La Marfisa bizzarra/Canto VI
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CANTO SESTO.
ARGOMENTO.
Col suo guascon alla conversazione
giunge Marfísa, e per la concorrenza
di custode al sigillo uffizi espone
per Filinor con vezzi ed insistenza.
Angelin di Bellanda anche persone
ha, che chiedon per lui palle e assistenza.
Ardono i due partiti ed al cimento
si chiudono i votanti al parlamento.
1
Lettor mio, se tu sei qualche soldato,
amator degli antichi romanzieri,
il tardar di Marfísa avrai pensato
forse per arme o casi orrendi e fieri.
Se tu se’ ipocondriaco, immaginato
averai febbri, coliche e cristeri.
Se prete o frate all’antica e de’ buoni,
ritardi per rosari ed orazioni.
2
Se donna, acconciar nuovo di capelli,
disfKísizion di fiori con dottrina.
Dovresti dar nel segno piú di quelli;
ma pur non posso dir tu sia indovina.
Se ti ricordi i costumi novelli,
la bizzarria di quella cervellina,
dirai che la tratti en, piú ch’altra cosa,
qualche avventura fresca ed amorosa.
3
Quel Filinor di Guascogna nel core
l’era rimasto fitto e ribadito,
e la conversazion scacciata ha fuore
di quel buon uom Terigi, suo marito.
— V’andrò — diss’ella — ma senza furore; —
e fermo aveva e preso per partito
di non andarvi risolutamente
senza quel nuovo cavalier servente.
4
— Io m’annoio — dicea — fuor di misura
senza un uomo di spirito al mio fianco,
perocché Dio m’ha data una natura,
che il nero sa discernere dal bianco.
Io ho d’intorno una certa mistura
di cavalier, co’ quali io svengo, io manco,
con certi magri detti e certi sali,
che desterien gli effetti matricali.
5
Non c’è rimedio, caso o forma o via,
ch’io possa sofferir cotesti allocchi,
o sia ch’io non gí’intenda, o vero sia
che non intendan essi ciò ch’io tocchi.
Altro non c’è che la prudenza mia,
talor, che mi trattenga, e non trabocchi
e non gli mandi con le mostacciate
a intrattener le monache alle grate. —
6
Avea Marfisa una sua cameriera
molto fedele alle cose importanti,
che portava le lettere la sera,
dicendo il Miserere, a’ suoi galanti.
Ipalca ha nome, e talor si dispera,
perché i viaggi eran lunghi e pesanti.
A questa un vigliettin diede, e mandava
a Filinoro a dir che l’aspettava;
7
che non partia per la conversazione,
se non venia, che molto ad esso inclina.
Ipalca in testa a rovescio si pone
una sua cottardita, e via cammina.
Giunse assai tardi a casa Ganellone,
che va dicendo la Salve Regina,
e a tutti gli altarini che ha trovati,
due Credi ginocchioni ha recitati.
8
Giunta a Gano, dimanda il forestiere,
e il vigliettino gli metteva in mano.
— Per l’amor di Maria — dicea, — messere,
venite via, se siete buon cristiano. —
Filinor lesse ed ebbe un gran piacere,
e disse: — Io vengo; — e prima volle a Gano
la carta e l’avventura far palese,
per non disalvear dal Maganzese.
9
Ganellon traditor (che in suo segreto
era peggior del vaso di Pandora,
ed a’ scandali sempre andava dreto,
come la gatta al lardo ch’assapora)
Ruggero odiava, e avea posto divieto
a matrimoni di Mar fisa ancora.
Vide che in Filinoro gli ritorna
occasion da tirar fuor le corna.
10
E disse: — Figlio, questa illustre dama
sorella di Rugger, detta Marfisa,
vien maritata a un uom di poca fama,
a un gabelliere, a un marchese da risa.
L’avarizia «prudenza» oggi si chiama,
e maritaggi forma di tal guisa;
però se tu potessi farla tua,
opreresti de’ beni a un tratto dua.
11
Non dir ch’io t’abbia consigliato a questo;
ma corri giostra e tenta la fortuna.
Il fin di matrimonio è oggetto onesto;
rimorso io non mi sento in parte alcuna.
Nella tua concorrenza sia ben desto
ch’ella può tutto ed è molto opportuna:
però se memoriali a lei darai,
trenta pallotte certe conterai. —
12
Filinor, che c’è dato, non dimanda:
verso Marfisa con Ipalca trotta.
