La Italia - Storia di due anni 1848-1849/Libro terzo

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LIBRO TERZO



L’11 febbraio in Napoli. — Il ministro Bozzelli. — Vittoria de’ Siciliani. — Pace trattata e non conchiusa. — Per nuovi moti è concesso uno Statuto al Piemonte. — Allocuzione del papa ai Romani. — Costituzione toscana. — Vacuità di cure e dissonanza ne’ concetti. — Trattato Austro-Modenese-Parmense. — Francesco V d’Este. — Carlo II di Borbone. — Cacciata de’ gesuiti dal Piemonte, dal Genovesato, dalla Sardegna. — Quale il governo della Lombardia e della Venezia. — La Congregazione centrale del Regno. — Coraggiose proposte del Nazzari, del Manin, del Tommaseo. — Lettera di Teresa Manin. — Stato morale di quelle oppresse popolazioni. — Politica infernale. — Apparizione di una meteora sanguigna sulle Alpi. — Rivoluzione di Parigi. — Fuga del re de’ Francesi. — Proclamazione della repubblica. — Statuto pel governo temporale degli Stati di Santa-Chiesa. — Partenza de’ gesuiti di Roma e di Napoli. — Agitazioni nella Germania. — Maggiori larghezze in Piemonte. — Fuga di Mellernich e rivoluzione in Vienna. — Avviso a’ Milanesi del vico-presidente O’Donnel. — Primi moti e minacce del Radetzky. — Il conte Gabrio Casati. — Combattimento accanito. — Congregazione municipale. — Le armi del popolo. — Gli aerostati messaggeri di sommosse. — Vittoria e fuga degl’imperiali. — Barbarie commesse dal soldato tedesco. — Sortita dei popolani contro i fuggiaschi. — Beate illusioni e in chi la colpa.


A dì 29 gennaio, re Ferdinando promise a’ suoi popoli una Costituzione. A dì 11 febbraio, quella promessa fu un fatto compiuto. Unanime la riconoscenza partita dal cuore. Cittadini di tutte classi si affollarono sulla piazza di S. Francesco di Paola, la quale vastissima pareva angusta a contener tanta gente. Il principe, seguito da sua moglie, dall’erede del trono, dai suoi due fratelli, si fece sul verone del regale palazzo a ricevere l’omaggio delle moltitudini, e portando la destra sul petto, rispondeva con tale atto alle voci di «Viva Ferdinando II! — Viva la Costituzione! — Viva l’Italia!» E siccome a ogni tratto si faceva maggiore il numero delle genti affollate e il grido devoto ognor più crescente, quegli che omai parea certo dell’amor de’ suoi sudditi, escì dalla reggia per raccogliere da vicino il premio di un’opera tanto desiderata, sì a lungo protratta. Allora, lo entusiasmo divenne febbrile, e i saluti di onore confusi in uno solo, si mutarono in suono alto di festa, commoventissimo. E chi baciava le mani del re, chi il lembo della sua veste; chi diceagli parole di grazie, di affetto; chi designavalo il balio della italiana nazionalità; chi lo incoronatore delle speranze di tanti secoli. In siffatto modo, e principe e popolo corsero la via di Toledo echeggiante voci di giubilo e di espansiva, abbandonata libertà.

Lo Statuto fondamentale — che avea fatto sì cange le condizioni politiche dei Napoletani — era stato compilato dal ministro Bozzelli, già consigliere di Stato nel 1820, bandito l’anno appresso come colpevole di fellonia e dimorato ne’ due paesi più liberi di Europa; finchè, assoluto nel 1838 delle sue civili virtù, rimpatriando, si dava alla lucrosa professione di avvocato in fama. Sembra che in [p. img modifica]MANIFESTAZIONE DE’ NAPOLETANI [p. - modifica]appreso dal Guizot, dai Thiers e dai loro colleghi quella lisciata parola di libertà che l’ambizione mette sulle labbra senza lasciarle agio di scendere sino al cuore. Formulatore in ogni cosa, il pubblico gli credette un animo ben tempro e virile, alieno da subdole arti, di vani onori punto smanioso, e perciò coronava di bella popolarità il nome dell’arcadico poeta, dell’orator fastigioso, dell’estetico gretto e pedante, mentre il governo malsicuro e perverso gli avea dato l’onore della persecuzioni e del carcere. Uscitone appena, ei trovò sulla soglia ovazioni di popolo e principesche scuse. Onde, misurando il merito suo, non dalla facile ebrezza delle turbe, ma dai vasti successi ottenuti, indotto delle rivoluzioni e della scienza di Stato, non resse all’avidità del signoreggiare però superiori voglie; a novelle amicizie e a nuovi atti compose e volto e pensieri. Chiamato allo incarico di gittare le basi dell’edifizio costituzionale, avrebbe potuto comporre un lavoro originale rispondente ai tempi ed all’indole del genio italiano. Egli invece tradusse quasi testualmente la Costituzione francese del 1830, vi aggiunse la censura preventiva sulle materie teologiche e sulle opere che ne trattano ex professo, per assoluta volontà del re: non vi fece motto del diritto di associazione, nè dell’ordinamento dei giurati; oltre a ciò fece illimitato il numero de’ pari eletti a vita dal principe.

Intanto se una Sicilia era in festa, l’altra era in guerra. Tutta l’isola in potere degli insorti tranne la cittadella di Messina, asserragliata da presso e mancante di viveri e il palazzo reale in Palermo stretto dalle medesime necessità. Ma, quando un popolo intero accorre alle armi col grido «Si muoia senza infamia, si viva senza rimorso», non v’è luogo che possa a lungo resistere. Dopo la vittoria, si profferse all’isola generosa la Costituzione di Napoli con un parlamento doppio ed altre modificazioni adattate a’ suoi particolari bisogni; le si dichiarava altresì che lo esercito, la marina, il corpo diplomatico e le dogane sarebbero comuni ai due Stati. Per unificare richiedesi la spontaneità e non la concessione carpita da virili trionfi. E il governo provvisorio Siciliano, a nome di tutti, rispose all’ambasciatore inglese lord Minto — mediatore di casa Borbone — che i nativi nell’isola, italianissimi di cuore e di speranze, intendevano governarsi separatamente. I soli Messinesi furono solleciti nello accettare le condizioni napoletane e improvvidamente vettovagliarono i forti tenuti dai regii e permisero vi s’introducessero novelle munizioni da guerra venute di Napoli. L’onesto ministro Scovazzo dava ben tosto la sua dimessione.

