La Italia - Storia di due anni 1848-1849/Libro secondo
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LIBRO SECONDO
Ritratto fisionomico di re Carlo-Alberto. — Quadro analitico dei popoli per lui governati. — Mutamenti amministrativi nel Regno. — Conseguenze dei moti italiani nella Repubblica di San-Marino. — Rivoluzione nel principato di Monaco. — Florestano I. — Regolo del suo governo. — Effetti dell’assolutismo in Italia. — Subugli popolareschi in Livorno. — Il ministero Ridolfi. — Gli agitatori in mano del governo. — Napoli e Sicilia. — Ordini interni tristissimi. — Manifestazioni napoletane. — Il dodicesimo giorno del 48 in Palermo. — Sommossa nell’isola. — Tumulti nelle provincie continentali. — I tardi decreti del re rifiutati. — Lieti successi del popolo armato in Sicilia. — Monsignor Cocle e il ministro Del Carretto. — Loro esiglio dal Regno. — Il 29 gennaio. — Ferdinando II. — Sua educazione, suoi istinti. — A guasta corte, corrotta società. — Esercito agguerrito. — Il primo Ministero Costituzionale. — Riflessioni su tai mutamenti rispetto alla Italia.
Perchè la narrazione degli eventi proceda interamente chiara di cosa in cosa, fa d’uopo ch’io qui l’arresti per parlare a lungo d’un uomo che tanta speranza pur dava alle liete sorti della misera Italia. Così, dinanzi il pensiero balenerà la causa pria dell’effetto. Presenterò in complesso il principe, le sue riforme, le doppie intenzioni nel volere il pubblico bene, le incerte tendenze, lo imperar senza legamento, a seconda dei casi e delle civili condizioni de’ proprii soggetti, l’unico e permanente consiglio suo. Non v’è cuore italiano che in due epoche fortunose non abbia battuto più rapido al nuncio di tanto nome! Non v’è labbro, nè penna che per due volte, sentenziando sulle apparenze, non abbia ingigantito la fiducia e i sospetti, i rancori e le simpatie che in lui si adunavano! Soverchiamente grande fu la impresa abbracciata, diffuse le volontà, scarsa la prudenza, mutabili i propositi. Volemmo ed osammo troppo. E la colpa, di tutti!
Carlo-Alberto, nato della famiglia di Savoia-Carignano, saliva al trono nel 1834 — anno di fatali minacce alle corone dei despoti! — succedendo a re Carlo-Felice, morto ultimo principe del ramo primogenito della casa Sabauda. La politica bufera che nello scorcio del passato secolo gl’inveterati ordini Europei scardinò, travolgendo e popoli e reggitori in un abisso d’invasioni, di sanguinose sciagure e d’idee affatto nuove, lui colpiva ancora fanciullo e co’ genitori balzavalo in Francia, ove con cura veniva educato nelle libere e militari discipline. Ed egli di.queste per siffatto modo invaghivasi che, rabbonacciate le cose e tornato in patria principe ereditario del suo cugino, molto si piacque della compagnia de’ generosi sollecitatori del pubblico bene, i quali nutrivano sentimenti di nazionale indipendenza, e di quei che ne’ napoleonici cimenti avevano sostenuto l’onore delle armi Italiane. La cecità dei ristorati governi, spingendo dopo non molto Spagna e Napoli alla rivolta, mosse eziandio le elette classi del paese Subalpino ad imitarla; queste chiedevano patto costituzionale con leggi adattate agli nomini ed ai tempi; e, niegandovisi il re, toglievano a loro capo il principe allóra ventitreenne. Il quale, fiducioso nelle parole bollenti di quegl’inesperti, che stimavamo lo esercito ed il popolo profili a seguirli, se contrastati, sui campi delle libere battaglie e non mirando che alla magnanima impresa del riscatto d’Italia, cedette all’altrui entusiasmo ed al proprio. Ma, deluso indi a poco nelle sue aspettative e punto dal rimorso per la ingratitudine mostrata a que’del suo nome, rinunciò all’ardua missione e s’ebbe titolo brutto di traditore. Il fatto è ch’egli sdegnò l’aureola del martire e una nobile caduta per placare lo sdegno dei gabinetti assoluti di Europa che il volevano ritolto dalla successione al trono di Sardegna; e per me’ ingrazionirseli, mosse alla volta di Spagna, ove, soldato volontario nelle schiere francesi, combatteva da valoroso contro que’ Costituzionali che nell’animo suo eran pur complici della idea per lui tuttor careggiata. A qualche fedele, cui negli ultimi tempi narrava quel triste episodio deila sua giovanezza, diceva:
«In tal circostanza io sacrificai me stesso, i miei principii, persino la mia riputazione, alla fortuna del Piemonte e della Patria. Se non fossi stato co’ granatieri di Francia nel Trocadero — ciò che gl’ignari mi han rinfacciato si spesso — le potenze collegate del Nord avrebbero dato a successore di re Carlo-Felice l’austriaco Francesco IV, di Modena, come colui che si aveva a consorte la figliuola di Vittorio-Emanuele. Ed allora, quale l’avvenire della nostra nazionalità nella penisola già tutta tedesca?.»
Iddio che legge nel profondo delle anime può sol giudicare la misteriosa condotta dell’esule battagliero. Certo, i dolori su cui per anni molti ei vegliò e il magnanimo tentativo che imprese con tutta consapevolezza di sacrificio, debbono ne’ petti italiani acquétte la memoria dell’antica offesa!
Alto ed avvenente della persona, gentil cavaliero, nella spensieratezza delle corti trovò compiacimento in quelle labili felicità che la tarda esperienza rammenta solo con un freddo sorrisò, ocon acuto rammarico. Amator passionato del bello, spese in opere d’arte il feuo patrimonio. E venuto il tempo in cui un principe debbe darsi a vita più riflettuta e tranquilla, menava in moglie Maria-Teresa, di Toscana, buona, pia, caritatevole donna che a lui dava contentamento di forte prole.
Divenuto re e rivestito l’abito dell’uomo nuovo, davasi a severi studi, a pratiche di religiosa pietà. Promulgò leggi di civile sapienza; favorì le industrie; dilatò i commerci; promosse ospizi di cristiana carità; i rei in nuove carceri volle educati più che puniti; abolì e riscattòi feudi nell’isola di Sardegna; protesse di proprio le arti, le scienze, le lettere; incoraggiò i congressi dello scibile italiano e gli agrarii del suo paese aiutò; abbellì di monumenti ed ampliò la capitale del regno, e quella e questo volle fossero eguali in pregio agli altri Stati d’Italia. Riordinò lo esercito, non però come avrebbe dovuto fare per averlo forte, istrutto, disciplinato; pose economia nèlle finanze; e governò or con giustizia, or con asprezza i popoli al suo poter sottomessi.