Ma tra l’andar dall’una all’altra banda,
e il pigolar per via della marmotta,
e il consigliar e il chieder: — Chi ti manda?
e mille brighe che accadon talotta;
tre ore eran di notte, e ancor non era
giunto il putto, e Marfisa si dispera.
13
Ruggero avea mandato sette volte,
e Bradamante, a dir ch’ella si mova.
Marfisa delle scuse addotte ha molte,
e finalmente scusa piú non trova.
Don Guottibuossi a far s’aveva tolte
quelle ambasciate, e ritorna e non cova.
Marfisa, irata, alfin disse: — Ser prete,
io v’ho, con chi vi manda, ove sapete.
14
Attendo un cavaliere di Guascogna;
la mia parola esser de’ mantenuta.
S’egli non vien, seccar non vi bisogna,
perocch’io sono in questo risoluta. —
Ecco Rugger, che chiede se ella sog^a,
che la quinta staffetta era venuta,
e disse: — Io non so piú cosa rispondere:
voi fareste un esercito confondere. —
15
Disse Marfisa in ironico modo,
con un dileggio e un strano risolino:
— Signor fratello, perdio che vi godo,
se voi pensate farmi il paladino.
Ite in malora; per me fitto ho il chiodo.
Vel dirò in greco, in volgare e in latino,
che porrò il piede fuor di questa soglia,
quando parrammi e quando n’avrò voglia. —
16
Dicea Ruggero: — O Dio, cara sorella,
voi volete far scene sempremai.
Sapete giá che una sposa novella
senza parenti al sposo non va mai.
Voi volete spezzar la campanella
anche a questo contratto, che accordai
con un’antipatia particolare,
siccome vi dovete ricordare. —
17
Marfisa disse: — Basta, non parliamo;
ciò che vidi a che vedo non s’accorda:
di grazia, a razzolare non andiamo;
non son, come credete, e cieca e sorda.
D’accordo solamente rimaniamo
ch’ir voglio e stare, e che non soffro corda,
e sola e accompagnata, ovunque io vada,
e, s’ho voglia, anche ignuda per la strada. —
18
Questi, sentendo il garbuglio toccato
del matrimonio e della trama il vero,
fece un atto d’un uomo disperato.
Volse le spalle e andossene leggero;
e a questo passo al lacchè, che ha mandato
l’ultima volta Terigi a Ruggero,
fuor di se stesso e in furia avea risposto:
— Ella verrá, se Dio l’avrá disposto. —
19
Con Bradamante radunate sono
parecchie dame ad aspettar la sposa.
Questo ritardo lor non parea buono:
ognuna prediceva qualche cosa;
e fanno un mormorare in semituono
ch’avrebbe screditata santa Rosa,
sempre commiserando tuttavia
Bradamante e Rugger che le sentia.
20
Era tanto stizzita Bradamante,
che mostra in viso e sulle labbra il fele.
Per quella via scorgeva esser infrante
del maritaggio l’ancore e le vele,
e pel ritardo si vedea davante
strugger miseramente le candele;
donde ha l’alma nel sen si combattuta,
che tira gli occhi solo e si sta muta.
21
Come a Dio piacque, Filinoro è giunto
con vestimenti molto corredati;
poiché Gan, che vedea le cose appunto,
fece che Baldovin glieli ha prestati.
Mai non si vide giovin meglio in punto
infra i moderni ricchi innamorati:
pareva il dio d’amor de’ piú puliti:
aggiungi la bellezza a’ suoi vestiti.
22
Il complimento, che a Marfisa fece,
d’una facondia è tal, d’un’eloquenza,
da vincer non un cor ma sette e diece.
Marfisa non è un’oca a tale scienza,
e con una bravura soddisfece
e con un tratto e con una presenza,
e fece una risposta d’una guisa...
ma che? basti a saper ch’era Marfisa.
23
Filinor le diceva quell’idea
di concorrer custode del sigillo.
— Io sono un cavaliere — le dicea —
in questi fatti timido e pupillo;
esule, posso dir, siccome Enea,
ma d’una nobiltá, permesso è il dillo,
che la casa Chiarmonte è una capanna,
alla mia a petto, e un casolar di canna.
24
Io son del gran casato di Vesuvio.
La mia modestia, so, troppo s’avanza;
ma vi potrei mostrar che pel diluvio,
siccome gli altri, non ebbe mancanza.