La vittoria dei Siciliani venne plaudita per tutta Italia. I popoli riformati inalberarooo la bandiera italiana e chiesero guarentigie costituzionali. I giornalisti, i comitati, le guardie civiche riunite, le popolazioni di ogni ceto, di ogni sesso, ne’ teatri, nelle corti dei palagi governativi o de’ principi, colle deputazioni, cogl’indirizzi, co’ cantici, con mille proteste di gratitudine e di affetto, domandavano senza posa che un foglio firmato testimoniasse i doveri del principe e del popolo. Carlo-Alberto fu il primo a riconoscere un tale diritto e ad avvalorarlo. Alcuni devoti suoi e liberali assicurano ch’egli erasi posto sulla nuova via colla idea di non arrestarsi a mezzo; che avrebbe però voluto maturare colle [p. 39 modifica]appreso dal Guizot, dai Thiers e dai loro colleghi quella lisciata parola di libertà che l’ambizione mette sulle labbra senza lasciarle agio di scendere sino al cuore. Formulatore in ogni cosa, il pubblico gli credette un animo ben tempro e virile, alieno da subdole arti, di vani onori punto smanioso, e perciò coronava di bella popolarità il nome dell’arcadico poeta, dell’orator fastigioso, dell’estetico gretto e pedante, mentre il governo malsicuro e perverso gli avea dato l’onore della persecuzioni e del carcere. Uscitone appena, ei trovò sulla soglia ovazioni di popolo e principesche scuse. Onde, misurando il merito suo, non dalla facile ebrezza delle turbe, ma dai vasti successi ottenuti, indotto delle rivoluzioni e della scienza di Stato, non resse all’avidità del signoreggiare però superiori voglie; a novelle amicizie e a nuovi atti compose e volto e pensieri. Chiamato allo incarico di gittare le basi dell’edifizio costituzionale, avrebbe potuto comporre un lavoro originale rispondente ai tempi ed all’indole del genio italiano. Egli invece tradusse quasi testualmente la Costituzione francese del 1830, vi aggiunse la censura preventiva sulle materie teologiche e sulle opere che ne trattano ex professo, per assoluta volontà del re: non vi fece motto del diritto di associazione, nè dell’ordinamento dei giurati; oltre a ciò fece illimitato il numero de’ pari eletti a vita dal principe.

Intanto se una Sicilia era in festa, l’altra era in guerra. Tutta l’isola in potere degli insorti tranne la cittadella di Messina, asserragliata da presso e mancante di viveri e il palazzo reale in Palermo stretto dalle medesime necessità. Ma, quando un popolo intero accorre alle armi col grido «Si muoia senza infamia, si viva senza rimorso», non v’è luogo che possa a lungo resistere. Dopo la vittoria, si profferse all’isola generosa la Costituzione di Napoli con un parlamento doppio ed altre modificazioni adattate a’ suoi particolari bisogni; le si dichiarava altresì che lo esercito, la marina, il corpo diplomatico e le dogane sarebbero comuni ai due Stati. Per unificare richiedesi la spontaneità e non la concessione carpita da virili trionfi. E il governo provvisorio Siciliano, a nome di tutti, rispose all’ambasciatore inglese lord Minto — mediatore di casa Borbone — che i nativi nell’isola, italianissimi di cuore e di speranze, intendevano governarsi separatamente. I soli Messinesi furono solleciti nello accettare le condizioni napoletane e improvvidamente vettovagliarono i forti tenuti dai regii e permisero vi s’introducessero novelle munizioni da guerra venute di Napoli. L’onesto ministro Scovazzo dava ben tosto la sua dimessione.

La vittoria dei Siciliani venne plaudita per tutta Italia. I popoli riformati inalberarooo la bandiera italiana e chiesero guarentigie costituzionali. I giornalisti, i comitati, le guardie civiche riunite, le popolazioni di ogni ceto, di ogni sesso, ne’ teatri, nelle corti dei palagi governativi o de’ principi, colle deputazioni, cogl’indirizzi, co’ cantici, con mille proteste di gratitudine e di affetto, domandavano senza posa che un foglio firmato testimoniasse i doveri del principe e del popolo. Carlo-Alberto fu il primo a riconoscere un tale diritto e ad avvalorarlo. Alcuni devoti suoi e liberali assicurano ch’egli erasi posto sulla nuova via colla idea di non arrestarsi a mezzo; che avrebbe però voluto maturare colle [p. 40 modifica]Riforme il senso morale-politico del popolo, concorrere a suo tempo alla impresa della patria indipendenza, quindi svolgere compiutamente le franchigie rappresentative, siccome una necessaria conseguenza della politica nazionale, li giorno otto febbraio ei pubblicava le basi del suo Statuto fondamentale. Due di poi Pio IX indirizzava un’allocuzione a’ Romani, in cui, rassegnando loro l’attuazione di parecchie importanti riforme governative, protestava che quando una guerra ingiusta la fosse dichiarata «innumerevoli figliuoli, come la casa del padre, sosterrebbero il centro della cattolica unità». E conchiudeva colle parole solenni — il cui senso così presto quel pontefice dimenticava — «Oh! Benedite, gran Dio, all’Italia, e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la fede! Beneditela con la benedizione che umilmente vi domanda, posta la fronte per terra, il vostro Vicario.»

A dì quindici del mese istesso, Leopoldo II annunciava a’ Toscani quella maggiore ampiezza di vita civile cotanto conforme alle tradizioni del paese, antica culla di virtù e di sapienza.

La Italia chiedeva unità nazionale. Mediante il continovo pungolo popolare praticato or con pacifiche dimostrazioni, or con armate sommosse, eransi ottenute riforme di governo; ordinamenti comunali; milizie cittadine; ministeri laici, o liberali; la promessa di una lega doganale e politica tra gli Stati-riformati, quella di codici nuovi; costituzioni sancite. Ma, la lega italiana era rimasta un provvido disegno e nulla più; chi l’aveva iniziata era il pontefice — per consiglio e per opera di monsignor Corboli-Bussi — cui miralbemente addicevasi il sublime ufficio di unificatore nazionale nel collegare insieme que’ popoli che la libidine di dominio e la schiavitù avevano disgiunto. I novelli codici esistevano nelle sole promesse. E le costituzioni, venute l’una dopo l’altra, portavano tutte un marchio di diversa fattura. Pareva che ogni principe avesse voluto, migliorando il pensiero nell’opera sua, far dimenticare il passato non al certo lodevole. Lo Statuto piemontese correggeva l’articolo 30 della Costituzione napoletana collo abolire la censura preventiva per le opere filosofiche che trattassero di religione. Non esigeva che il deputato al parlamento si avesse dimora, o possesso nel distretto; guarentiva la inviolabilità del domicilio e il diritto di riunirsi; però, il modo con cui l’articolo 32 riconoscea siffatto diritto, non consecrava assolutamente quello solenne di associazione, del quale nessuna costituzione italiana mai fece parola.

D’altra parte dichiarava nel 1° articolo che «la religione cattolica-apostolica romana è la sola religione dello Stato; e gli altri culti esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». E lo Statuto toscano, coerente a certe massime di indipendenza religiosa esistenti nelle leggi dello Stato, ammetteva altro principio, altra parola, scrivendo; «gli altri culti sono permessi». Questo riconoscea ne’ cittadini ventunenni la libera facoltà d’inviare alla doppia assemblea petizioni e rimostranze; mentre la costituzione piemontese definiva un tal privilegio nelle sole autorità costituite, lo quali si avevano il diritto di esaminarle, mandarle o no al Ministro competente, o depositarle negli uflìzii per gli opportuni riguardi.