La operosità richiesta da tante e sì svariate cure gli fece cangio il carattere o, di brioso che era, si palesò solitario, melanconico, riserbato ed austero. Gli abitanti in Torino, in Genova, in Ciamberì più nol vedevano che assistente alle militari manovre, e i privilegiati, nelle rare feste di corte, ove campeggiava tutto il lusso e l’altera ritenutezza del ceremoniale spagnuolo. Vivuto in due epoche diametralmente opposte fra loro, due persone erano in lui, il patriota ed il principe. Di là le fluttuazioni continove tra il bene ed il male; l’aspirazione e il rigore verso le cittadine virtù; il rispetto pel vero e la deferenza agli scaltri consigli degl’ipocriti di Loyola; la semplicità de’ modi e l’albagia aristocratica; l’ascetismo il più spinto e un amor prepotente durato sino alla tomba — licore soave ch’ei bevve, non già in una coppa, sibbene in un calice di tutte amarezze. Laonde, può dirsi ch’ei si fosse l’uom delle antitesi. Di fatto, nel palagio dei re Sabaudi da lui rinnovato col maggiore fastigio, aveva per sè composta una cameruccia modesta al pari di quella di un cenobita. — Nel lusso de’ regali banchetti splendidamente apparecchiati, cibavasi ogni dì di riso e di patate. — Riprodusse sovente i giuochi cavallereschi del medio-evo, in cui i gentiluomini piemontesi scendevano nella lizza vestiti siccome ai forti tempi del Principe-Verde, e la sera successiva a’ tornei accoglieva amabilmente nelle aule cortigianesche il ceto mezzano del popolo torinese. — Culto, erudito, ameno parlatore, non potè mai rischiarsi a dir pubbliche parole, e circondossi continuo di gente nulla, boriosa, che degli studi non faceva sua prima cura. — Impavido in faccia a’ perìcoli, sfidava bravamente il contagio colerico in Genova e in Racconigi, affrontava le falangi nemiche colla serenità di un antico guerriero a Pastrengo, a Coito, a Novara, presentavasi con calma rassegnata innanzi al furor popolare in Milano, e poi tremava come un pusillo alla lettura di un foglio che desse ingiurie e vituperi al suo nome, — Ascritto qual socio a confraternite di cattolica pietà, praticando i precetti romani col rigore di un anacoreta, firmava con risolutezza e collo spirito forte di un volteriano lo editto per cui si espellevano dal regno gl’Ignaziani d’ambedue i sessi. — Con savi provvedimenti fe’ prosperose le fatiche dei commercianti; e gli Ebrei che sono il tipo di questi, brutalmente restrinse ne’ più miseri e insalubri quartieri delle città che abitavano, quasi che coll’ignorante plebe si associasse nel dispettare in essi la nobile e vanamente combattuta costanza nella loro fede religiosa e gli tenesse in conto di correi nella crocefissione del Cristo. — Morale per professati principii, pur mantenne nello Stato il giuoco del lotto e permise quelli di azzardo in Savoia, invenzioni avare e fraudolenti che carpivano, l’una ai poveri bramosi, l’altra a’ ricchi scioperati il senso intimo ed istintivo dell’onesto vivere. — Tenerissimo di viaggi, e percorsa nella sua gioventù quasi tutta l’Europa — d’onde trasse quella dovizia di cognizioni che il facea chiaro tra i re — impediva a’ suoi figli il muovere fuor del confine del regno, il che gli avrebbe fortificati nella conoscenza degli uomini e delle cose. — Pagò col suo privato tesoro pensioni a parecchi emigrati — tra gli altri al Botta — e cacciava in bando sin negli ultimi tempi alcuni scrittori, i quali avean pubblicato egregi volumi a seconda delle sue idee. — Costituzionale nel 21, combatteva in Ispagna i fratelli della sua fede politica. — Liberale e democratico nel 48, s’ebbe al suo fianco sui campi di Lombardia i figliuoli di Don Carlos, campioni viventi del dispotismo il più cieco. — Faceva invadere dai suoi CARLO ALBERTO A NOVARA
armati il ducato di Parma e Piacenza, ed accoglieva nel proprio palazto le principesse che vi aveva detronizzato. — Propugnatore della legittimità e del diritto divino nelle famiglie di Borbone e di Braganza, favoreggiava i diritti del popolo in Italia. — Affidando alle sue schiere l’onore del tricolore vessillo, arricchiva il blasone della sua stirpe di nuova impresa e divisa. — In un solo atto volle palesarsi fermo, siccome quello che riassumeva i pensieri e le speranze di tutti i principi della gagliarda razza Sabauda, e ch’egli medesimo avea vagheggiato fin dalla prima sua gioventù; lo emancipare, cioè la Italia dal giogo dello straniero, ed — ove possibil fosse — costituirla in una grande nazione monarchico-costituzionale a lui devota e alla sua dinastia. Ed egli ruppe per ben due volte la guerra contro lo Austriaco invasore, malgrado il contrario avviso de’suoi cortigiani e della straniera diplomazia.
Ora dirò lo stato delle provincie che a re Carlo-Alberto ubbidivano. Le eran queste formate di elementi eterogenei che le Alpi, gli Appennini, il mare e — più che tutt’altro — una fredda e compassata politica dividevano e particolarizzavano. Quindi svariate le fisonomie dei quattro popoli, i quali retti isolatamente da un solo, a vicenda si disprezzavano tra loro.
Il Savoiardo, abitando le regioni montane, non obbliava la origine dei suoi re e gli sforzi per lui fatti onde ampliar loro il dominio sull’adiacente pianura. Superbo della propria storia di otto secoli, i favori che a lui s’impartivano teneva a pegno di debita conoscenza pe’prestati servigi. Vicino ai confini di due libere nazioni, parlandone la lingua e praticandone gli usi, nella comune servitù preoccupa vasi delle novità forestiere, il che non gli veniva imputato a delitto. Intrepido soldato, sentiva talvolta vergogna dello stato suo; pure sapea consolarsene brandendo la sua vecchia spada, monda di colpe, di gloria ricchissima.
D’indole soprammodo tranquilla e disciplinata, il Piemontese palesavasi come colui che teme e spera. La immortale scintilla dell’amor patrio che Dio pose in ogni uomo, ei non la spegneva nel fango, sibben la circonscriveva in una siepe di erroneo municipalismo. E quando in tutta la Penisola, per un empito di febbre convulsa s’italianò il principio santo della nostra nazionalità, a lui parve di trasognare, si poco gli era stato educato a cotanto sublime idea.
Il Ligure si aveva un tutt’altro carattere. Da una sola generazione e per forza di straniero trattato unito al Piemonte, fiero per non lontane memorie d’inorpellata popolar libertà, operosissimo ne’ commerci, oculato guardiano de’ proprii possedimenti, non provava omogeneità per gli abitatori delle altre province e per quegli che tutti reggeva; e se la severità quasi ostile del suo contegno facealo temuto, il molto oro versato nelle casse del pubblico erario procacciavagli dal governo prove distinte di una certa tal qual deferenza.
Lo insulare della Sardegna, guidato per secoli da una legislazione, di cui i feudali diritti e le chiesastiche immunità eran la base, per rispetto ad antiche consuetudini lasciato quasi in balia di sè stesso, insanguinavasi in parziali, atroci vendette contro l’avara ingordigia e gli arditi soprusi de’ tiramielli dell’isola, e languiva neghittoso e selvaggio in mezzo alla pingue ubertosità de’suoi campi, a lato dei cresciuti bisogni pubblici per l’avanzata civiltà. II prete, il frate, tutto par lui, i quali per loro perfide e ambiziose mire il volevano ad ogni costo ignorante e brutale; onde i conventi, gli attinenti giardini, le chiese e le case dai parrochi erano sicuro, inviolabile asilo al delitto, favorato e protetto da religiose superstizioni.
E per colmo di mali, sulle quattro diverse autonomie su accennate una classe prepotente si ergeva, devota alla corte per accordati privilegi, arrogante verso gl’inferiori a sè per la disparità dei goduti diritti, la quale siffattamente influiva sull’animo del re a padroneggiarne in tempi difficili e decisivi il pensiero, l’azióne e la facoltà di eseguirli.
Un impero congegnato in tal guisa, doveva, per la ragione stessa delle cose, poggiar sempre sul falso. Cauto e celato, violento ed insidioso, non calcolando che la propria conservazione, procedeva alla pubblica quiete con misure alquanto aspre a paragon delle offese. Consigliato da una società d’uomini, che si considerano cadaveri nelle mani de’ lor superiori, lasciava impunite le licenze del clero e ampiamente autorizzava la loro teocratica potestà. L’azione del governo era molta e a suo modo; la parola scarsa ed altera, le maniere or dure, or diffidenti, di continovo disprezzo; senza por mente agli uomini ed ai tempi cangiati.