Ennio lodollo e l’esaltò Pacuvio.
Non uso tradizion, ché me n’avanza;
ma la ruota del mondo che s’aggira,
ier facea rider tal, ch’oggi sospira.
25
Voi giá vedete ognor, dama gentile
e spiritosa e senza pregiudizio,
che s’allontana alcuno dal badile,
e sale al trono ad un reale uffizio;
e talun ch’era al trono è fatto vile.
Né della sorte si può dar giudizio;
sapete come i pittor la dipingono:
che gira a tutti i soffi che la spingono. -
26
E detto questo, a Ipalca si volgea,
che un rotolo di carta in man portava
lungo sei braccia, ch’ei dato le avea
a tenere, e sul spazzo il sciorinava.
— Io non son menzogner, dama — dicea
Filinor a Marfisa, che guardava
l’albero suo, ch’ei distendendo gia,
e pareva un lenzuolo di Golia.
27
Veggendo in un cantone una bacchetta,
lesto la prende e comincia additare.
— Mirate, dama, il mio stipite in vetta —
diceva, e Adamo faceva osservare;
e va pur dietro alla sua linea retta
gran monarchi e regine a nominare.
Non era giunto a un quarto della carta;
Marfisa disse: — E’ convien pur ch’io parta.
28
Io sono persuasa, state certo,
della nobiltá vostra risplendente.
Non mancherò d’uffizi; il vostro merto
è tal che avanza ogni altro concorrente.
— Troppo n’avete, signora, sofferto —
disse, e raccolse l’alber prestamente:
poscia le diede memorial parecchi,
i quai cosí suonavano agli orecchi:
29
« A custodire il sigillo reale
concorre Filinoro, di Guascogna
suddito, e d’una nobiltá cotale,
che per la brevitá dir non bisogna.
Si prostra al parlamento liberale
nelle sventure sue senza vergogna,
e pe’ suoi merti e la famiglia vetera
attende tutti i voti. Grazia, eccetera ».
30
Qui furono attaccate le carrozze
per andar di Terigi alla magione;
e del veleno, chi n’ha, se lo ingozze:
Marfisa volle seco quel garzone.
Cercarono i cocchier le vie piú mozze
per giunger presto alla conversazione.
Tosto il marchese uno stafiere avvisa,
gridando: — È qui Marfisa, è qui Marfisa. —
31
Terigi è quasi fuor de’ sentimenti:
giú delle scale va precipitando.
Don Gualtieri comanda agli strumenti
che accettino Marfisa alto suonando;
ed un rumor, che fe’ tremare i venti,
feciono i suonatori a quel comando,
con una marcia di timpani e corni
ed obuè piú dotti de’ contorni.
32
I musici castrati e que’ da razza
incominciaron poi la serenata.
Turba non s’ud mai cotanto pazza,
di voce fastidiosa e sgangherata.
Matteo poeta è per tutto, e schiamazza
perché la poesia fosse lodata.
Pareva scritta dal fine al principio,
siccome l’orazion di sant’Alipio.
33
E cominciava: « O vergin, vergin bella,
estro e natura canora e sonora ».
Marco poeta a rider si smascella,
e critica ogni detto che vien fuora.
I paladini eran divisi a quella:
chi dice bene e chi la disonora.
Dodone ne traeva un suo piacere,
e va chiedendo a tutti il lor parere.
34
Ed a chi dicea bene, ei dicea male;
ed a chi dicea male, ei dicea bene.
Qualche argomento va facendo tale,
che i paladin gli voltavan le rene;
né del ben né del mal Dodon gioviale
potea trovar ragion come conviene,
ché i paladin faceano i ciarlatani
solo per parer dotti e partigiani.
35
Contro Dodone irati, imbestialiti,
vorrien sbranarlo vivo con le zampe.
Dodone alcuni versi avea finiti
pel maritaggio, e pronti per le stampe,
che correggean que’ vati fuorusciti.
I parigin non voglion che gli stampe,
e vanno minacciando i revisori,
ché, caschi il ciel, non gli lascino ir fuori.
36
Dodone aveva anch’esso dalla sua
alcuni paladin, ch’era giustizia.
