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canto sesto 145

47
     Ora credea del sigillo l’incarco,
al quale è solo e non avea confronto,
potesse dargli, vivendo assai parco,
modo a’ suoi creditor di dare a sconto;
e un di, restando di debiti scarco,
di fare acquisti, o la dote a buon conto
per quattro figlie, che non vanno a messa
perché aveano la veste orrida e fessa.
48
     Era in casa a Terigi quel meschino;
e sentendo del nuovo concorrente,
alzò una mano al cielo e il moncherino,
e disse: — O Cristo, o Cristo onnipossente!
Poffare il ciel sacrosanto e divino,
che m’abbia a intervenir quest’accidente! —
Orlando vide, che di lá passava,
e gridò: — Che di’ tu, conte di Brava? —
49
     Orlando avea sentito quel maneggio,
e per la rabbia stralunava gli occhi,
perocch’era un uom giusto, e disse: — Io veggio,
caro Angelin, che il mal passa i ginocchi,
ed ogni giorno va di peggio in peggio
il mondo, e il buon costume a spicchi e a rocchi.
Non ho piú lingua ornai, non ho piú fiato:
priego invan, grido invan; son disperato. —
50
     Dicea quel di Bellanda: — Amico Orlando,
quest’occhio cieco, questo monco braccio,
quest’incurabil ernia raccomando,
e il mendicume, mio perpetuo laccio.
Se tu sapessi com’io vo passando
i giorni, e tu vedessi il mio primaccio,
le sedie, il desco e la cucina mia,
perdio! morresti di malinconia.