Gli è che Carlo Alberto — temendo da una parte l’Austria, ognora sua individuale inimica e sempre più odiata, dall’altra i popoli, non mai dimentichi del passato ed educantisi al presentimento dello avvenire — aveva affidato le sortì delle principali città dello Stato ad uomini avvezzi in Russia al rigor del bastone, al comando assolato, al sacrificio di tutto e di tutti alle smanie de’ proprii capricci. Cotesta gente soleva soffocare i lamenti col bando, i sospiri col carcere, i patimenti collo scherno, la dignità degli atti colle angherie le più raffinate. Stretti a' gesuiti — spie attivissime, non apparenti, capaci di ogni artifizio per corrompere, o scrutinare la mente ed il cuore — siccom'essi atei, materialisti bigotti in un tempo, imponevano lo esercizio cattolico agl'impiegati e a'loro soggetti al pari che Io esatto pagamento delle gabelle e de' dazi governativi. Carnefici della civiltà, credevansi di tal forza da rendere immobile il progresso de’ tempi, da far cheto in perpetuo il pensiero, da infrenare le lingue; e ciò per serbare a sè stessi la voluttà dello imperio, il pingue stipendio, il regio favore basato sulla paura. E scrivevano al principe privati messaggi in cui se gli dipingeva il paese sedente sopra un vulcano pronto a scoppiare; molti i rivoluzionari e gli audaci; troppi gli scritti permessi dalla,censura, innocenti nelle apparenze, tristissimi nello scopo celato; diffidasse de' letterati, de' filosofi, de' dotti e in ogni uomo vedesse un fellone, un settario, un malvagio.
L’arco fu teso or per regio consentimento, ora no. Sol quando la corda minacciò di spezzarsi, e si vide la monarchia scalzata quasi nelle fondamenta dai peccati di quella falange di tristi, si pensò rimuoverla dagli alti ufficii e, per tema di sparire con essa, stimavasi opera prudente il cancellarne ogni traccia.
Molte cose — non tutte — venivano corrette da seggo e provvidenziali Riforme, il cui importantissimo effetto fu la unione tra il principe e i popoli; tra i Savoiardi, i Piemontesi, i Liguri e i Sardi infra loro; tra le classi della società, almeno nelle apparenze; tra le opinioni in pria variamente sentite. Imperciocché, fin dal novembre del 47, poi che Pio IX s’infìnse l'uom di Dio e dà popoli, Carlo Alberto sanzionava un codice di procedura penale, ammettendo la pubblicità dei dibattimenti, ed aboliva parecchie giurisdizioni eccezionali, creando un Magistrato di cassazione, dichiarato prima magistratura del Regno dopo il consiglio di Stato. Determinava le attribuzioni della polizia, indicando il modo con cui la debba procedere, allorché s’abbiano a sciogliere gli assembramenti di popolo, pericolosi all’ordine ed alla tranquillità del paese. Riformava l’amministrazione comunale e provinciale. Stabiliva che i registri dello stato civile fossero tenuti dall’autorità municipale indipendentemente da quelli che, per riguardo religioso, sarebbero stati redatti dai parrochi. Provvedeva alla libertà della stampa e delle discussioni d’interesse generale. Concedeva che i consigli e i congressi di circondario eleggessero i loro presidenti; e decretando che i consiglieri di Stato straordinarii portati al numero di due per ogni circondario — sarebbero da lui prescelti fra i membri dei congressi, prometteva che quindi innanzi questi verrebbero convocati una volta almeno in ciascun anno in una dieta generale. Aboliva finalmente ogni distinzione di classe nelle amministrazioni governative, fondeva gl'interessi dell’isola di Sardegna con quelli degli Stati continentali, e chiamava le provile enti morali diretti dai rispettivi consigli, in qualità di corpi permanenti e deliberanti.
Se le Riforme dispiacquero ai vecchi nobili esautorati dalle prische franchezze dei mezzi tempi — gente noiosa e ridicola tanto in livrea di corte che in militare divisa — furono acclamate a cielo da ognuno e fecero volgere gli occhi di tutti gl'italiani verso il Piemonte; la cui dinastia, fattasi nostrana per nove secoli di dominio tranquillo, virile e morale, poneva nella bilancia delle patrie speranze la spada, siccome la gentile Toscana vi aveva offerto la cultura nelle arti e l’alma Roma la parola moderatrice e la memoria de'grandi fatti.
La nostra penisola — paese delle maraviglie e museo di tutte vecchie rimembranze — serbava a' dì nostri illeso sur un monte l’antico delubro delle libertà comunali e sur uno scoglio del Mediterraneo mostrava un castello in ruine, ove pur si annidava fa tirannia la più cieca. — E la repubblica di San Marino, che già da due anni aveva commesso al senno del giureconsulto napoletano, P. Stanislao Mancini, un nuovo codice legislativo e dalle alte vette del Titano osservava il pacifico nostro avviamento verso le civili franchigie, tentò anch'essa modificare la sua inveterata costituzione collo stabilire una Camera di deputati eletti dal popolo per un tempo determinato ed annullare quel corpo di funzionari; i quali sedenti a vita nominavansi di per sè stessi. — E i sei mila abitanti nel principato di Monaco, stanchi di ’più alimentare in Parigi l’altezza serenissima di Florestano I de’ Grimaldi con 320,000 franchi d’imposte a loro carico, si sollevarono, esprimendo il voto unanime di voler leggi ed istituzioni in vigore negli Stati Sardi. In miglior luogo dirò della loro unione ai popoli del Piemonte. Qui fa d’uopo accennare il loro lungo martirio che ha capo dal giorno, in cui — sedente in Parigi il congresso della santa-alleanza — piacque al signor di Talleyrand scrivere il seguente epigramma io fondo d’una pagina del Trattato:
«Et le Prince de Monaco rentrera dans ses États.»
I rappresentanti delle grandi potenze risero di quella strana ristorazione; i nostri confratelli di patria ne piansero a calde lacrime; imperciocchè ognuno di essi dovette pagare mediante esagerate tasse la somma annuale di cinquanta franchi ad un uomo che gli spendeva alla distanza di dugencinquanta leghe nella terra straniera. Questi istituì a suo ministro un tale Chappon, di nazione francese, ch’entrò povero in Mentone e ne esciva ricchissimo d’oro e di maladizioni. Innumerevoli i balzelli, odiosi e persino ridicoli. Basti il dire che il panattiere dei sudditi era il principe; e perciò a suo conto si comperavano per forza, a vil prezzo tutte le granaglie dello Stato, si macinavano le cattive, si vendevano all’estero le buone, se ne introducevano di qualità malsana che avevano sofferto avaria, e perciò proscritte di Genova e di Marsiglia dalla pulizia municipale, e di queste fabbricava pane obbligatorio pel pubblico. Ciascun rivendugliolo della derrata principesca doveva avere in un registro la quantità di pane consumata in ogni settimana dalle famiglie, e in margine il numero delle persone che le componevano. Al rapporto succedevano i processi, le ammende, le confische, la carcere, perchè si supponeva che la famiglia che mangiasse minor pane del solito, frodasse alla legge. E affinchè nessuno potesse esimersi dal dazio sulle carni, dal Grimaldi veniva instituito uno stato civile de’ bestiami, in cui si notavano le nascite, il sesso e le morti accidentali degli erbivori, con verificazione del veterinario di corte quando avvenissero. Gli atti di nascita e di morte erano rilasciati dal ricevitor generale sur un foglio bollato del costo di venticinque centesimi. L’avaro principe giunse persino a metter la mano sul prodotto delle limosine date in chiesa pei poveri e per le spese di mantenimento del culto.