Marco e Matteo va tenendo nel dua,
e ride sempre della lor malizia,
dicendo: — Io vo’ del bene a tuttidua,
e non intendo partir l’amicizia,
ma dir, fin che avrò fiato e sarò morto,
che nelle lor scritture hanno un gran torto.-
37
Terigi aveva fatto alla sua sposa
un complimento a memoria apparato.
Marfisa se gli mostra imperiosa,
e tira dritto e appena l’ha guardato.
Rimase come stolto a questa cosa,
e le va dietro assai mortificato,
ché non sapeva accordar nella mente
’la ragion del contegno per niente.
38
Non sa che la bizzarra avea previsto
che il nuovo oggetto spiacer gli dovea,
e però, come femmina, provisto
quella sostenutezza ch’io dicea
perché negl’intestin l’aveva visto
cotto e spolpato d’essa; onde scorgea
che il rimedio piú bel perch’ei stia muto,
era un contegno serio e pettoruto.
39
Senza riguardo alcun quella sleale
comincia a far uffizi pel guascone,
dicendo ch’era un uomo principale
e che se gli doveva far ragione;
e dona a ciascheduno un memoriale,
a que’ che sono alla conversazione:
ché c’eran de’ votanti al parlamento,
tra cavalieri e paladin, ben cento.
40
Non v’è donna bizzarra che non abbia
forza ne’ cuor degli uomini votanti.
Marfisa ne tenea nella sua gabbia
con certe grazie e lazzi non so quanti.
Non dimandar se Terigi s’arrabbia,
veggendo ch’essa cercava gli amanti
con scherzetti, lusinghe e sguardi ed atti
da far mille Caton diventar matti.
41
Ma sopra tutto gli dilania il core
il veder che gli uffizi son diretti
in pro d’un frasca, suo nuovo amadore,
che sembra giunto a fargli de’ dispetti.
Di padron divenuto è servitore,
perocché Filinor par si diletti
a voltargli le schiene e a dargli retta
come se fosse un birro od un trombetta.
42
Quand’egli ebbe sofferto un’ora buona
vezzi, lusinghe e gran stringer di mani
verso i votanti, e verso la persona
di Filinor sospiri oltramontani,
ad una gran tristezza s’abbandona.
Lascia la sposa in mezzo a’ lupi e a’ cani:
si pose in un soffá fuor della gente,
gonfio, ingrognato e stava sonnolente.
43
Bradamante, Rugger, don Guottibuossi
non è da dir se del caso hanno tedio;
ma stanno cheti, trasognati e goffi,
perocch’era impossibil il rimedio.
E molto amari ed aspri son gl’ingoffi
di quegli uffizi nuovi e dell’assedio
ad Angelino di Bellanda, solo
concorrente al sigillo e buon figliuolo.
44
Angelin di Bellanda è un cavaliere
privo d’un occhio in battaglia perduto;
monco ha il sinistro braccio, ed il brachiere
porta, delle fatiche per tributo.
Di Carlo avea servito alle bandiere
ne’ tempi andati, e gran sangue ha perduto.
Avea moglie e famiglia tanto grande,
che Turpin scrive: «E’ si vivea di ghiande».
45
Perocch’era Angelin povero in canna
e di poder n’aveva pochi al sole;
oltre di che, sopra quelli una manna
cadeva ogni anno di secche e gragnuole.
Angelin sofferente non s’affanna,
e dicea: — Dio può tutto e cosí vuole.
Dominus dedit, date ha le ricolte:
Dominus abstulit, Dio ce l’ha tolte. —
46
Aveva cinquant’anni di penuria
provata in guerra; e venuta la pace,
monco, rotto e monocol, nella curia
l’avea partita a un piato pertinace.
Pel cangiar de’ costumi la sua furia
Fortuna contro a quel, come a Dio piace,
cambia modo d’offesa ed arte e ingegno,
ma giammai d’un riposo egli fu degno.
47
Ora credea del sigillo l’incarco,
al quale è solo e non avea confronto,
potesse dargli, vivendo assai parco,
modo a’ suoi creditor di dare a sconto;
e un di, restando di debiti scarco,
di fare acquisti, o la dote a buon conto
per quattro figlie, che non vanno a messa
perché aveano la veste orrida e fessa.
48
Era in casa a Terigi quel meschino;
e sentendo del nuovo concorrente,
alzò una mano al cielo e il moncherino,
e disse: — O Cristo, o Cristo onnipossente!
