto abbi il loco adatto all’opra,
Ove la terra, e il ciel larga prometta
A tuoi sudor mercede, il terren cava
275Ad uguali distanze, e tal fra loro
Servin gli scavi aperti ordine, e legge,
Quale appunto distinta in partimenti
Bene istrutta coorte in giuste fila
Si devolve, e compon nei lati campi

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280Pria che l’ordine in un confonda, e turbi
L’animosa tenzone. In bipartita
Schiera, se il puoi, seguan le buche, aperte
Di quattro piedi al fondo, e cinque al sommo,
E profonde trè pie’, colla natura
285Del terren varïando opre e consiglio.
Come vuolsi lo scavo empir di smossa
Ottima zolla preparata e leve,
Onde agevole più trovino strada
Le nascenti radici, angusto il sito
290Esser non de’, che mal penètra il duro
E compatto terren che lo costringe,
E preme intorno, il piccol germe. Aperti
Lascia gli scavi un anno, affinchè il Sole
Ivi sua forza adopre, e l’aria, e l’acqua.
295Facile inganno a chi al venir non mira
Fu il piantar troppo folto, onde costretto
La mesta a diradar selva importuna
Con dispetto, e con danno a sveller tratto
Fu per forza il cultor de le dilette
300Piante i giovani fusti, e con gli spessi
Vuoti lungo le fila indur spiacente
Deformità. Picciol dal fosso emerge
Il fusticel, cui rapido sorvola
L’occhio, e ne par che discoperto e nudo
305Segga il terren, ma cresce il picciol fusto

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Rinvigorendo, e si fa tronco, e getta
Ricche di frondi noderose braccia.
Di rari che parean quindi i virgulti
Son fatti bosco d’increscevol’ombra;
310L’un co’ rami al vicin le frondi implica,
E vi si mesce, nè più il sol gl’investe
Fecondatore, il sol prima del mondo
Vita, e perenne animator del tutto.
Se ingannar non ti vuoi, se norma, e certo
315Ordin vagheggi tu nel por l’ulivo,
Ai coronati colli il guardo volgi
Della fertil riviera, ove coll’onda
Sorge il padre Benaco, e nell’ ampiezza
Dei flutti asconde la città sepolta.
320Non indarno fra l’altre al ciel più care,
E care all’uman seme amiche piagge
Questa si vanta, o che di frutti e fiori
Varia edûchi famiglia, e di ben posti
E forti ulivi s’inghirlandi, e l’arti
325Di Cerer tutte, e di Minerva accoglia.
D’amenissimi vini, e di salubri
Arancj fecondissimo, tu invano
Compari a questo mio fiorito nido
La Tessalica Tempe, e d’Alcinôo
330Gli orti, e d’Esperia le incantate glebe.
Qui l’agil aere, il cielo aperto, e l’onda.

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E il beato terren che a lei si abbraccia
La saturnia ricorda età perduta
A chi v’arriva; e tal di se vaghezza
335Destò nel core di gentil poeta 5
Che poiché dall’umil barchetta vide
La pellegrina Delo, e Rodi, e Cirra,
E la fertile Creta, a questo lido
Tornò votando il suo reduce legno
340Ai figlioli di Leda. Ivi colline,
E verdi cespi di ridenti rose,
E pure fonti, e grassi paschi ameno
Lago circonda, che il Tirren somiglia
Levando i flutti procelloso, e vince
345Di bellezza, e di calma ogni tranquillo
Stagno, se l’odorata aura vi scherza.
Ivi del por gli ulivi il modo è piano,
Più secura e spedita la ricolta,
E per le ben disposte alme pendici
350Gode Minerva rigirarsi, e vince
Ivi la speme de’ ricolti, il frutto.
     Ma sul nudo terren chi le sementi
Sparse, e frutto n’ottenne, che la spesa
Vaglia, e il lavoro, se gl’ingrassi obblia
355Preparando la terra? Riluttante
L’arido germe in arido terreno
Che di fredda crudezza a lui d’intorno

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Si serra e chiude, inutile vi torpe,
O vi cresce a rilento, e muorvi ancora.
360Alcun medicamento era bisogno
Quindi trovar perchè l’arcano foco
Della terra si schiuda, e si confetti
Con placido fermento. Al mondo ignaro
D’Opi la figlia e di Saturno apprese
365L’arte a mortali, nè schifò la diva
Sua mano in Creta ricercar nel lordo
Fimo la vita delle amate spighe,
E dell’arbor fruttifero, temprando
Del suol l’arsura, e fomentando il pigro
370Terrestre umore col tepor benigno
De’ trovati concimi. Il patrio seggio
Poiché invase Colui che il terzo regno
Confermò fra celesti, il tetro influsso
Sentì della superba ira di Giove
375La soggetta natura. Esule il padre
Degl’Iddii sulla terra andò cercando
Sotto spoglie mentite amica sede,
E l’ospital sua reggia al nume aperse
L’italo Giano. Dell’ignoto Dio
380Parvero tosto i segni, e si fe’ bella
Quell’aurea età di bei costumi, e strinse
Le discordi famiglie amor concorde.
Questi levando le mordaci cure