Il congresso de’ santi-alleati sentenziò la partizione della Italia per politici rancori, per commiserazione verso le spossedute famiglie, per raggiro di corti, per brutta necessità di dettato. Gli abitanti delle sue province furono considerati mandre e non uomini; e se qualche diritto venne loro impartito, ciò apparve dono di regale clemenza. Ma i cosi detti doni solennemente giurati non vennero mai posti in pratica dagl'interessati principi; i quali, esautorandone i loro soggetti, gli dissero non anche maturi a migliori destini. Per la opposta parte, i chiari uomini di quei tempi e i generosi, culti della mente e del cuore che lor succedettero, nelle politiche sette, ne’ rivolgimenti più o meno felici protestarono continuo contro la dura sentenza. E nel vero; la società italiana, schiarata in sullo scorcio del passato secolo da un fuggevole lampo di libertà, riscossa dal genio de’ suoi riformatori, abituata quindi da Napoleone a governo dispotico ma civile, sentiva il bisogno della continuazione di un tal reggimento, il quale avrebbe gradatamente addottrinata la coscienza del popolo e in lui disciplinate le libere volontà.
Non si mutano gli Stati a miracolo; e le fantasie della prepotenza, poi che dome, sbrigliano potentemente le fantasie individuali che agiscono sullo intelletto cieco del popolo ove si faccia balenare a’ suoi occhi il prestigio delle cittadine virtù, lo scrollamento di qualsiasi giogo e la difesa della libertà per cui la vita è cara. Ond’è che la mancanza dei su annunciati provvedimenti persuase nei primordi dell’anno in un punto della Penisola le fomentate moltitudini a sdimenticare il principio tranquillo, unificatore della nostra politica rinascenza. Intanto che le opinioni, gl’interessi, e le forze tutte si concentravano in uno scopo solo, quello della nazionalità, e il sentimento della ragione alimentavasi dai buoni nel cuore degl’ignari, parecchi che in quell’opera fraterna non avevano voluto togliere alcuna parte, fastiditi nel vedere amicate l’autorità e l’obbedienza, cominciarono dal mormorare parole di sprezzo sulle cose accadute, fecero quindi sorgere vani pretesti onde sconvolgere l’ordine pubblico e trarre da quelle ruine regole di ambizione e di vita nuova. Livorno, città popolosa e di commercio, e perciò interessata al mantenimento della quiete, vedevasi turbata or dagli operai, richiedenti una riduzione del lavoro, or dai facchini, tumultuanti per lo aumento delle mercedi; or dagli oratori di piazza, accusanti il ministero di fellonia, un cittadino di nazione, un tal altro di gesuitismo e di peggio. Il governo, sia che stimasse colla indulgenza ringrazionirsi siffatta gente, sia che fiducioso nella sua forza non temesse le loro mene, lasciò libero il campo al disordine. La sera del sei gennaio lo attruppamento si fece maggiore del solito; il frastuono era immenso; quei che capitanavano le masse gridavano essere la patria in pericolo, onde urgente la necessità di armarsi, imperciocchè nessuno potea più fidare in un ministero improvvido e traditore. Un anonimo, bollettino era affisso e commentato al pubblico con calde e furibonde parole. Quel foglio presentavasi come una parodia del celebre atto della Convenzione di Parigi. Nulla di più ovvio che un tale appello alle popolari passioni! Noi non ci trovavamo nelle politiche necessità in cui trovossi la Francia a di 23 agosto del 1793. Il principe era nel paese e non ancor palesemente reo in estranei maneggi; silenti i partigiani del passato assolutismo; i nobili, i poeti, i frati tutto avevano a sperare, nulla a temere; la gente di curia, plaudente ai fatti avvenuti come ad origine di migliore fortuna. In essi mancava adunque la legittimità della rivolta, eccitata non dal parlamento, non dal magistrato della città, non dalla volontà di tutto un popolo, ma da pochi uomini che l’amore di patria soverchiamente esaltava.
Certo; non la era lodevole in ogni cosa la condotta del ministero Ridolfi, il quale avendo trovate poche ed indisciplinate schiere non pensava punto ad aumentarle, ad istruirle, e dondolavasi in uno stato d’inoperosa tranquillità; come se, riformandoci a dispetto de’ trattati Viennesi, non dovessimo recuperare tosto o tardi la italiana indipendenza a prezzo di sacrifici e di sangue. Gli antichi ordini erano stati distrutti; gli era mestieri edificarne di nuovi, e prima d’ogni cosa ricomporre una forte milizia che sicurasse l’autonomia nazionale; instituir quindi ordini politici, mercè i quali la opinione pubblica potesse farsi legalmente palese, e basare un’amministrazione che sapesse diffondere la vita propria su tutti i punti della circonferenza sociale. Lo ufficio dei pensanti e degli antichi settari di libertà era quello di dirigere col consiglio gli atti governativi e di soccorrere alla riedificazione dell’ordine legale coll’ordine morale. Quelli che usarono altri mezzi, e per doglioso puntiglio posero la loro influenza al di sopra degli interessi generali, mal fecero pregiudicando temporalmente alla cosa pubblica e scipando l’armonia delle rappattumate opinioni.
Intanto sulla piazza principale di Livorno le grida sempre più addoppiavansi. Il popolo minuto chiedeva armi e la nomina di una Deputazione che queste fornisse a soddisfazione universale. Dalla folla escirono i nomi che dovevano comporla. Tra essi era quello di Francesco Domenico Guerrazzi — il supposto autore del bullettino — e di alcuni suoi parteggiatori, cui furono uniti alcuni altri che si avevano opposti interessi all’avventata impresa. Gli eletti presieduti dal capo del Municipio dichiararonsi in una notificazione i legittimi rappresentanti del popolo, a lui promisero le armi volute, esortandolo però da ogni tumulto ulteriore, col quale — dicevano — essere impossibile il governare. Raggiunto lo intento, ecco che le creature rinnegavano la eccitata autorità che le avea fatte potenti. Ma, in quello stante un motu-proprio del principe, disapprovando l’accaduto, invitava la popolazione al ripristinamento dell’ordine. La maggioranza dichiaravasi per esso; i quattro male innestati rappresentanti, veraci amatori del pubblico bene, si ritraevano dall’ufficio; la Università di Pisa, il Municipio, la ufficialità della guardia cittadina condannarono que’ tumulti. Di Firenze giungeva in Livorno il marchese Cosimo Ridolfì, ministro dell’interno, collo scopo di sciogliere la Deputazione. Ma, gli eletti dal popolo non volevano dimettersi che pel volere del popolo. Allora, la gente minuta che abita il quartiere detto di Venezia, stanca di più sopportare una minorità che nelle sue adulazioni nuoceva ai di lei veri interessi e del paese, chiese le armi, nobilmente rifiutandone le munizioni, per far rispettata la legge e non mirare allo eccidio di alcuno. La sera del nove vennero arrestati quali eccitatori de’ passati tumulti il Guerrazzi; il Mastacchi; il Rossetti; un tal Roberto, soprannomato Ciccio; il Carovoli; il Romiti; il Dominici; il dottor Mugnaini; il negoziante F. Rupp; il Lilla; l’Ansuini; il La Cecilia col suo famigliare; i Vignozzi padre e figliuolo; e Riccardo Frangi. Cotesti incriminati vennero condotti in Porto-Ferraio per subirvi un regolare processo. Siffatto provvedimento parve ad alcuni un atto di debita giustizia; ad altri di sapiente prudenza; ad altri ancora, una tradizione di antiche asprezze in un governo nuovo; ed ai più, una severità — forse necessaria — pur troppo spinta.