Poffare il ciel sacrosanto e divino,
che m’abbia a intervenir quest’accidente! —
Orlando vide, che di lá passava,
e gridò: — Che di’ tu, conte di Brava? —
49
Orlando avea sentito quel maneggio,
e per la rabbia stralunava gli occhi,
perocch’era un uom giusto, e disse: — Io veggio,
caro Angelin, che il mal passa i ginocchi,
ed ogni giorno va di peggio in peggio
il mondo, e il buon costume a spicchi e a rocchi.
Non ho piú lingua omai, non ho piú fiato:
priego invan, grido invan; son disperato. —
50
Dicea quel di Bellanda: — Amico Orlando,
quest’occhio cieco, questo monco braccio,
quest’incurabil ernia raccomando,
e il mendicume, mio perpetuo laccio.
Se tu sapessi com’io vo passando
i giorni, e tu vedessi il mio primaccio,
le sedie, il desco e la cucina mia,
perdio! morresti di malinconia.
51
Legna non ho per cuocer le minestre:
son arsi le architravi e le cornici.
Quelle, ch’eran cortine alle finestre,
• son or camicie a’ miei figli infelici.
Coltrici, drappi e fino alle canestre
son ite al ghetto, pegno a quegli amici;
altro non ho che miserie ed affanni
e lo sperar che Dio mi tronchi gli anni. —
52
Mentre Angelin piangendo il capo gratta,
Orlando irato a sé chiama Ruggero,
e disse: — Tua sorella mi par matta:
che caso è questo e che nuovo pensiero?
chi è colui che di concorrer tratta
in competenza a questo cavaliero?
Tu doveresti saper ben la storia,
ma tu mi sembri fuor della memoria. —
53
Disse Rugger: — Per quel sacro battesimo
e’ hai sulla testa, non mi chieder questo.
Io non so piú che sia di me medesimo:
darei pugna, frugoni e calci al vento.
Se sia del paganesmo o cristianesimo
colui, noi so; vederlo vorrei spento:
io ardo, io scoppio; è matta mia sorella;
non ho piú capo, non ho piú cervella. —
54
Detto cosi, sbuffando come un toro,
volse le spalle e si trasse da un canto.
Marfisa seguitava il suo lavoro,
e porse un memoriale a Dodon santo.
Dodone il lesse, e disse: — Egli è un tesoro,
e sará ricopiato in un mio canto;
il voto mio però non conterete,
se foste assai piú bella che non siete. —
55
Quella bizzarra intorno a Dodon ciancia,
dicendo: — So che il piacer mi farai. —
Dandogli pizzicotti sulla guancia:
— Con te — dicea — stanotte mi sognai.
Tu sei cortese e paladin di Francia:
io so che il voto certo mi darai. —
Dodon ridendo disse a lei voltato:
— V’accorgerete s’io ve l’avrò dato.
56
— Basta cosí — rispondeva Marfisa, —
giá c’intendiamo, — e facea l’occhiolino;
e va a tentare un altro in nuova guisa,
ché certo ell’era il diavol tentennino.
Dodon sarebbe morto dalle risa;
ma gran compassione ha d’Angelino,
ed avea detto a quel: — Non piú mestizia,
che non è spenta affatto la giustizia. —
57
Giá la ricreazion giva languendo:
la goffa serenata era finita,
Terigi è ottuso e par che stia dormendo,
Bradamante a nascondersi era gita,
Rugger le labbra si stava mordendo,
mezza la gente del palagio è uscita,
e la moderna guerra con le carte
gran danno aveva fatto in ogni parte.
58
Un certo maganzese, Smeriglione,
piú d’ogni altro guerrier si fece onore.
Tagliando ad un gran desco al «faraone»,
disarmato ha ciascun col suo furore.
Sino a Marfisa, andata al paragone,
die’ colpi orrendi il crudo feritore;
in due minuti quella disperata
ha Smeriglion svenata e disertata.
59
Finito è il gioco, i danar son perduti;
e tutto il mal del prossimo s’è detto;
gli amor ciarlieri fatti e gli amor muti
s’eran: sicch’ogni cosa era in assetto
per dar la buona notte ed i saluti,
e per farsi la croce ed irsi a letto:
donde chi allegro e chi ingrognato andava
alla sua casa ed i lenzuol trovava.
60
Gan di Maganza quella stessa sera
er’ito a Carlo Magno rimbambito,
e a prò di Filinor d’una maniera
gli avea parlato che l’avea stordito;
perocché Gano è la sua primavera,
le sette trombe ed il prato fiorito.