Ho voluto accennare di volo cotali differenze di dettato per far noto che lo [p. 41 modifica]improvvido esempio delle disunioni di eoncetto non venne dai popoli, sibbene dalle sofisticherie dei principi e de’ loro consiglieri; valea meglio che le costituziooi si fossero tutte assomigliate testualmente alla imperfetta opera del cavaliere Bozzelli. Con esse i governanti non pretendevano al certo di fissare il termine del nostro svolgimento civile; dovevano acquetare la suscettività negli spiriti riscossa dagli ultimi avvenimenti, e più operosamente applicarsi a costituire i forti mezzi pel conquisto della italica indipendenza.

Intanto, Francesco V, di Modena, e Carlo-Ludovico, di Borbone — il quale per la morte dell’arciduchessa Maria-Luigia era da poco assunto al ducato di Parma — rifiutando di mostrarsi principi italiani, sposarono la causa forestiera e inimica, collegandosi con un trattato offensivo e difensivo al gabinetto austriaco. Una vecchia leggenda alemanna narra che il dottor Faust, spinto da matta ambizione, di dottissimo che era, volle il suo ingegno si sollevasse al di sopra dell’umano confine e pattovì cogli spiriti inferni, perchè lo indiassero. Quei due principi imitarono l’uomo della leggenda; ed a correggere la propria pochezza, vendettero la loro esistenza al consiglio:aulico di Vienna, cui mirabilmente convenivano i patti. Imperciocché, i governi di Parma e di Modena, alleati dell’Austria, a lei davano la chiave degli Appennini, e per conseguenza le offerivano il destro di far più sicure e temibili le sue minacce ai principi costituzionali d’Italia. I due ducati vennero bentosto invasi da guarnigioni tedesche, e tedescamente i principi seguirono a governarli. Quello di Modena, per indennizzarsi delle spese che arrecavangli le truppe ausiliarie, addoppiò a’sudditi le imposte e le triplicò agl’israeliti, cui l’attività nel commercio e il soverchio della economia avevano procacciato immense ricchezze. E i Modenesi per trarne alcuna vendetta, deliberarono vestirsi co’ tessuti di mezza lana e di cotonine terriere, piuttosto che impinguare lo erario del duca, pagando dazi sui prodotti delle fabbriche austriache. Il Borbone di Parma vuotava le casse per appagare i suoi bisogni sempre crescenti e per assoldare gli antichi suoi dragoni lucchesi, abilissimi nel caricare il popolo inerme, i quali si consideravano l’avanguardo dell’armata tedesca. In ambidue i principi ignoranza de’ tempi, millanterie fuor di luogo, dissennato vivere; e se il più giovane troppo spesso falliva per la nessuna sperienza degli anni e per pessima gesuitica scuola, il più vecchio — erede delle superstizioni e delle fanciullesche smanie de’ suoi parenti — aduggiava con cotidiane follie spensierate le popolazioni che i trattati di Vienna gli davan soggette.

E l’uno e l’altro davano ricetto ai chercuti settari del dispotismo teocratico-politico che i sorti popoli cacciavano a furia dai loro paesi. Le loro subdole arti, note dapprima al ceto medio il più illuminato d’Italia, erano state a sufficienza chiarite anche al grosso delle moltitudini dai volumi di Vincenzo Gioberti. I Genovesi furono i primi a intimar loro lo sfratto. Il palazzo Tursi-Doria, dove i padri delle tenebre si avevano il collegio, venne incontanente occupalo dal quartier generale della guardia civica. In Torino la gioventù seguita da gran folla, cantando inni patriottici, dirigevasi in Dora-Grossa verso la loro casa. Il governo fece pregare il marchese Roberto d’Azeglio e l’avvocato Brofferio perchè volessero [p. 42 modifica]interporsi presso gli adunati romoreggianti e gli esortassero a disciogliersi. Questi per alcune ragioni si rifiutarono. Gl’ignaziani d’ambidue i sessi sgomberarono i loro stabilimenti, protetti dalle milizie cittadine e dalle stanziali; non si salvarono però dai fischi e dalle imprecazioni lanciate loro addosso dal popolo e dettate dal disprezzo e dalla lunga collera. In Sardegna, gli abitanti di Cagliari e di Sassari cominciarono per tumultuare sotto le case, ov’essi avevano dimora; quindi, gittarono granate ne’ loro fondachi e appiccarono il fuoco alle porte. Il municipio pregò il vice-re Delaunay di ferii sgombrare di colà onde evitare un qualche sinistro evento. Partirono di fatto per una loro casa di campagna; ma, di là mossero furtivi verso una nuova borgata, detta Carbonara — luogo di ricetto per gl’insulari che avessero espiato nelle galere i loro delitti — e quivi colle loro arti si diedero a concitar quella gente contro chi gli aveva altrove svillaneggiati. Il parroco del paesello ne avvertiva l’autorità; incontanente, vennero spediti i cavalleggeri perchè gli scortassero sino al lazzeretto di Cagliari; e siccome anche di colà si attentavano fuggire per ispargere ovunque il mal seme delle discordie civili, furono messi temporalmente a bordo della Staffetta, ancorata nel porto, e di quivi su due bastimenti partirono per Nizza e per Genova. Respinti, sbarcarono a Lerici ed a Spezia. Colà fischiati, schiaffeggiati, derisi. La milizia nazionale guarentiva a stento le loro persone; e quando con solleciti moti s’incamminarono in vettura alla volta di Parma e di Modena, le colline rintronarono al loro orecchio, a modo d’addio, le grida di «Viva Gioberti! — Viva la Costituzione! — Viva Pio IX— Viva l’Italia!» Spettacolo brutto, pur troppo meritato da un sodalizio d’uomini, il cui fomite, l’ambizione; i cui mezzi, la cabala e la bassa ipocrisia gli aveano dato libero accesso nella società, nelle reggie, per tutto, proporzionando in ogni loco infami suggerimenti, assassinando le riputazioni, abbrutendo al possibile la umanità per averla schiava soggetta.

