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Ferdinando sapendosi ignorante, dispettò sempre i dotti, e mai per vaghezza di studi lesse libri e scritture. E quando il Cantù, venuto in Napoli nel 40, presentavalo della sua Storia Universale, egli ingenuamente avvertivalo non essersi mai impacciato di scorrere volumi; e ciò lamentava. Bigotto e superstizioso, accerchiossi continuo di gente ipocrita, falsa, ignaziana; quei che lo han veduto correre in cocchio per le vie di Napoli, avranno notato com’ei faccia il segno di croce e di cappello alle Madonnette dipinte sui canti, e come discenda e genufletta alla Eucaristia portata con gran pompa dai parrochi a’ moribondi. Tutta la sua religione è là. A siffatte pratiche bacchettone lo ha destramente abituato quel suo confessore, di cui pur dianzi tenni parola; il quale ogni sera, pria di congedarsi dal suo penitente, aveva costume benedirgli la persona tutta con una santa reliquia, il carezzava paternamente sul volto, chiamandolo santo; e l’indomani, nel convento de’ Passionisti apriva bottega de’ regii rescritti a’ maggiori offerenti. Vo’ ricordare tra mille un avaro fatto di cotesto furbissimo frate. Un giorno ei venne a sapere come un mercante si attentasse vendere al re, senza fargliesene motto, parecchie coppie di cavalli. Scrisse incontanente al principe non stringesse il contratto che l’indomani alla sua presenza; quegli animali potevano essere posseduti dal demonio e facea d’uopo esorcizzarli, onde impedire ogni successivo accidente sinistro. Il mercante comprese di qual sale la si dovesse comporre quell’acqua lustrale, e mille ducati fecero apparire angelici i già insatanassiti cavalli. Ora, la credulità la più cieca è si inviscerata nell’animo del re, che più volte in questi ultimi tempi, al nuncio delle carnificine di Palermo, di Messina, di Napoli, copertesi le spalle, nella privata cappella di corte, col mantello di S. Alfonso di Liguori, propiziava al Dio delle misericordie pel trionfo del suo dispotismo.
Adiposo di corpo e grossolano di modi, pur sente il bisogno della popolarità, e questa tenta procacciarsi co’ mali vezzi di un lazzerone. Ne’ dì carnevaleschi è costumanza in Napoli gittar da’ veroni manciate di piccoli pezzi di gesso, somiglianti nella forma a’ confetti, sulla gente che a cavallo, a piedi, o sui carri passeggia per la lunga via di Toledo. Il re, o si maschera co’ suoi cortigiani, o dai terrazzo del palagio de’ Ministeri muove guerra di sassate a’ soggetti per dar nei gusti balordi e plebei del popolo minuto. Ai regii proietti altri proietti rispondono, e il villano insulto non è tenuto per tale. Il rigore però si fa estremo se una carrozza non si arresta al passare del re, od imbrocchi con una ruota quella del cocchio principesco. Nel 39, scendendo egli di Capodimonte a slascio, giusta le sue abitudini, nella rivolta de’ Ponti-Rossi avviò malamente i cavalli e ricevè l’urto di una carrozza da note. Il cocchiere perdette il suo brevetto, fu sostenuto per più mesi nelle carceri della Vicaria, il cavallo venduto a benefizio dei poliziotti e il resto bruciato nella corte della Prefettura ad espiazione di tanto crimine.
Ai patti solennemente giurati ei fede non serba per brutta tradizione di famiglia. Due sole cose sembra che il muovano, sordidezza e timore. Laonde, di lui si può dire — senza tema di venire smentito — che in sè concentra la superba