Se gli avesse parlato san Matteo,
in confronto di Gano era un uom reo.
61
Pensa che il Maganzese non soggiorna:
a Namo avaro er’ito anche a parlare.
— Prometti il voto — dice, — e non s’aggiorna
che il tal util negozio ti fo fare. —
Picchia ad Avino, ad Avolio ritorna,
a Berlinghieri, a Otton torna a picchiare.
— O voi mi date il voto a parlamento
— diceva, — o ciaschedun farò scontento.
62
Que’ debitacci vostri, che a’ mercanti
prometteste pagar, defunto Namo,
li saprá vostro padre tutti quanti;
vi fo diseredar per quanto io v’amo.
Datemi il voto, e giuro a tutti i santi,
putti, non ci sará verun richiamo,
anzi a qualche bisogno in cortesia
forse farovvi alcuna piegeria. —
63
Ad alcuni prelati, che avean voto
nel parlamento, con arcani è addosso,
e fa nella politica il piloto
per far loro ottenere il cappel rosso.
— Grazie a Dio, nessun colpo a me fu vuoto —
aggiugne, — e quando voglio, tutto posso; —
ed in parole, come d’una rapa,
disponeva dell’animo del papa.
64
Ad Astolfo ha donate alcune mode
ch’eran venute fresche d’Inghilterra.
A Ulivier nelle femmine, che gode
secretamente, disse di, far guerra.
Gano cosí con inganni e con frode
va bucherando a’ signor per la terra,
e tutti per lo debile prendea,
tanto che ognuno il voto promettea.
65
Dodone, Orlando e Rinaldo, ch ’è giunto
da Montalban per questa concorrenza,
vanno con Angelin debile e spento,
facendolo star sempre in riverenza,
e fanno uffizi, e stanno forti al punto
del sigillo Angelin non resti senza,
dicendo: — Se qualcun gli niega il voto,
s’aspetti guerra e peste e terremoto. —
66
Da tutte parti gli uffizi infiammavano
per quello di Bellanda e pel guascone.
Ad Angelino i nemici accoccavano
che per le sue sventure era scempione,
e che i sigilli regi non si davano
a disadatte e stolide persone,
le quai pel cervel debile e confuso
potean far del sigillo qualche abuso.
67
Il sir di Montalbano la mattina
era eloquente e buon uffiziatore,
ma dopo il pranzo egli era una cantina
di vino, inutilaccio ed in furore.
Troglio la lingua volea far tonnina
di Filinor, di Carlo imperatore,
e sbranar Gano, e foco minacciava
al parlamento; e poi s’addormentava.
68
A Filinor si formava un processo
per lettere venute di Guascogna
Dicean ch’era vizioso e il vizio stesso,
un canchero, una peste ed una rogna;
che non si getta il sigillo in un cesso;
che darlo a un dissoluto non bisogna,
il quale, o per danari o per natura,
firmerebbe qualch’orrida scrittura.
69
Passano i giorni ed il maneggio cresce,
dall’una parte e dall’altra riscalda;
il merto col demerito si mesce.
Marfisa si mostrava molto calda.
Ipalca co’ viglietti or entra, or esce:
pensa che non istava un’ora salda,
tanto che, quando era giunta la notte,
maledicea i votanti e le pallotte.
70
Orlando molto si rammaricava
a trovar infinite negative.
Dodon rideva, e poi lo confortava
dicendo: — De’ sperar l’uom finché vive:
ci avvederemo al dispensar la fava;
d*un altro modo suoneran le pive.
Le lingue temon Gano traditore,
ma poi le fave spiegheranno il core. —
71
A Filinoro un caso assai faceto
iece in que’ giorni molto pregiudizio.
Tu sai, lettor, che ti narrai qui dreto
siccome a un oste avea dato l’uffizio
di notare in sul libro all’alfabeto
quanto egli avea consunto, e ad artifizio
il rozzon pegno e lo staffier malato
g^i aveva in sulle spese anche lasciato.
Dopo alcun tempo il servo era giá morto.
72
L’oste l’avea sostenuto nel male;
e pagato il dottor, non fece torto
all’opra del chirurgo e del speziale,
ed ebbe il poveruomo anche il conforto
di pagar sino a’ preti il funerale.
La rozza era scoppiata di stracchezza,
ond’egli avea la pelle e la cavezza.