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Del perduto suo trono, a insegnar prese
385La cultura de’ campi. Ei primo al solco
Fidò la speme di ventura messe;
Primo il vario del sol corso, e gli aspetti
Della pallida Luna, e de le stelle
Narrò a mortali, e per che modo insigne
390Per le dita di rose in ciel fiammeggi
L’alba nascente, e rai tremuli ruote
» Lo bel pianeta che ad amar conforta. »
Qual de’ venti insegnò turbi, e contristi
L’aer sereno, e chi il torni tranquillo.
395Primo i campi divisi, e l’onda a questi
Dirivò dalle fonti, e di barriere
Li cinse, e fissi termini v’impose;
E sì conobber lor confini, e dritti
Le crescenti famiglie. Indi narrava
400Le arcane leggi di natura, e nome
Impose agli astri erranti, ed a pianeti
Del magno Olimpo, e ne additò gl’influssi.
Per le mani del Dio culte le piante
Lor selvaggio costume, e lor natura
405Dimenticâro, e di novelli pomi
Piegâr le fronde ponderose a terra,
Trovò gl’ingrassi che gli esausti sali 6
Risarciro al terreno, e delle piante
Al pedal ne commise, e il casto ulivo

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410Insegnato da lui crebbe più bello.
Non arte, o caso di mortal ventura
Del concime la forza, e gli usi apprese;
Ma sibbene del Dio furo gli eterni
Insegnamenti, e sua mente divina.
415Or qual più giovi degl’ingrassi a questo
Arbor dirò, se l’invocato Apollo
Della nobile fonte onda non nieghi
A tenui sensi, e d’alcun fiore avvolga
Vil soggetto che grazie abborre, e carmi,
420Più minuta spuntar vedi e più folta
L’erba ne’ prati, se bovino sterco
Mano vi mesce non avara, e strame
Serbato il verno ne le gravi stalle.
Scorrevol fatto per clementi piogge,
425O per le derivate onde dai fiumi,
Questo i meati rapido discorre
Soavemente, e la fradiccia gleba
Solve, e ricrea di nuovo umor la terra.
Ivi del vicin colle aman le ninfe
430Scendere al ballo, e le decenti grazie,
E la vergin di Cinto ivi sue tresche
Notturne, e i cori esercitando, alberga.
Spesso conforta il seminato in forte
Terren, la pula roteante, e l’ atra
435Fuligine combusta al terren lieve

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Giova, ed al freddo. Non minor guadagno
Ebbe chi le marcite utili foglie
Cadute il verno da fossati trae
Giunte al sedente limo, indi le ripe
440Ne ingombra, e il conseguente anno le sparge.
Ma null’ altro alimento e di più fresco
Succo fecondo rinvenir non seppi
Per l’albero gentil, che le tenaci
Erbose umide zolle, e la palustre
445Verdissim’ulva, e le recise piote
Ben marcite e scomposte. Il sarchio adopra
Tu per le siepi, e le acquidose fitte,
E ne’ floridi margini, e ne’ stagni
Che di sì ricche cose a noi benigna
450Fu la natura, ed ammontato il tutto
Al divisato campo lo riporta.
Quivi poiché la terra, e la stagione
Lo ti consente, a tuoi lavori attendi,
Né stanchezza ti prenda, od importuna
455Fretta nel rimondar de’ germi il suolo,
Onde l’umor che dell’amata pianta
Vuol essere alimento, inutil seme
Non si bea neghittoso. Ove l’oliastro
Spontaneo cresce, l’inegual terreno
460Di molt’erba si ammanta, e di radici
Non volute ne’ solchi; ivi sovverchio