Altri moti e di maggiore importanza avvenivano già da qualche tempo nelle province Lombardo-Venete. Cotesto territorio, comprendendo in sè l’antico ducato di Milano colla Venezia, e formante corpo con quell’agglomerazione di diversi Stati e di altrettante favelle — elementi opposti infra loro che costituiscono l’impero della casa d’Austria — trovava in Italia il suo limite sul Ticino e sul Po. La estensione della sua superficie è di quattro milioni e settecentomila ettare; la sua popolazione di cinque milioni di abitanti; il prodotto delle imposte — non comprese le tassi provinciali e comunali — di cenventicinque milioni circa di lire italiane. Il governo egoista, gretto e pesante de’ forestieri non aveva saputo — nel lungo periodo di trentaquattro anni d’insolente dominio — riscuotere da quelle popolazioni che una larga misura d’odio e di sprezzo. Aveva trovato in Italia un esercitò forte, disciplinato, agguerrito, compagno di gloria a quello di Francia; ed ei, disfacendolo, usurpava un valsente di cento milioni di franchi in apparati di guerra e marina. Veduto il suolo fertile e ricco, imponeva agl’Italiani un terzo delle gravezze dell’impero, quantunque non componessero che un ottavo della sua popolazione. Notata la prontezza dell’ingegno lombardo sì opposto alla tardività del germanico — viventi un Volta, un Oriani! — pose a capo delle [p. 43 modifica]accademie uomini nulli, e affidò le cattedre della università e de’ Collegi a gente indòtta e talvolta anche ignorante della lingua, colla quale dovea professare. La verga straniera; la compressione brutale, il cotidiano insulto fatto all’indole ed alla nazionalità de’ soggetti, congiunse gli animi lombardi in un voto solo, rompere le antiche, obbrobriose catene e riunirsi alla grande famiglia, da cui la forza gli aveva disgiunti. È quando Pio IX con una parola — di cui la meschina anima sua non presagiva il senso latissimo — disciolse i lacci de’ prigionieri, aperse agli esuli le porte del patrio nido ed operò che la religione e la libertà si abbracciassero sorelle dopo il lungo divorzio, quel popolo cominciò a dimostrarsi energicamente italiano. Un nuovo arcivescovo toglieva possesso della sua diocesi nel Duomo; e la folla ad accorrere per accompagnarvelo col canto dell’inno al pontefice benedetto. Il paese era schiavo; e nessuno aprì più le sue sale a veglie festose, nessun più bazzicò ne’ teatri e ne’ pubblici passeggi. Le Calabrie insorgevano al grido indignato dell’opulento patriota Romeo; e tutti ad adottare il cappello aguzzo alla foggia de’ contadini calabresi, i quali dalle giogaie de’loro monti rintuzzavano i truculenti sdegni del dispotismo napoletano. La polizia osservava tutto e si cacciava nelle ragunate di popolo per istizzirlo, per farlo prorompere, e con insidie scellerate per trovare occasione di far sangue sulla gente cui la giustizia de’proprii diritti era arma possente. Ma, la lotta legale, cominciata dalla magistratura civile, disciplinava le masse e le accostumava a seguire il dato impulso.

Fino dal 1845 era stata instituita nel regno una Congregazione centrale, presso la quale ogni provincia si aveva il privilegio di spedire due rappresentanti, l’un cittadino, l’altro patrizio; le città regie fruivano anch’esse dello stesso diritto. La loro scelta era fatta dai consigli comunali, e lo eletto dalla pluralità de’ sufragi — ove la polizia non avesse sospetti sur un tal candidato — veniva confermato con nomina sovrana. Giusta le promesse del regolamento organico, scopo principale de’rappresentanti doveva essere lo illuminare il governo sui veri bisogni delle rispettive loro province. Per lunga sequela d’anni, i membri di quella Congregazione, o parlarono a Vienna le parole che Vienna volea si parlassero — e gli ambiziosi, dottissimi in tale fraseologia, s’ebbero premio di siffatti servigi — o prudenti si tacquero. Il deputato Nazzari ruppe primo il silenzio, proponendo si redigesse una petizione al governo, onde ottenere le Riforme di cui il paese provava il più assoluto bisogno. La mozione fu fatta e rimessa al vice-re, onde la si dirigesse all’imperatore. Il bello esempio del deputato di Bergamo veniva imitato dal dottor Meneghini di Padova e dall’avvocato Daniele Manin di Venezia; il quale, non facendo parte della Congregazione centrale, dovette cedere la sua proposta al deputato Morosini per renderla legale. A tali ripetute prove di coraggio civile un’altra ne succedeva nell’Ateneo per opera di Niccolò Tommaseo. Questi lesse dinanzi a numerosa tornata accademica un lungo discorso, cui era subbietto il commento della legge austriaca del 1815 sulla stampa; ei provò quanto quella la fosse liberale e come schiava l’avesse renduta la polizia, che co’ suoi barbarici istinti tarpava le ali al pensiero, inchiodava la parola sul labbro e [p. 44 modifica]impediva i più onesti ed equi rapporti tra i governati e i governanti. Nel finire, egli aveva in una mano la legge imperiale che aveva chiosato; nell’altra la istanza già pronta per rimettersi al governo. Tutti pendevano dalla sua bocca; e quando disse la suprema parola:


«Firmate


ognuno slanciossi dalla scranna per apporre il proprio nome sotto quella scrittura. La quale fu dall’autore spedita al barone di Kubeck, ministro dell’imperatore in Vienna, accompagnata da un foglio assai dignitoso.

La risposta dell’aula fu quale potevasi attendere. Il consiglio presieduto dal principe di Metternich, facea dire all’automa Ferdinando I esser sua mente nel regno Lombardo-Veneto esistere una turbulenta fazione, il cui intendimento era lo sconvolgere l’ordine e la pubblica tranquillità. «Ho già fatto tutto ciò che credetti necessario per corrispondere ai bisogni ed ai desiderii delle rispettive Provincie, nè sono inclinato a fare ulteriori concessioni.... Confido nella maggioranza del Regno Lombardo-Veneto, che non saranno per avvenire altre disgustose scene. Ad ogni modo mi affido alla fedeltà e valore delle mie truppe.»

Cominciarono le angherie, i rigori, le persecuzioni d’ogni genere. Fra i notevoli imprigionati furono Tommaseo e Manin; e com’essi villanamente fossero tenuti dal direttor generale della polizia austriaca in Venezia, il lascia supporre una lettera di Teresa Manin, da cui tolgo il brano che segue:

«Dopo due lunghissimi giorni mi fu concesso di veder (ilio marito che trovai abbattuto di corpo, non già d’animo. Si commosse quando mi vide, e mi disse del gran freddo sofferto. E ne soffrirà ancora, perchè è senza stufa e mezzo ammalato. Ieri ebbe gran male di capo e vomito. Immaginatevi quant’io debba soffrire all’idea del suo male e come mi vada figurando il peggio. Di Tommaseo poco so, perchè non mi fu permesso vederlo: sarà alla stessa condizione di Manin.... Tutto è mistero e tenebre. Presentai un’istanza accompagnata dalla firma delle più distinte persone della città e da un certificato medico, domandando per Manin il piede libero: sono tre giorni, e ancora non ricevetti risposta. Ho voluto fare lo stesso per Tommaseo. Un amico di mio marito andò a Padova e si presentò al conte Andrea Cittadella Vigodarzere con una mia lettera che domandava la firma di lui alle due istanze.... Il Conte non solo rifiutò la sua firma: ma nè anche fece risposta alla mia lettera. Così ha trattato con una donna, con una moglie, colla moglie dell’avvocato Manin, in questi momenti. Veggo ora mio marito tutti i giorni e Io trovo più sempre indebolito di corpo; ieri poi!.... povera vittima! quando lo guardo mi si lacera il cuore! Che sarà di lui, che de’ miei poveri figliuoli, che di me stessa? Ho molti amici che cercano alleviare il mio dolore, ma poco vi riescono. Non crediate per altro che io sia avvilita. No; sono oppressa; ma, vado superba d’essere l’amica, la compagna di quell’uomo veramente antico. Tutta la città ha l’animo disposto per lui; chi lo benedice; chi lo chiama padre della patria; la mia casa da mane a sera è piena di gente: molte signore vennero al teatro [p. 45 modifica]in lutto; gli uomini, tutti in guanti neri; non si canta, non si balla, non si fanno mascherate».