Brevi i moti di Livorno. Non così quelli delle due Sicilie, ove la legalità conculcata e depressa drizzava la fronte, forte de’ suoi diritti e vie più forte per le governative enormezze con cui si pretendeva acquetarla. Ultima parte della Penisola, questo regno, diviso dal procelloso stretto del Faro, e meglio dai politici artifizi de’ suoi reggitori, fu sempre popolato da gente smaniosa di libertà, che quel suo nobile pensiero vide pur sempre affogato in un mare di lacrime e di sangue.
Nell’un paese, memorie di frequenti invasioni, di nuovi re, di domestiche brighe, di celate congiure; culla di uomini dal genio, acuto, immaginoso ed ardente, o dall’animo grande e magnanimo pari all’antico, o forniti di tristizie e di viltà senza pari. Nell’altro, tradizioni di odii efferati, di politiche e individuali vendette, di eccidii tremendi, di amor senza limite pel nido natio e di cimenti estremi, non rassegnati mai, per dargli corona. Nel continente e nell’isola gli abitanti, o troppo o poco civili, amanti di novità per tentazione di sorti migliori, prontissimi ad intenderle e a farle proprie, pervicaci ne’ riflettuti disegni, palesavansi disadatti alla schiavitù e riluttanti colle leggi dell’illimitato dispotismo. 11 quale, rintanatosi in Palermo neH806, sporco del più nobile e generoso sangue napoletano, e costretto sei anni appresso dalla Inghilterra ad infrenarsi con una costituzione che ritoglieva al popolo allorquando stimò cessati i pericoli che gliel’avevan fetta dettare, tornò inquisitorio, villano, peggiore. Onde, i ribollimenti popolareschi continui, e continue le corti marziali; e per cause di maestà piene le carceri, spessi gli appiccamene, le fucilazioni e gli esigli di gente, talvolta non sentita e spesso dannata senza difesa. Chi scriverà il martirologio politico di quel regno avrà per fermo ad empire gli scaffali di una gran biblioteca!
Quivi le industrie poche, in mano di forestieri e non sostenute che apparentemente dal governo, il quale riguarda come sentenze tutti gli errori di pubblica economia. In tanta ricchezza di naturali prodotti, ruvide le manufatture, perchè poveri i capitali, perigliose le società, male intese le provvide leggi; e perciò impossibile il miglioramento delle arti. Presso che nullo il commercio. I dazi, diretti o indiretti, venduti e per conseguenza volti a privato guadagno. La prediale ripartita dissennatamente sui possidenti, e in alcuni luoghi a seconda delle loro rivelazioni, o del grido delle loro ricchezze, e non ritolta sulle terre della Chiesa e de’ monasteri ricchissimi ed immorali. Imposizioni di tasse ai comuni per aprir nuove strade distrettuali, raramente imprese, o non attuate, e quel danaro tolto dai ministri, o dal re per altri usi, noti ad alcuno. Il feudalismo, cessato ne’ diritti, quasi intatto ne’ possessi e negli usi. Pianure immense boscagliose, od a prato, od innondate dalle acque, lasciate inculte dai padroni per esimersi dalle soverchie gravezze; monti sboscati per leggi non provvidenti, o non osservate. La fallacia, la malafede, la venalità, le fraudi, il vecchio genio della sovrana prepotenza sparso su tutti, su tutto.
Alle discorse cose gli onesti intendevano porre un termine. E i giovani, mettendosi su pacifica via, si sbracciarono a calmare i generali risentimenti, a dimenticare le passate e le recenti ingiurie e ad iniziare quelle dimostrazioni — sì prospere altrove — mercè le quali credevano concordare il principato col popolo, e — unite le due potenze — spingerle al conquisto della italica nazionalità. I molteplici arresti, le persecuzioni d’ogni maniera non isfiduciarono punto i Napoletani.
Qua di Palermo, che si energicamente avevano agito per l’addietro inverso la borbonica caparbietà, fissavano il dodicesimo di del gennaio come termine perentorio alle loro preghiere. Il fortunoso giorno spuntava e passò, senza che le desiderate concessioni avvenissero. Onde, le masse levaronsi a rumore, stimandosi tratte in inganno, o dai pomettitori di lieto evento, o dal principe. I gendarmi vollero opporsi a quei moti e vennero a furia disarmati e respinti. In poco d’ora trentamila cittadini, divisi in drappelli, si mostrarono sulle pubbliche vie.
La truppa di linea che intendeva disperderli, fu costretta a ritirarsi ne’ forti; e la cavalleria sconfitta per opera specialmente delle donne, che dalle finestre e dai tetti delle case scaraventavante addosso sassi, vasi di fiori, acqua bollente, mobili, quanto venia loro alle mani. La guardia civica s’instituì quasi per incanto; con essa un comitato che distribuiva danaro alle famiglie bisognose dei combattenti. Il grido della rivolta diffondevasi ben presto per tutta l’isola. Messina, Trapani, Catania, Termini, Siracusa sursero ribelli al cieco e feroce governo. I preti, i frati, col crocifisso alla mano, eccitavano sulle barricate il popolo a’ sentimenti generosi e gagliardi, alla conquista de’ proprii diritti; e’ dicevano:
«Gesù Salvatore morì sulla croce per redimere la oppressa umanità! E noi pure, ad imitazione del primo martire, spargiamo il nostro sangue e moriamo per la religione della Patria e della Libertà!»
Il re, instigato dal ministro Del Carretto, dal monaco Cocle suo confessore e dai gesuiti, non vedeva la politica tempesta che d’ogni lato scoppiava, e in Ruggiero Settimo, nel principe di Villafiorita, nel conte Pietro Aceto, nell’avvocato Marocco e in altri cui i Palermitani affidavano la direzione della pubblica cosa, ei credeva una gente tutta intenta a rubare. Laonde, spediva immediate più vapori da guerra alla volta dell’isola, comandati dal fratel suo, il conte dell’Aquila, par isbarcar truppe su varii punti, attaccare Palermo e bombardarla senza discrezione nessuna. Ma i forti erano già nelle mani degl’insorti; i regii, occupanti la importantissima posizione di Monreale, avevano fatto fuoco sur una deputazione dei consoli stranieri che chiedeva al generale una tregua per mettersi in salvo; lo insulto alla bandiera di pace e l’ostinato rifiuto muovevano la flotta inglese ad intervenire, il cui comandante facea noto a Don Luigi di Borbone che, ov’egli avesse tirato sulla città, avrebbe dato ordine a’ suoi artiglieri di mandare a picco il navilio del re. A tale intimazione, il principe tornava celeramente in Napoli, la quale città parea cangiata in un campo di guerra; e novelle che subito si sparsero accrebbero la non mai tranquillata agitazione. Il dì innanzi la provincia di Salerno era insorta, e la ostile gendarmeria gittatasi disperatamente sul popolo, dopo brevi ed inutili sforzi, veniva in ogni loco schiacciata. I contadini della Basilicata avevano rotto il ponte sul fiume Poliere, ch’è sul confine delle due provincie, e distrutto i telegrafi che comunicavano con Napoli. Le Calabrie erano in piena rivoluzione. Le Puglie ne imitavan lo esempio. I comandanti dei presidii Abruzzesi chiedevano pronti rinforzi.