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Nasce il rovo pontuto, e il ramerino,
L’umile scopa, e il fragile legume
De’ sonanti bacellii, increscîose
465Tutte, e tutte nemiche al gentil germe
Vane sementi, e mill’altre cui troppo
Lungo sarebbe annoverarle appunto.
Ma più d’ogni altra si dirama e parte
La distorta gramigna, e la silvestre
470Edera che alle piante si avviticchia,
E le frondi sublime impiglia e rode.
D’ogni studio il primier sia la cultura
Del campo, e lo sgombrar ben d’ogn’intorno
Di ciò che naturalmente vi alligna
475In odio al gentil seme, che abborrisce
Aver compagne ne’ suoi solchi altr’erbe.
     Già de’ guazzosi tempi il verno oscuro
Si arrende a miglior dì, che il sol procede
Per l’etereo cammino; Amor ripiglia
480Suo dolce imperio nelle cose, e tutto
Di sua forza gentil pieno si move.
L’invitto zappator l’arme riprende,
E ritrova il suo campo; i nesti han loco
E l’innocchiar degli alberi, e fra tutti
485L’esperto vignajuol suda al governo
De’ tuoi nobili tralci, o buon Lieo.
Non altri giorni accompagnâr cred’io

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La nascente natura, allorchè prima
Ebber moto le stelle, e per le selve
490Corser le agresti fere, e la rosata
Alba destò soave alito vergine
Di venticelli a rallegrar la terra.
Or che natura sì feconda ai fiati
Di genitabil aura animatrice,
495Tu, cui la casta uliva amor commise
Ed util grazîoso, all’opre attendi;
Destro il tempo ti arride. Il ferro stacchi
Bene affilato la barbata prole
Dal vecchio ceppo, onde formar la base
500Interrata che sia, del nuovo ulivo;
Ma non voler con importuni tagli
Ferir la pellicina onde si avvolge7
Il pianton primaticcio, ancor che il debba
Tutto mondar di sue brutture informi;
505Nè sian tocche le barbe, che per questi
Vasi il fecondator succo si bee.
Pria che l’abbia il terren vuolsi l’estremo
Capo della talea nel pecorino8
Sterco, o d’altro animale avvolger tutto,
510Od intriso simil, che all’accerchiante
Terra meglio l’unisca, e ve l’affermi.
La preparata fossa ov’hassi a porla
Di que’ fracidi ceppi indi si sparga

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Ed al fondo ne adatta: ivi composto
515Dirittamente il nocchio si collòchi
Soffice e lieve, e dell’ottima terra
Che serbata scavando hai l’anno prima
Empi la fossa, e il campo intorno adegua.
Di fresco nutrimento anco si loda
520Il pecorino sterco, o polveraccio
Non men dell’atra amurea, e de’ ritagli
Che limbellucci appellano i Toscani.
Ma più che il sito, e la ragion nol vole
Dênsi interrar profondi, acciò col forte
525Odor non dièno agli animali indizio,
Che afflitti dalla fame alla vernata
Si aggirano pe’ campi, e a un tratto fora
Distrutto ogni lavor da lepri, e volpi
Insidîose, e dai mal satollati
530Cani, che al contadin guardan la soglia.
Di terra il fusto non avanzi un palmo,
Nè, come stolto il vuol costume antico,
Tu premerai con mangani la terra,
Sicchè libero campo abbiano e loco
535Le nascenti radici. Inutil forse
A te non sembri che minute cose
Io noti, e studioso in picciol’arti
Troppo io mi affondi, che da queste appunto
Minute cose util non poco avrai.

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540Età si volse, e il mondo era fanciullo
Che la spontanea terra a primi figli
Offria non culta il vitto, e correan latte
I fiumi, e mel stillavano le querce;
Nè sotto il raggio si moria del Sole
545L’adusto mietitore, e chino a terra
Non dirompea la gleba arsiccia e dura;
Nè il robusto villan del cittadino
Era vil servo, e per balzelli e censi
Dal rapace ladron vedeasi torre
550Il caro armento, e i lagrimati buoi.
Ma come cesse il buon Saturno al figlio
L’imperio delle cose, al mondo usciro
La solerte fatica, e l’ingegnosa
Inopia, ed al timor giunta la speme;
555Nè patì che torpente codardia
Possedesse il suo regno. Anelo i fianchi
Lungo i solchi l’aratro immane adduca
Il Bue; con esso al verno, e all’imminente
Sole il cultor l’opre divida; ingrato
560Non sarà che risponda a sue costanti
Vigili cure il suol, che si feconda
Dalle umane fatiche. Intanto a lui,
Gran mercede, il terren di sua man culto
Dolci al bisogno, ed al piacer ministra
565Odorati licori, e pingui ariste.