Le visite domiciliari fatte all’avvocato Manin e al Tommaseo nulla fruttarono alla sospettosa polizia austriaca. Sempre più stizzita, imprigionava e precettava nel regno quelli che per ingegno e per ricchezze parea esercitassero maggiore influenza. Ma con siffatti aggravi gli animi s’inasprivano senza farsi sgomenti. L’unione di tutti maravigliosa. Un solo pensiero, un solo sentimento muoveva le popolazioni. Giungevano spessi rinforzi di truppe, e più spessi erano gli attacchi degli studenti e del popolo minuto co’ forestieri armati. Le strade di Pavia e di Padova furono pollute di sangue. Brescia era in grande scompiglio. I Bergamaschi ardevano di sdegno, e difficile riesci va il calmarli. Nessun paese tranquillo quantunque assiepato di sgherri. Molti, traendo profitto di tanta agitazione, non pagavano la tassa prediale: il governo faceva sequestri; ma siccome non v’era chi comperasse gli oggetti incamerati, le finanze imperiali cominciavano a ridursi a mali termini; e la gioventù dignitosa aiutava al loro disfacimento col non usar più tabacco da fumo, col vestir di velluto fabbricato da mani lombarde; e la povera gente non giuocava più al lotto. Oltre a ciò, lo istituto delle scienze produceva un rapporto sulla stampa e sulla pubblica istruzione, in cui si chiedevano riforme, pari a quelle non ascoltate della Congregazione centrale, suggerite dai tempi nelle scienze, nelle agricolture, nelle industrie e nel servigio sanitario.

Accadevano su quel torno i felici combattimenti dei Palermitani colle borboniche schiere; e le moltitudini empivano la Cattedrale per rendere devote azioni di grazie al Dio che fortifica i deboli e castiga, raumiliandoli, i superbi. Il governo volea vendicarsi di tanti insulti commessi contro l’autorità sua; e lanciava sul popolo inerme i soldati ubriachi, i quali mai provocati, nelle botteghe di caffè, dinanzi ai capannelli di gente, percuotevano a dritta e a rovescio senza ragione, alla deca; e molti i morti, moltissimi i feriti. Si sprigionavano eziandio da Santa-Margherita e da Costa-Nuova dugento mal vissuti; e, dato loro venti soldi e un mazzo di sigari, si mandavano in frotta sulle vie più frequentate per eccitare il popolo a fumare, per commettere soprusi sui pacifici cittadini, e così dar campo a’ cagnotti di polizia di riempire con oneste persone i posti ch’essi avevano lasciati vuoti. Il Bolza — uom freddamente crudele, capace di tutto per servire un governo che l’avea fatto cavaliere e conte in grazia dei molti suoi meriti dal 21 in poi — non osando escire all’aperto per tema di milanesi vendette, o di qualche equivoco di soldati briachi, stava nel suo covaccio della polizia per ricevere i numerosi arrestati ed istiparne le carceri. Di aspetto severo, corpulento, dagli occhi di fiamma, parea un di que’ ragni velenosi, che, dopo aver teso le loro fila, stanno rannicchiati nel buco, pronti a saltar sulla preda.

Infrattanto, il maresciallo Radetzky smaniava e tentava persuadere il governo che con tre giorni di sangue e due di saccheggio irapegnavasi ridurre tranquilla Milano colle province pel periodo di quarant’anni. Il vice-re era colto da spavento grandissimo. La polizia che aveva cacciato nelle prigioni e in esiglio una quantità di cittadini; che aveva inutilmente perquisito ogni casa mediante i più frivoli [p. 46 modifica]pretesti, onde trovar armi e fila di cospirazioni; che dissuggellava ogni lettera alla posta col proposito stesso, non sapendo che tentar più per infrenare i ricalcitranti alle sue volontà, chiese la legge stataria, vale a dire, un giudizio di morte, in cui i giudici non levano seduta finché il reo non sia giudicato, il che non eccedo giammai la durata di un giorno. La infame legge venne accordata. E siccome il governatore Spaur era per carattere mansueto e tranquillo, e l’arciduca Ranieri, debole e timidissimo, scorgendo vicina l’ora del terribile conflitto, partirono colle loro famiglie di Milano a corsa precipitata. Capi di una infernale politica rimanevano due uomini, i quali, inaspriti dalle novità non amiche che continuo svolgevansi sotto i loro occhi, profondendo doni e promesse, dando premio ai soprusi, l’uno alla testa de’ suoi soldati, l’altro di ribaldi avvezzi a ogni delitto, miravano a rifare in Lombardia le carnificine della Gallizia.

In quel tempo un fenomeno meteorico, rarissimo in Italia, apparve sull’orizzonte in gran parte sereno. La zona luminosa, formante un specie di mezza rosa celeste, di color rosso sanguigno ben rilevato sul fondo oscuro del cielo, parea prolungarsi sulla catena delle Alpi. Le stelle che risplendevano a traverso la meteora avevano una pallida luce, la quale facea bel contrasto con quella infuocata dell’aria. L’uragano magnetico irradiò l’orizzonte per la durata di un’ora, sino a che grosse e fosche nubi, levandosi dalle vette alpine, non lo coprirono agli sguardi de’ curiosi, commossi dal miro e nuovo spettacolo. Era la sera del 24 febbraio. I fenomeni di tal fatta vengono giudicati dai fisici a seconda del loro valore nelle cose ordinate della natura. Ma, siccom’essi presentano spesso una straordinaria coincidenza cogli avvenimenti sociali, gli abitanti nel settentrione d’Italia, nello scorgere quella larga macchia di sangue sul cielo, meditarono sur un avvenir non lontano, acconciandolo a’ lieti successi delle proprie speranze.

E i preveggenti non si apponevano al vero; imperciocché, al di là delle Alpi una grande espiazione era per compiersi.

