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LA BOTTEGA DEL CAFFÈ | 241 |
che voi mi fate, saprà farsi render ragione del vostro procedere e della mia dote.
Eugenio. Brava, signora, brava. Questo è il gran bene che mi volete, questa è la premura che avete di me e della mia riputazione.
Vittoria. Ho sempre sentito dire che crudeltà consuma amore. Ho tanto sofferto, ho tanto pianto: ma ora non posso più.
Eugenio. Finalmente che cosa1 vi ho fatto?
Vittoria. Tutta la notte al giuoco.
Eugenio. Chi vi ha detto che io abbia giuocato?
Vittoria. Me l’ha detto il signor don Marzio, e che avete perduto cento zecchini in contanti e trenta sulla parola.
Eugenio. Non gli credete, non è vero.
Vittoria. E poi, a’ divertimenti con la pellegrina.
Eugenio. Chi vi ha detto questo?
Vittoria. Il signor Don Marzio.
Eugenio. (Che tu sia maledetto!) (da sè) Credetemi, non è vero.
Vittoria. E di più impegnare la roba mia; prendermi un paio di orecchini, senza dirmi niente? Sono azioni da farsi ad una moglie amorosa, civile e onesta, come sono io?
Eugenio. Come avete saputo degli orecchini?
Vittoria. Me l’ha detto il signor don Marzio.
Eugenio. Ah lingua da tanaglie!
Vittoria. Già dice il signor don Marzio, e lo diranno tutti, che uno di questi giorni sarete rovinato del tutto; ed io, prima che; ciò succeda, voglio assicurarmi della mia dote.
Eugenio. Vittoria, se mi voleste bene, non parlereste così.
Vittoria. Vi voglio bene anche troppo, e se non vi avessi amato tanto, sarebbe stato meglio per me.
Eugenio. Volete andare da vostro padre?
Vittoria. Sì, certamente.
Eugenio. Non volete più star con me?
Vittoria. Vi starò, quando avrete messo2 giudizio.
Eugenio. Oh signora dottoressa, non mi stia ora a seccare. (alterato)