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Ride negli orti suoi Pomona e Flora,
Ride Cerere e Bacco. A lui risorge
Di novelli piaceri apportatore
L’instabil’anno, e le dissidie, e i mali,
570E l’aspre cure de’ tiranni ride.
Ma dov’è dato omai sì lieti giorni
Trarre al cultor se tutt’arde e divampa
D’aspre liti, e d’error piena è la terra?
Nell’ausonico sen certo non fia,
575Dappoichè venne in servitù condotta
La bella Italia, e termine conobbe
Quell’alto imperio che dal ciel tenea.
I dolci campi suoi son fatti albergo
Di nemico furor, di genti strane,
580Che all’atterrito Eridano, ed a quanti
Suo beato terren rigano fiumi
Tinser l’onda di sangue. All’opre niuno
Di Cerer bada, che le braccia al pio
Lavor formate or trattan l’arme, e invade
585La già bionda ricolta il rio soldato,
E dai fertili paschi, e da le ville
Arse ne caccia il buon cultor, che afflitto
Il civil odio accusa, e i cittadini
In rie discordie avvolti, e il ciel di pianto
590E di gemiti assorda e di querele;
Campo non è cui non impingue umano

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Versato sangue di fratelli morti
O di spada civile, o di nemica:
E l’arme, e l’ossa dei guerrier ricuopre
595Poca terra deserta, in cui picchiando
Col grave aratro fia che le riveli
Meravigliando il contadin venturo
La stolta de’ suoi padri ira piangendo.
Ma non indarno avvien ch’io mi diparta
600Dal mio cammin, mostrando a Te le piaghe
Di questa bella e al ciel diletta Italia,
O Magnanimo Sire, e le ferite
Ad una ad una io mostri, e i lauti mali;
» Che non senza destino alle Tue braccia
605» Che scuoter forte e sollevar la ponno,
Or si commise Italia, e in Te riposa.


Note

  1. [p. 36 modifica]La tribù delle Acestoridi era in Argo, al dire di Callimaco, la prescelta a lavare il simulacro di Pallade nell’acque dell’Inaco.
  2. [p. 36 modifica]Nella divisione delle spoglie fra i greci capitani toccò in sorte a Diomede il Palladio, ch’esso con Ulisse avea tolto a’ Trojani, introducendosi in tempo di notte nella città, e nel tempio in che era custodito. Nel tornare alla patria fu per forza di tempeste cacciato in Italia, e per ammonizione dell’Oracolo, restituì quel fatal simulacro a Naute compagno d’Enea il quale seco il trasse a Lavinio, indi a Roma per diversi casi condotto, ivi fu custodito sino ai tempi dell’Imperator Commodo. Questo fatto si accenna da Virgilio nel secondo Libro dell’Eneide, e più distesamente si narra da Erodiano.
  3. [p. 36 modifica]Luigi Alamanni Fiorentino, fallita la congiura fatta in Firenze contro il Cardinale Giulio de’ Medici, poi Clemente VII, di cui facea esso [p. 37 modifica]parte, ricoverò in Francia presso Francesco I, a cui indirizzò la sua Coltivazione, e nella cui grazia altamente fiorì.
  4. [p. 37 modifica]Pier Vettori, e prima di lui parlò della qualità del terreno da scegliersi il Columella. Esso lo vuole conforme al sentimento di Catone, e di Virgilioterreno modice valido, sed succoso neque denso = ed altrove nel libro V si esprime = Deinde ingerendi minuti lapides vel glarea mixta pingui solo. = Quanto poi alla scelta del loco ove porsi l’olivo dice Palladio = neque imum locum neque arduum patitur mediis clivis delectatur.
  5. [p. 37 modifica]Phaselus ille quem videtis hospites ec. Catullo.
  6. [p. 37 modifica]Ricoverato dal Re Giano in Italia il vecchio Saturno, in mercede della accordata ospitalità insegnò, come tutti sanno, a que’ primi popoli la cultura dei campi. Che poi fosse il trovatore degli ingrassi lo attesta particolarmente Macrobio nel Primo Libro dei Saturnali. Hunc Romani etiam Sterculium vocant, quod prius Stercore faecunditatem agris comparaverit.
  7. [p. 37 modifica]Lo dice Catone. Cap. 40 = Cum praecides caveto ne librum convellas. Quanto alla piantagione de’ nocchj, o zocche, non avendo parlato de’ semenzai, fu raccolto l’ottimo [p. 38 modifica]dell’arte dal chiarissimo Signor Benedetto Del Bene Veronese in una politissima dissertazione stampata. Vedrà presto l’Italia la sua versione di Columella.
  8. [p. 38 modifica]Disse Catone = Fimoque bubulo summam taleam oblinito; e Columella = sed oportebit talearum capita, et irnas partes mixto fimo cum cinere oblinire, et ita totas eas immergeri, ut putris terrae quatuor digitis alta superveniat.