Re Ferdinando che in sè credeva incarnata la divina potestà, e stimava, unica condizione de’ popoli soggetti, la servile obbedienza; unica regola di governo, la tirannide; udendo dal fratello la impossibilità delle regali vendette in Sicilia per la inattesa attitudine della flotta inglese, e i patti di quel popolo compendiati nella costituzione del 1842, svenne per la interna ambascia, e abbattuto dal male discese a concessioni di riforme. A’ di dieciotto gennaio, con un suo primo decreto allargava i poteri e le attribuzioni della consulta «li Stato, dei consigli provinciali e dei municipii. Con un secondo, separava l’amministrazione civile e politica della Sicilia insulare da quella continentale. La popolazione della capitale non mostrandosi soddisfatta di tai mutamenti, il re decretava l’indomani che alla consulta di Stato si aggiungerebbero i consultori straordinari e i deputati delle provincie. Nominava il conte dell’Aquila luogotenente generale in Sicilia e il personale del suo ministero. Riformava le leggi sulla stampa e dava norme alla nuova censura. Lo stesso di erano posti in libertà Carlo Poerio, Mauro, Trincherà e varii altri sollecitatori di pubbliche franchigie. Il decreto sulla stampa irritò tutti; l’amnistia accordata il ventiquattro, parve non un bene, ma uno scherno, un insulto; imperciocchè, la maggior parte de’ graziati, «secondando i moti del reale animo «venivano» rilegati per ragione di pubblica tranquillità sopra un’isola sino a nuova risoluzione».
Infrattanto, in Sicilia il combattimento non si era mai rallentato tra il popolo e le truppe. I Messinesi eransi impadroniti di un piccolo vapore e di meriti pezzi di artiglieria. Il generale Filangieri aveva sbarcate novelle schiere per rinforzare il presidio della cittadella. Il maresciallo Desauget con ottomila uomini scendeva a terra presso Palermo, e avanza vasi verso la città per la porta Macqueda. Quelli che credono doversi conseguire il bene senza sacrifizi, migrarono nelle campagne vicine. Le bombe, i razzi briccolavano già nel paese. ’Notevole eia lo sconforto degli animi. Allora, Giuseppe La Masa, afferrata in senato la bandiera italiana, cominciò a percorrere le vie, gridando si asserragliassero; il nemico venire dai quattro venti; si apparecchiassero armi e munizioni; formarsi già nella piazza della Fieravecchia il nucleo dell’armata cittadina. E col grido di «Viva la Costituzione» Pasquale Bruno attaccava la porta Macqueda, e colla sua squadra se ne impossessava. E Giuseppe Scordato — bandito dei monti e capo di una banda armata, cui le onorate battaglie della libertà lavarono le antiche colpe, cui più tardi la politica apostasia diede il grado di Colonnello nell’esercito del Borbone e Io spregio di tutti gli onesti — dopo aver fatto prigioniero il presidio di Bagheria, sbaragliava le truppe regie che difendevano il palazzo reale. Altri comitati s’instituivano, composti da quaranta dei più distinti cittadini della capitale; uno riguardante la sicurezza pubblica, l’altro la guerra, l’altro le finanze. I prigionieri fatti sulle regie schiere — ed erano molti — venivano trattati colla massima umanità; e i feriti— quantunque di avversa parte e spesso adoperanti illeciti stratagemmi per carpir la vittoria, pur sempre fratelli — sontuosamente curati dalle nobili donne palermitane ne’ loro palagi. I loro compagni, abbattuti dalle fatiche, costretti a serenar sulla spiaggia, mancanti di viveri e sopratutto scoraggiati dalla eroica resistenza degl’insorti, disertavano nella città, cedevano le armi, o ne usavano insieme col popolo all’attacco dei forti.
Le vittorie siciliane correvano in Napoli per le bocche di tutti; e il popolo romoreggiava; e le autorità, avvezze a comandare una gente umile e serva, perdevano coll’arroganza quel po’ di senno che Dio avea loro fornito. Il re, costernato dalla mala coscienza, ondeggiava, senza sapere a qual disperato partito appigliarsi; i suoi consiglieri, timidi ed avviliti; i suoi generali oppressi dalla opinione pubblica che od ogni ora si facea più gigante. A’ dì ventisette il tempo era piovigginoso e fosco: la speranza però irradiava gli animi tutti; e molte migliaia di persone adunavansi lungo la via di Toledo e sostavano sulla piazza dinanzi la reggia, gridando evviva alla Costituzione ed al re. Ad un segno dato dal palagio, un altro segno — tutto di sterminio e di morte — dava Santelmo, forte che siede a cavaliere della bellissima città. Ma, la minacciosa intimazione non s’ebbe altro effetto che lo incuorare vie più il popolo ai soliti evviva; il che, osservato dal generale Roberti, il comandante di quella ròcca, questi opinò meglio valesse l’offerire la propria dimessione di quello che unire al suo nome il ricordo della ruina di Napoli e dello strazio de’ suoi concittadini. Un tale atto — a’ dì che corrono sventuratamente sì raro! — onora altamente quel leale soldato.
Due uomini indefessamente e per vario effetto consigliavano il principe. L’uno, monaco passionista, nato di basso e tristo seme, scaltrissimo ed ignorante, godente di una autorità senza limiti, ricco per troppe e subite ricchezze, acquisite a furia di concussioni e di angherie, voleva il brutto arbitrio durasse, senza cui temeva perduti lo ufficio, il favor, le dovizie. L’altro, uomo d’ingegno e di molta ambizione, onesto soldato sino al 21, per vaghezza d’oro, di possanza, di onori e di titoli insudiciando quindi e anima e nome, liberale per progetto, negli atti tiranno, sbracciavasi a persuadere il re a tutto concedere pel momento; imperciocchè, ei stimava le sevizie e le stragi scatenare la furia del popolo contro di lui, od almen nuocere alle proprie dittatorie mire.
Le grida della piazza — quantunque acclamanti — giungevano col suon di minaccia all’orecchio del timido ed ostinato Borbone. Vedeva l’area immensa, dai portici di San Francesco di Paola alla reggia, gremita di bandiere tricolori e di genti di tutte classi precedute da un carro, ove il duca di Proto, Trincherà ed un altro cittadino sostenevano un albero d’ulivo, da cui pendevano — simbolo di pace, di unione, di forza — nastri pontificali, piemontesi, borbonici, toscani, siculi, nazionali. La paura di cose peggiori e il dispetto contro i prìncipi di Roma, di Toscana e di Piemonte — autori, a suo credere, di tanti mali — lo vinsero. E ordinò al conte Statella, generai comandante la piazza di Napoli, di notificare alle moltitudini adunate ch’egli avrebbe tutto concesso e di avvertire il passionista monsignor Gode di non più appressarsi alla corte. E al generai Filangieri dava lo incarico di chiedere la spada in suo nome al ministro della polizia, marchese Francesco Saverio Del Carretto, e d’intimargli la subita cacciata dal regno. Principesca vendetta!
Così il giorno cessava nel plauso delle genti napoletane; le quali vedevano partire pria che annottasse i due loro nemici; l’uno per Malta, l’altro per Francia, seguiti dalle maladizioni di tutto un popolo.
L’indomani un decreto del re, contrassegnato dal duca di Serra Capriola — il quale doveva comporre il nuovo ministero — promulgava le basi della Costituzione che pubblica si renderebbe entro il periodo di dieci giorni. Colla Sicilia si firmò un armistizio di breve durata, nel qual tempo gli abitanti dell’isola dovessero formulare i loro desiderii onde sottoporli alla sovrana sanzione. Il re passò in rivista le truppe seguito da numeroso stato maggiore. Il popolo lo acclamava con festa grondo; ed egli, inteneritone sino alle lacrime e ponendo una mano sul petto, diceva a tutti: «Sono stato tradito! Era ingannato! Compatitemi!»
Ora, a me corre l’obbligo di presentare a larghi tratti la intera fisonomia di cotesto principe, sulla cui coscienza pesano tristi e sanguinosi ricordi che gl’italiani non sapranno per tempo dimenticare.