73
Battuto il prezzo di queste due cose,
l’ostiere è creditor trecento lire.
Veggendo le promesse fabulose,
avea risolto a Parigi venire.
Filinor tanto bene non s’ascose,
che noi potesse l’ostier rinvenire.
Del pagamento il prega e lo riprega:
Filinor minaccioso glielo niega.
74
Quel meschinel, veggendo il conto perso,
richiamar in giudizio un giorno fallo;
ma Filinor gli piantava un converso
che gli dovesse pagar il cavallo.
La fama va per lungo e per traverso
di questo piato; ogni omiciatto sallo;
tanto che negli uffizi questo fatto
die’ quasi a Filinoro scaccomatto.
75
Seppelo Gano, e tosto quell’ostiere
fece con un esilio cacciar via.
Io so, ciascun la ragion vuol sapere
che Gano a Filinor si amico sia.
Scrive Turpin che il santo menzognere
col guascone una scritta fatta avia,
che se l’incarco del sigillo avea,
la metá poi dell’util gli dovea.
76
Non si denno le cose in questo mondo
sol nella superfizie giudicalle.
10 vidi un cacciator ir nei profondo
cacciando sforzanelle in una valle:
la superfizie il terren di buon fondo
gli dimostrò con erbe verdi e gialle;
misevi i piedi e sprofondossi poi,
si che il trassono a stento un paio di buoi.
77
Poco mancava al giorno stabilito
dal parlamento a tutta l’adunanza,
per dover porre il sigillo a partito.
Spazzata e in apparecchio è la gran stanza.
11 giorno innanzi Ganellone è gito
ad un convento detto l’Abbondanza,
dov’eran certi frati, che nel core
erano col vestito d’un colore.
78
Nel magnifico tempio eletti marmi
aveano e arredi di ricchezza immensa.
Dicea Gano: — Io vi prego a voler farmi
l’esposizione in sulla sacra mensa. —
Suoninsi le campane, ed inni e carmi
volino al ciel che a noi tutto dispensa.
Vo’ fare una sant’opra, e dal Sovrano
chiedo sia benedetta dalla mano.
79
Abbonderan le cere, e mie saranno:
finita la fonzion, vostre poi sono.
E piú: mille ducati pronti stanno:
questi alla vostra povertá li dono.
Pregate tutti Dio, dal qua! pur s’hanno
ad aspettar le grazie; ed il perdono
— dicea Gan — chiedo prima de’ peccati; —
e va baciando i scapolar de’ frati.
80
Que’ padri, dopo una lode sincera
alla pietá di Gano, pe’ contanti
e per la sacra oblazion della cera.
lo van benedicendo tutti quanti.
E dicon: — Tutto farem volentiera:
Dio ci esaudisca, Dio ci faccia santi. —
Poi chianian paratori e fornitori,
perché il di susseguente Iddio s’onori.
81
Duemila cento e sessantotto lumi
per quella esposizion furon disposti,
e velluti e dammaschi e tele a fiumi,
ed angeli dorati furon posti.
Vasi e bacini fuori de’ costumi,
d’argento e d’or ci sono, di gran costi.
Gridano le campane ogni momento:
— O turbe, o turi)e, al tempio, drente, drento. —
82
Ma sopra tutto cura ed attenzione
mettono i frati a far che per la chiesa
sien pronte sempre a quella divozione
borse a stan:4on, crollate alla distesa,
perché possa sfogar la pia intenzione
ogni buon’alma nel ben fare accesa,
e possa ognuno aver dinanzi un fondo
da seppellir le vanitá del mondo.
83
La fama è grande che il guascon facea
quella solennitá per le pallette,
sicché tutto Parigi concorrea:
portar si fa chi sentiva di gotte.
La folla è un mare, e la mente ponea
alle disposizion de’ lumi dotte,
al canto, al suono ed alla fornitura,
e dell’Eucaristia poco si cura.
84
Angelin di Bellanda, la mattina
del cimento fatai, per tempo assai
con la sua famigliuola si meschina
er’ito a certi frati pien di guai,
in una chiesa fuor di via, piccina,
dove le genti non andavan mai,
perch’era ignuda e sull ’aitar maggiore
due candeluzze sol facean splendore.