La Francia, trionfante in Parigi sulle barricate di luglio, aveva cacciata in bando la famiglia de’ suoi re — cui le sventure nulla avevano appreso — e la corona della propria vittoria ponevala sul capo di Luigi-Filippo, d’Orléans; il quale da giovanetto aveva udito il primo grido di un popolo sorgente a libera vita; e veduto i gradini del trono chiazzati di sangue, e d’un sangue a lui caro; e nell’esiglio meditato sulla instabilità delle umane cose, quando quei che le reggono conculcano colle loro opere le leggi, i diritti e la dignità de’ soggetti. Nè il triste esempio dei suoi parenti, nè il grido della Polonia e della Italia sagrificate dal suo tradimento, nè i terrori di una esistenza minacciata sovente dall’ira de’ partiti, nè la morte immatura d’un figlio valsero ad infrenare quel principe sulla via delle corruttele e de’ materiali interessi, con cui in diecisette anni di regno aveva tentato abbrutire il popolo più sensitivo e cavalleresco di Europa. Questo con una serie di politici banchetti tenuti in ogni dipartimento, protestò severamente per molti mesi contro la riazione liberticida del di lui ministero, il quale, dimentico della missione civilizzatrice della Frància, collegavasi colle potenze del Nord contro la Polonia, la Svizzera e la Italia. Si chiedevano riforme elettorali e parlamentarie; [p. 47 modifica]si voleva mantenuto intatto il diritto della libera associazione. Il governo opjnava altrimenti; ei vietò la riunione pel banchetto riformista da tenersi nel XII quartiere della capitale, e notificò non essere sua intenzione di opporsi colla forza a tale trasgredimento, sibbene di permettere lo ingresso dei convitati nella sala, di far loro la intimazione di ritirarsi e i persistenti in quell’atto di rivolta chiamarli al giudizio supremo della Corte di Cassazione.

Il deputato Odilon-Barrot, capo dei riformisti nella Gammi, è un uom di legge, timido ne’ pericoli, privo d’energia, d’ingegno felice, per mestiere eloquente, e superbo de’ pregi de’ suoi discorsi, co’ quali allor non mirava che ad ottenere un momentaneo trionfo sul ministero, di cui nel cuore era spesso l’emulo, sempre l’amico.

Gli è perciò che nell’ora istessa, nella quale gl’italiani miravano rosseggiare sinistramente il cielo al di sopra delle Alpi, quell’ardito nel dire e nel far poco intero, non volendo togliere per sè la responsabilità delle conseguenze che mai potessero risultare dai provvedimenti presi dal governo, fece affiggere sui canti un bollettino a stampa, con cui pregava i buoni cittadini a volersi astenere da qualsiasi manifestazione, onde non servir di pretesto alle violenze governative. E assicurava che l’opposizione, conoscendo i nuovi doveri che la condotta ministeriale imponevate, aveva risoluto con un gran numero di deputati di porre immediatamente il ministero in istato di accusa.

Il luogo di convenio pe’ convitati all’agape di libertà e pe' militi nazionali che disarmati dovevano accompagnarceli, era il peristilo del tempio della Maddalena; su quel posto, il generale Tiburzio Sebastiani, comandante la 4° divisione militare, attelò due compagnie di fonti; parecchi reggimenti dispose sul baluardo e sulle vie che sboccano nella strada-reale per impedirne l’ingresso; e diè ordine a molti squadroni di corazzieri, di municipali e di ussari di porsi in ordinanza sulla vasta piazza della Concordia dirimpetto il ponte che mena alla Camera de’ deputati.

Questi non dovevano dar libero accesso che ai rappresentanti della Francia muniti della loro medaglia e perlustrare il largo viale de’ Campi-Elisi sino alla via di Chaillot, ove molti sergenti di città e soldati presidiavano il loco destinato al banchetto.

Piovigginava. I monelli ridevano di quell’apparecchio di guerra, e appressatisi a’ cavalieri, gridavano loro «Giù il ministero! Vivano le Riforme!». Quindi barricarono burlescamente di seggiole il viale de’ Campi-Elisi, e cominciarono a gittar fango e sassi sui municipali che si affannavano onde farli uscir dalla piazza. Gli studenti in massa, seguiti da molto popolo, si recavano dinanzi al ministero delle relazioni estere per protestare in favore delle riforme; le truppe riescivano a farneli allontanare; ma, giunti sulla via dì Rivoli, scomposero il lastricato, formarono barriere e si apparecchiarono a difenderle. Con vetture rovesciate, con mobili, con sassi altre barriere si costruivano lungo la via Sant’Onorato, e quella detta Vivienne. Le officine degli armaiuoli erano invase; le strade di San Dionigi e di San Martino si asserragliavano in ogni sbocco. Il quartiere del Tempio era chiuso su tutti i canti e difeso dal popolo armato. Gli scontri furono tra le due parti accaniti e durarono la notte ed il giorno dell’indomani. Nella seduta della [p. 48 modifica]Camera, assai tempestosa, lo impopolare Guizot disse dalla tribuna, il re avere incaricato il conte Molè di formare un nuovo ministero; sino a quel punto, egli rimanere a tutela dell’ordine e a far rispettate le leggi della nazione.

Lo annuncio della sua caduta riempì di esultanza il paese. La città illuminavasi a festa. Ognuno, scontrandosi, si abbracciava come per domestica gioia. Il plauso alle ottenute Riforme era senza fine. Ma, nella sera accadde una grande sventura che intorbidò la pace e cambiò onninamente i destini della Francia. I baluardi erano assiepati di gente che si ricambiava le novelle del giorno; quando ad un tratto udivasi lo scoppio di una pistola dinanzi la residenza del ministro Guizot; quindi la scarica di parecchi drappelli di fanti su tutti i punti del baluardo de’ Cappuccini. Molti i feriti, cinquantadue i morti, fra i quali, donne, bambini, uomini di eletta classe, e un ufficiale della guardia nazionale. La folla si allontanò in uno stante; ma, successo al primo spavento il furore, ritornò sull’insanguinato luogo, ne discacciò a furia i soldati; e posti i cadaveri sui carri schiarati da delle torce, gridando «Vendetta! Vendetta!» gli trascinarono dapprima sotto l’ufficio del National, e di là lungo i baluardi sulla piazza della Bastiglia. La rivoluzione procedette allora per rapidi fatti. Il sangue cittadino reclamava altro sangue, e l’ebbe. A cento a cento si rizzavano barricate per tutto, sin nelle vie le più anguste, le men minacciate. Gli alberi dei baluardi furono atterrati per chiudere il passo a’ fanti e a’ cavalli; i lampioni rotti; il romore della moschetteria assordava l’aere: battaglia continova, feroce, durante la notte.