Egli saliva al trono, per la morte di Francesco I, suo padre, in sul finire del 1830. Le popolazioni, martoriate sino a quel punto e non rette, sorsero a vita nuova, notando ne’ primi atti del giovane principe sentimenti di giustizia, di assennatezza e di regale clemenza; imperciocchè, ei bandiva ignominiosamente dal regno lo Intontì, ministro tremendo di paurose politiche atrocità; amnistiava e dava incarichi ai costituzionali del 24; correggeva Io scialacquo della passata amministrazione e concedeva la vita ad un ufficiale di cavalleria, il quale aveva tentato ritoglierla a lui. Perlustrate le province e conosciutone i bisogni, aperse nuove strade — non molte— e appagò i richiami col promettere incoraggiamento al commercio e alle industrie. Menata in moglie una principessa di Piemonte, le di lei rare virtù riflettendo sui suoi difetti, il palesarono men basso e triviale di quel che realmente si fosse. Riammogliatosi quindi con un’arciduchessa austriaca, annullò ogni dì più le speranze in lui concepite.
Nella prima giovanezza aveva avuto a maestro monsignor Olivieri, il quale poco o nulla gli apprese, ora il tempo mancandone assorbito dallo esercizio della caccia — passione smodata della famiglia Borbonica — ora il volere; unica sua cura fu lo inculcargli nell’anima le meschine teorie dell’avarizia. E per ciò fare, lo industre institutore cangiava le monete di argento della di lui pensione di principe 10 tanti spiccioli ediquesti componendo parecchi mucchi sur una tavola, solea dirgli:
«Altezza Reale, rammentatevi che cotesta gran somma è composta di tanti scudi, ognun de’ quali vale dodici carlini, cioè, i centoventi grana che qui vedete. Nello spendergli, avrete a rendervi esatto e scrupoloso conto di ogni soldo che dalle auguste mani vostre passerà nelle altrui.»
Educato all’egoismo, comprese ch’ei doveva in sè solo convertere la somma del bene co’ mezzi i più acconci a’ proprii interessi. Nè qui sia discaro il citare alcune particolarità a sostegno de’ miei giudizi, acciò le cagioni de’ fatti non tornino incredibili, nè sembrino dettate da animo malvogliente ed infido.
Nel 37, o su quel torno, una società anonima facea fabbricare con regio rescritto nel cantiere di Castellamare due piccole navi a vapore per fare i viaggi di Calabria e Sicilia. Re Ferdinando volle essere a parte della impresa, comperandone dieciotto azioni. Allorchè i piroscafi furono varati, il duca d’Avalos, alto faccendiere di corte, disse agl’interessati il principe aver mutato idea e non poter permettere a così piccoli battelli il pattovito tragitto. I miseri capitalisti chiesero 11 permesso di vendergli all’estero, il che loro venne negato; finalmente dopo molti giri e rigiri, udironsi proporre dal nobile duca di farne la cessione al suo signore, mercè le dieciotto azioni ch’egli si avea nell’affare. Fu giuocoforza piegare il capo e cedere al prezzo richiesto fornai venturose navi; le quali nella settimana di poi partivano per Pizzo con trasporto di truppe.
Ferdinando sapendosi ignorante, dispettò sempre i dotti, e mai per vaghezza di studi lesse libri e scritture. E quando il Cantù, venuto in Napoli nel 40, presentavalo della sua Storia Universale, egli ingenuamente avvertivalo non essersi mai impacciato di scorrere volumi; e ciò lamentava. Bigotto e superstizioso, accerchiossi continuo di gente ipocrita, falsa, ignaziana; quei che lo han veduto correre in cocchio per le vie di Napoli, avranno notato com’ei faccia il segno di croce e di cappello alle Madonnette dipinte sui canti, e come discenda e genufletta alla Eucaristia portata con gran pompa dai parrochi a’ moribondi. Tutta la sua religione è là. A siffatte pratiche bacchettone lo ha destramente abituato quel suo confessore, di cui pur dianzi tenni parola; il quale ogni sera, pria di congedarsi dal suo penitente, aveva costume benedirgli la persona tutta con una santa reliquia, il carezzava paternamente sul volto, chiamandolo santo; e l’indomani, nel convento de’ Passionisti apriva bottega de’ regii rescritti a’ maggiori offerenti. Vo’ ricordare tra mille un avaro fatto di cotesto furbissimo frate. Un giorno ei venne a sapere come un mercante si attentasse vendere al re, senza fargliesene motto, parecchie coppie di cavalli. Scrisse incontanente al principe non stringesse il contratto che l’indomani alla sua presenza; quegli animali potevano essere posseduti dal demonio e facea d’uopo esorcizzarli, onde impedire ogni successivo accidente sinistro. Il mercante comprese di qual sale la si dovesse comporre quell’acqua lustrale, e mille ducati fecero apparire angelici i già insatanassiti cavalli. Ora, la credulità la più cieca è si inviscerata nell’animo del re, che più volte in questi ultimi tempi, al nuncio delle carnificine di Palermo, di Messina, di Napoli, copertesi le spalle, nella privata cappella di corte, col mantello di S. Alfonso di Liguori, propiziava al Dio delle misericordie pel trionfo del suo dispotismo.
Adiposo di corpo e grossolano di modi, pur sente il bisogno della popolarità, e questa tenta procacciarsi co’ mali vezzi di un lazzerone. Ne’ dì carnevaleschi è costumanza in Napoli gittar da’ veroni manciate di piccoli pezzi di gesso, somiglianti nella forma a’ confetti, sulla gente che a cavallo, a piedi, o sui carri passeggia per la lunga via di Toledo. Il re, o si maschera co’ suoi cortigiani, o dai terrazzo del palagio de’ Ministeri muove guerra di sassate a’ soggetti per dar nei gusti balordi e plebei del popolo minuto. Ai regii proietti altri proietti rispondono, e il villano insulto non è tenuto per tale. Il rigore però si fa estremo se una carrozza non si arresta al passare del re, od imbrocchi con una ruota quella del cocchio principesco. Nel 39, scendendo egli di Capodimonte a slascio, giusta le sue abitudini, nella rivolta de’ Ponti-Rossi avviò malamente i cavalli e ricevè l’urto di una carrozza da note. Il cocchiere perdette il suo brevetto, fu sostenuto per più mesi nelle carceri della Vicaria, il cavallo venduto a benefizio dei poliziotti e il resto bruciato nella corte della Prefettura ad espiazione di tanto crimine.
Ai patti solennemente giurati ei fede non serba per brutta tradizione di famiglia. Due sole cose sembra che il muovano, sordidezza e timore. Laonde, di lui si può dire — senza tema di venire smentito — che in sè concentra la superba ignoranza de’ Reali di Spagna, la politica diffidente della casa d’Ausborgo e la sublime leggerezza degli esautorati di Francia.
Vizi siffatti, divampanti dall’alto, dovevano irremissibilmente discendere nelle classi della società che più frequentan la corte. Il sentimento della dignità e dell’onore è in esse tenuto in conto di cosa vieta, infruttifera. Laddove un re froda a’ capitoli di un pubblico o privato contratto, —egli esempi sono moltissimi e noti! — i ministri non responsabili dovevano permettersi il rubar nello erario e il vivere di larcinio, non pagando mercede ad alcuno, Quegli alti impiegati non davano stipendio a chi gli serviva, nè compensavano il sarto, il fa-cocchi, il magnano, il legnaiuolo delle loro fatiche, ed il mercante delle sue merci. E i loro inferiori dovevano seguire lo esempio de’ capi col tassare gli appaltatori che avessero affari col governo, ed ogni persona che per proprio interesse si facesse a penetrare negli ufficii della pubblica amministrazione. Onde avviene che il paese napoletano, il quale si ha le migliori leggi d’Italia, gli è retto nel peggior modo possibile a desiderio dei più che vi abitano. E spesso io che scrivo, ho veduto onesti industriali essere costretti a rescindere contratti per forniture governative, perchè le mance in danaro a concedersi agl’impiegati, dal ministro al bidello, esaurivano intero il provento. E creditori andare in prigione per aver ricorso ai tribunali contro un cortegiano moroso. E famiglie povere flettere il loro diritto dinanzi a ricco ed ingiusto competitore, il quale per tutta ragione si aveva il buono da satollar giudici ed avvocati. Ed altri molti essere sostenuti per giorni, o per ore nelle carceri di polizia tra i ladri di pezzuole e di borse, per aver niegato il solito regalo al commesso de’ passaporti.