85
Organi non ci sono; oro o ricchezza
non si vedea; ma le pareti bianche;
tenuto il pavimento con nettezza,
e gli altari e le lampade e le panche;
ed un silenzio, una certa grandezza
splende, che si può dir che nulla manche
a compunger il core e a capir tosto
che il puro agnel divino è qui riposto.
86
Scosse Angelin della sua famigliuola
le tasche tutte, e in una carta ha messa
di quaranta soldon la somma sola,
ch’altro non puote; e con faccia dimessa
a’ fraticei diceva una parola:
che lor piacesse far dire una messa;
e ginocchion sul spazzo si mettea
nel tempo che la messa si dicea.
87
La mano intera aggiunge al moncherino,
e tenendo all’aitar le luci fisse,
ch’Illarion parea, non Angelino,
sospirando e piangendo cosí disse:
— Dio, nel mio sen col vostro occhio divino
tutto scorgete, e se per boria o risse
concorro a quest’incarco, o s’è infinita
necessitá di questa vostra vita.
88
Ogni male ho sofiferto estemo e interno,
ferite e storpi e sonno e fame e sete,
per servire al mio re, se ben discemo.
Giunto sono all’etá che mi vedete,
e storpi e fame ed ogni mal governo
son pronto a sofferir, se voi volete,
che dobbiam sostenere di concordia
la vostra sferza di misericordia.
89
Vedete tuttavia con qual periglio
le mie figlie innocenti in vita stanno,
e come i rei dimoni con l’artiglio
de’ moderni costumi intorno elle hanno.
Datemi, signor mio, forza e consiglio
da preservarle a voi da questo danno.
Queste, Signor, queste, Signore e Dio,
vi raccomando, e non l’incarco mio.
90
Certi mal costumati, e da letture
nuove corrotti, e dileggianti il cielo,
circondan queste mie colombe pure,
ch’io serbo a voi conformi all’Evangelo.
Dote non ho che di pianti e sciagure.
Signor, Signor, per questo caldo zelo,
e se adoprai per la fé’vostra il brando,
la famigliuola mia vi raccomando.
91
Io non volli gfiammai, com’è costume
oggi di chi ha figliuole e poca entrata,
aprir la porta e dar luogo ad un fiume
di gfiovanacci e gente scapestrata,
per far che per l’amore o il poco lume
talora alcuna si sia maritata:
volli questo novello uso lontano,
perché temei la vostra santa mano.
92
Se v’è in piacer che a Filinoro sia
dato il sigillo, io son di ciò contento:
chiedo sol modo a questa prole mia
di viver con fortezza nello stento.
O Vergin pura, o Vergine Maria,
conducete le man nel parlamento. —
Cosi diceva il signor di Bellanda,
dal pianto molle che dagli occhi manda.
93
Né sospir differenti a que* del vecchio
manda la famigliuola afflitta e mesta,
commossa dal sentirsi nell’orecchio
il suon di quella umil santa richiesta.
Finito il sacrifizio, in apparecchio
sono Orlando e Dodone e menan questa
brigatella, infelice nella sorte,
del parlamento alle superbe porte.
94
Qui posti in lunga fila da una parte,
marito e moglie e figliuoli e figliuole
fanno inchini al votante che si parte
per ire in sala, e non usan parole.
Dall’altra banda Filinor con arte
bacia faldoni e mai tacer non vuole,
e va pur ricordando quanto sia
d’antica stirpe e la genealogia.
95
Gano con sue parole assai stemmatiche,
facendo il vecchio stanco e cagionevole,
dice: — Qui son, ma pesanmi le natiche:
venni per questo putto meritevole.
Quando si tratta di cose tematiche,
ogni fatica dev’essere agevole.
Raccomando alla vostra pia natura
quest’uomo insigne, ch’è mia creatura. —
96
Con Ipalca Marfisa in un cantone,
coperta d’un zendale, è alla vedetta,
ed a’ votanti mette soggezione
col ventaglio e facendo la civetta.
Talor con leggiadrissima invenzione
apre il zendal, poi lo richiude in fretta.
Ad alcun paladin si mostra altera,
ad alcun sorridente e lusinghiera.
97
Entrati nella sala Carlo Mano,
prelati, paladini e cavalieri,
chiuse furon le porte a mano a mano.
Gli aspettator rimason co’ pensieri.
Lettor, l’avvenimento speri invano:
ch’io tei dica, per or non è mestieri;
deggionsi risparmiar de* fatti alquanti
per la materia de’ seguenti canti.
fine del canto sesto