L’indomani, le menti erano tutte sollevate; i tamburi della milizia nazionale battevano la carica. Gli abitanti di Versailles, di San Germano, di Rouen giungevano armati per la strada di ferro. Si dava ló assalto al Palazzo-Reale, ai corpi di guardia, alle caserme dei soldati; uomini, donne, fanciulli correvano al pericolo, alla morte, al trionfo con indifferenza grande. Alle ore dieci del mattino, Thiers e Odilon-Barrot, dichiarati ministri, percorrevano a cavallo la città, arringando il popolo e annunziando le Riforme accettate. Que’ dabbenuomini non si avvedevano che il regno della cabala — almen pel momento — era defunto. Si ritrassero salutati dai fischi, e da minacce d’insulto maggiore. Il vecchio re era costernato, la corte compresa di spavento. Un tal Sobrier, uomo ignoto nella vigilia, notissimo a’ popolani che allor capitanava sulle barricate della via di Rivoli, fu richiesto per parte di Luigi-Filippo a non volersi opporre alla di lui abdicazione in favore del conte di Parigi colla reggenza della duchessa d’Orléans; si assicurava con ciò un’amnistia generale, la dissoluzione della Camera, lo appello alla nazione. E quegli, che i successi rendevano arrogante, rispose;

«È troppo tardi! Viva la repubblica!»

Il combattimento ferveva sulla piazza del Palazzo-Reale tra i municipali che lo tenevano, il popolo che lo stringeva d’assedio, e un battaglione di fanti che facea fuoco dal corpo di guardia. Le carrozze di corte servivano di riparo alle turbe de’battaglieri popolani. Quivi apparve, per la via de’ Freddi-Mantelli, il deputato di Girardin, compilatore del giornale la Presse. Egli gridava «Pace! Pace!» e mostrava in un foglio — fradicio ancora d’inchiostro ed infilzato sur [p. 49 modifica]una lama di spada — l’atto dell’abdicazione del re. Tutti risposero; «Viva la repubblica», e riunendosi in uno sforzo estremo, penetravano nel Palazzo-Reale, ne disarmavano i difensori, e, gittando dalle finestre i ricchi mobili, i quadri, le masserizie, gli davano al basso preda alle fiamme.

In quel mentre, la duchessa d’Orleans, col conte di Parigi e il duca di Nemours, esciva dalle Tuilerie e a piedi avviavasi verso la Camera dei deputati. La folla le fece ala e la inchinò nel breve tragitto. A tutti eran noti i sensi della di lei bontà e rettitudine. Gente estranea entrò nella sala con essa. Il Dupin, salito alla tribuna, annunziò il nuovo re, e invitò i suoi colleghi a proclamare la reggente in nome del popolo. Il Cremieux protestò contro un siffatto proponimento; disse il popolo aver vinto; ei dunque si consultasse sulla forma del suo governo; ed intanto se ne stabilisse uno provvisorio. A lui rispose Odilon-Barrot in favore della reggenza, ciò che punto soddisfaceva il Marie, il quale si pronunciò in favore di un governo provvisorio, finché non si udisse lo avviso della interpellata nazione. La duchessa che aveva il figliuolo tra le braccia, chiese parlare alla sua volta; ma non potè farlo; chè le pubbliche tribune e la sala furono d’un tratto innondate da gente furiosa, disordinata, briaca dell’ottenuto trionfo, urlante ed in armi. Il Lamartine corse alla tribuna; a lui succedettero il Dupont, de l’Eure; il Ledru-Rollin, alcuni popolani; ma, lo schiamazzo che regnava era sì grande che nessuno potè più farsi udire. La duchessa col figlio e il duca di Nemours, si ritrassero illesi ed a stento da quella confusione. Il Lamartine, il Cremieux, il Dupont e il Ledru-Rollin andarono nel Palazzo di città, portati dalla folla come in trionfo e acclamati, al loro passaggio, dalle grida di «Viva la repubblica! ».

Le truppe, cedendo al movimento divenuto universale, affratellavansi co’ cittadini. Il re, sprofondato dal dolore, abbandonato da’ suoi cortegiani, esciva colla moglie, colle principesse e co’ nepoti dalle Tuilerie e trovava ricetto in Inghilterra. I Borboni di Francia contano tre grandi cadute; ma, se le due prime furono compiante, l’ultima passò inavvertita. Imperciocché, Luigi-Filippo, divenuto re, gli antichi amici punto curando, si mostrò ingrato con essi; e, udendo malvagi consigli—che pur erano i suoi—tentò sempre di spegnere colla corruzione odia media classe, col nerbo dello esercito nella infima, qualsifosse desiderio di sodali novità, attuate altrove, od attuabili nel regno. La sua scelta era stata una esperienza per la nazione; per molti avvocati e banchieri una speranza al salire nelle ambizioni e nella fortuna; un’arra di dominio per molte famiglie patrizie, le quali ogni supremo bene ripongono negli usi e ne’ diletti di corte. In un giorno tutto queste svariate fedi sparirono come lampo. E mentre gli sposseduti per la fuga del re e per la cecità sua, trepidavano sulle sorti avvenire, alcuni che il favor popolare aveva spinto al potere, congegnavano le basi di un governo più largo, quello di tutti e per tutti. I combattenti dei tre giorni, frementi di entusiasmo, acclamarono il grande principio e lo imposero alla Francia scompigliata ed attonita. Ma, lo erario era vôto; il credito abbattuto; molte fortune infrante; sgagliardito il commercio; arrestate le industrie, e per siffatti mali [p. 50 modifica]moltissimi gli scontenti, infrenati sol dal timore di eventualità anche più triste. Un solo fra i nuovi rettori rabbonacciava alquanto gli spiriti sconfidati; e questi era il Lamartine, che coll’arte della parola, colla nobiltà del carattere contraponeva gran peso nella dubbia fede de’ suoi colleghi.

Ho descritto con brevità e con pienezza i moti francesi, perchè essi furono una necessità emergente dalle manifestazioni italiane; quindi, la rivoluzione di Parigi, perchè fu una conseguenza del siciliano rivolgimento. E siccome quel gran popolo ha ne’ suoi mutamenti politici una espansività senza confine, gli altri di Europa — i cui diritti non erano abbastanza guarentiti od oppressi — si affidavano ad imitarlo.

E i Romani furono i primi a rappresentar devotamente le loro speranze al pontefice. Nel Circolo veniva compilato un indirizzo, mediante il quale chiedevasi, co’ termini i più convincenti, la sollecita concessione di uno Statuto e di un ministero omogeneo, compatto, liberale, non minore alla gravità degli eventi. Il senato e il consiglio dell’alma città un altro ne redigeva col proposito istesso. Il pontefice accolse que’ voti, e sicurò il senatore principe Corsini che in breve avrebbe esattamente tracciato la linea, la quale dovesse distinguere le due grandi dignità che in lui si accoppiavano, il capo del cattolicesimo ed il re. E nel vero; s’evvi governo di principe che meglio abbisogni di una formale Costituzione, gli era per l’appunto il suo; avvegnaché, essa fornisse un’assoluta indipendenza alla potestà delle somme chiavi e rendesse irresponsabile nel poter temporale la sacra persona del rappresentante di Dio sulla terra di quelle diplomatiche pecche che mai potessero farle ingiuria. Lo Statuto venne accordato a’ dì quattordici di marzo, e con entusiasmo grande ricevuto dal popolo.