Una sì grande immoralità ha portato i suoi effetti. Ed ecco perchè nessuno maraviglia rinvenendo nella luttuosa storia di quel paese un Guidobaldi, uno Speciale, un di Canosa, un De-Matteis, un Malvica, un Merenda, un Cioffi, un che apra mercato della persona, dell’onore, della coscienza, del proprio ingegno! Gli onesti di quella terra son morti… E quei che pur miseramente vivono, gemono nelle più dure prigioni, errano nell’esiglio, o si rimangono in patria muti e trepidanti per la cara libertà, sol perchè onesti e dabbene.
Per giovanile trastullo il re volle avere un esercito, ed a capriccio, di dì e di notte, si piacea trarre i soldati al maneggio delle armi sul campo di Marte; più tardi, con leggi severe di militar disciplina ei seppe formare in un paese — che non ne avea lo elemento e le tradizioni — un’armata disciplinata e compatta, la quale servisse quando che fosse di baluardo alle sue dispotiche volontà. Negli arsenali congegnò navi da guerra, fuse cannoni ed altri edilizi di campo; le armerie crebbe e perfezionò; il progresso altrove attuato accettò nelle vesti, negli arnesi, negli artifizi guerreschi. La istruzione, che aduggia nel popolo, la coltiva nelle scuole militari e negli ufficiali sempre la favorì; ove poi esca dal limite e qualcuno di essi si attenti divagarsi nelle lettere e negli studi, gli beffeggia col titolo di pennaruoli, e della loro scienza forma ostacolo al salire. Quelli ama sol perchè utili; i soldati assai predilegge, ed ogni arte sa usare per ingrazionirsene l’animo. Inaspettato entra nelle loro caserme, esamina il vitto che lor si fornisce e ne castiga i provveditori se il trova cattivo, o non abbondante; ei fuma nelle lor pipe, si asside plebeamente a famigliar consorzio con essi, largisce loro sigari, vino e pecunia, e con lamentosi propositi gli separa dalla causa popolare, dicendo:
«I miei buoni sudditi non mi amano, perchè sedotti dai liberali. Questi mi vogliono morto per poi manometter facilmente lo esercito e arrivare a’ loro fini, cioè, la distruzione della famiglia e la divisione della proprietà. Ma, chi serve con affetto il suo re, come lo comanda la nostra santa religione, può passare ufficiale e avere la croce di S. Ferdinando.»
E quei soldati vedendosi carezzati in tal guisa, inorgogliscono e divengono cieco strumento di tirannide contro i generosi, i quali altro non chieggono che la giustizia ed il mantenimento delle carpite libere franchigie. Oltre a questi, il re si ha un’altra armata, disciplinata dalla ignoranza, dallo interesse, dalla paura, che il principe rassegna negl’impiegati compromessi per la causa del dispotismo, i quali si avrebbero il carcere, o la pubblica infamia a cose mutate; e ne’ preti, ne’ gesuiti, ne’ frati d’ogni colore, che dai pergami, dai confessionali predicano al popolo minuto, la libertà della stampa essere una invenzione diabolica per iscardinare la fede di Cristo, la Costituzione un oltraggio fatto alla sacra persona del re. E tutte le arti, e molte menti e moltissime braccia servono in quell’infelice paese ad allumare le civili contese, a dar martirio al libero pensiero, a crocefiggere il cuore agli uomini caldi e zelosi del pubblico bene. Studi nefandi e molesti, impossibili altrove; pur facili in Napoli per le ragioni anzidette.
Sur un terreno talmente viziato e corrotto — donde però escirono primi i palpiti di libertà, ove la tirannia più gavazzò nel sangue di cittadini illustri, ove gli strazi furono più lunghi, più gravi, più fieri — sedettero ministri del nuovo regno costituzionale, per le relazioni estere il duca di Serra-Capriola, presidente del consiglio; per gli affari interni il cavalier Francesco Paolo Bozzelli; per le finanze il principe Dentice; per la giustizia il barone Cesidio Bonanni; pe’ lavori pubblici, agricoltura e commercio il principe di Torella; per la pubblica istruzione il commendatore Gaetano Scovazzo; per la guerra il brigadiere Garzia. Fu nominato presidente della consulta generale del regno il principe di Cassero, Antonio Statella. Alla direzione della polizia venne preposto Carlo Poerio, poco innanzi escito dal carcere, uno tra i più benemeriti campioni delle italiche libertà. I novelli ministri — tranne lo Scovazzo, siciliano, uomo incorruttibile, indipendente, severo, amatore caldissimo della gran patria — erano politici della vecchia scuola e non all’altezza delle idee de’ tempi. L’assunzione però del Bozzelli, anch’egli imprigionato poco stante per cautele di sospettosa polizia, sembrava ad ognuno una bastante guarentigia perchè la costituzione non la fosse cosa monca e derisoria, ma efficace, vera, di fede. Come quest’uomo rispondesse alle generali speranze a suo luogo dimostrerò.
Ora, prima ch’io più continovi la narrazione de’ fatti italiani, sento il debito di arrestarmi per fare co’ leggitori attenti — che non il mio povero ingegno, ma la importanza del subbietto a me somministra — alcune riflessioni sulle cose avvenute fin qui. L’ordinamento d’Italia, tutto di concordia e di pace, erasi operato in modo maraviglioso e senza istorico esempio. Gl’indovini politici, riguardando partitamente il pensiero, le forze, i travagli della migliorata ragione ne’ popoli peninsulari, potevano veder con chiarezza la meta fortunata, ove gradatamente le Riforme ci avrebbero guidato. La ostinatezza ne’ rifiuti di re Ferdinando, le crudeli tristizie del suo governo avevano fatto insorgere un elemento nuovo e contrario a quello attuato, imperciocchè, il sangue sparso, aguzzando le pubbliche voglie, richiese arditamente un premio e se l’ebbe. E i Calcanti videro annebbiarsi il loro fatidico avvenire e disperarono degli eventi. Una tal mutazione soddisfaceva alle moltitudini e in particolar modo a quelle soggette ancora allo austriaco dominio. Ma, potevam noi forzare i principi a romper guerra collo straniero?.. Le province siciliane avevano un’esercito ostile alle popolazioni e devoto al Borbone; la Toscana e Roma cominciavano a sentir per la prima volta la somma necessità di formarlo; il Piemonte parea pronto a battaglia ed esagerata fiducia nudrivasi sulle sue schiere. — Potevano i popoli fare da sè? .. Gl’Italiani non vi erano punto educati; chè alla unità discordavano le municipali barriere; le opinioni sorgenti e svariate; la mancanza di capi, di armi, di danaro; la mentale grettezza ne’ due volghi, il nobile ed il plebeo; la diversità dei dialetti, de’ costumi, delle leggi subite, de’ soprastanti padroni. Talun vagheggiava di operoso amore un così nobile pensamento, e molti diedero il loro sangue per fecondarlo. Ma, il tempo unito alla istruzione e allo sforzo degli uomini potrà solo farcene lieti.
Le siciliane emergenze avacciavano adunque il moto progressivo dell’italiano rinnovamento. Pari ad elettrica scintilla corsero la Italia e la Europa, e quanto incendio vi producessero dirò nel libro che segue.