Onde me’ chiarire co’ fatti il carattere subdolo e gesuitico del romano principe — il quale più tardi poco piamente asseriva aver avuta forzata la mano per la concessione dello Statuto — narrerò cosa a niun politico ignota e che la di lui coscienza — checché pur vi si adoperi — non saprà mai smentire. Era la vigilia della notificanza del patto; e il novello ministero pregava la Santità sua a volerglielo fare palese, affinchè — ove mai vi fossero articoli contrari alla propria opinione—potesse dimettersi pria che venisse fatto di pubblica ragione. Il principe rispose: «Illimitata è la fiducia che abbiamo in voi; onde, nessuna difficoltà a soddisfare alta vostra domanda. Pur, vi consigliamo ad attenderne la pubblicazione, acciò non s’abbia mai a dire che alcun laico avesse esercitato la benchè menoma influenza per la concessione, a pel compilamento dello Statuto». Di fatto, tre concistori, riunitisi per deliberare su tale faccenda, risposero a Pio IX che la forma del suo governo avesse ad essere costituzionale, ed egli nominava una commessione di cinque prelati per la redazione dello Statuto. Nessun laico v’ebbe parte, neppur di consiglio; per sino le dimostrazioni popolari si tacquero sino al giorno in cui la curialesca autorità s’ebbe le ali tarpate dalla promulgazione del nuovo patto cotanto desiderato.

I gesuiti di Roma — che cotanto aveano brigato onde que’ pubblici voti non fossero compiuti, e nella loro chiesa predicato contro i liberali, chiamandoli atei e [p. 51 modifica]perversi — ebbero dai Plebiscito nazionale la intimazione di sgomberare della tenebrosa loro presenza la sede dello italico rinascimento. Gli alleati dello straniero partirono alla spicciolata e di notte, e i nemici della loro setta provvidero acciò la popolare sentenza venisse eseguita senza scandali e senza offesa alla religione, di cui queglino immerìtamente si diceano ministri. I gesuiti di Napoli quattro dì innanzi avevano lasciate le loro case tra le maladizioni del popolo, il quale volle minutamente accertarsi che nulla portassero via dai locali poco stante abitati. Così, i figliuoli della morte — che sì a torto diconsi di Gesù che è via, verità e vita — andarono in bando da tutta Italia, seguiti dalia mestizia di pochi devoti od ipocriti, dalla contentezza di ogni onesto cittadino e dallo sdegno di milioni d’uomini che da essi ripetevano i mali dei patiti governi.

L’annunzio della rivoluzione di Parigi risvegliava per intanto lo entusiasmo delle popolazioni germaniche. Dimostrazioni imponenti e minacciose accaddero in Baden, ove si ottennero libertà di stampa, guardia nazionale e la istituzione dei giurati. Il re di Wurtemberga dovette abolir la censura. Il duca di Nassau fu costretto a promulgare uno Statuto assai liberale. E in Francoforte, in Vormazia, in Magonza, in Monaco, in Dresda, in Berlino fu tale l’agitazione, che i principi vennero forzati a conformarsi ai desiderii e ai bisogni de’ loro soggetti.

Re Carlo-Alberto passava una rivista di truppe, quando gli giunse il dispaccio del Brignole-Sale che a lui narrava gli avvenimenti di Francia. È fama, impallidisse, e dicesse al vicino ministro: «Lo abbiamo dato in tempo lo Statuto!». Incontanente accordò alle due Camere la facoltà di riformare la Costituzione in quelle parti che più sembrassero difettose; emancipò gl’israeliti e i valdesi; ordinò campi di osservazione sulle frontiere; promulgò un’amnistia generale.

Il solo consiglio aulico di Vienna rimase fedele alle sue tradizioni d’immutabilità, e fece noto all’Europa «che il cambiamento di governo verificatosi in Francia era considerato da S. M. l’imperatore come d’interesse interno di quel paese; ma, però intendeva tutelare i suoi sacri diritti e non ridurre il suo impero benedetto da Dio ad uno stato di perturbazione che lo renderebbe facile preda agli attacchi d’ogni nemico». Il principe di Metternich dettava in mal punto quelle arrischiate parole; chè, le forze dell’assolutismo declinavano ad ogni istante. Sui canti della capitale erano scritte col carbone le seguenti minacce: «Viva Pio IX! Vogliam le Riforme! Vaterland! freiheit!— patria! libertà! — Viva la Costituzione! » A’ dì dodici marzo, meglio di mille studenti italiani, ungheresi, tedeschi e slavi, convenivano nella Università per sottoscrivere una petizione diretta all’imperatore, onde avere libertà di stampa e di studi, con molte scolastiche e politiche novità. Alcuni professori s’interposero, promettendo farsi interpreti di que’ voti all’autorità superiore, e l’indomani, a mezzodì, la risposta. La scolaresca appagata si sciolse, gridando «Evviva Pio IX!». L’indomani, gli studenti certi delle ingannevoli lusinghe del giorno innanzi, accompagnati da un numero grande di persone, si presentarono al palazzo degli Stati, e ad una voce chiesero la Costituzione, la libertà di stampa e di culto, la libera trattazione degli affari, il cambiamento [p. 52 modifica]del ministero ed altre simiglianti modificazioni. Alcuni studenti perorarono la causa del popolo; parecchi rappresentanti della Dieta che si avventurarono a rispondere per esortare le moltitudini alla quiete ed all’ordine, s’ebbero fischi ed insulti. Allora un diplomatico si fece alla finestra per promettere nella dilazione di poche ore importanti provvedimenti di governo. Il popolo si avvide quali fossero i disegni del tirannico consiglio, scorgendo nelle vie il passaggio rapido di molte truppe e delle artiglierie dalla miccia accesa. I fondachi furono incontanente chiusi; bentosto formaronsi attruppamenti armati che con grida e gesti furibondi invasero e devastarono il palazzo degli Stati; quindi si avviarono alla casa del Metternich, in Landstrasse, per chiedergli conto dei milioni di debito co’ quali aggravava il paese. Il ministro, scosso dallo strepito delle armi e della pubblica vendetta, rifuggiva co1 suoi a’ più segreti penetrali della propria abitazione, e là commetteva la propria salvezza ai granatieri italiani, i quali fornivano la guardia del palazzo; e que’ bravi — sdimenticando le gravi offese che nel lungo periodo di trentaquattro anni il dispotico ministro aveva arrecato alla loro patria infelice — a lui fecero cerchio della persona nell’escir dal palazzo, assicurandogli talmente una vita di confusione e di rimorsi. Lui scampato, la furente moltitudine volle rovistare, demolire, porre in ruina il luogo ove erasi sì a lungo annidato il rovinatore delle sorti de’ popoli; e le ricche supellettili furono infrante, arse le carte e i tappeti, rotte e devastate le mura. La vaudalica impresa cresceva l’animo agl’insorti; i quali, sentendo farsi i desiderii più ardenti sulla caduta delle antiche autorità, e sullo spezzato fren delle leggi, correvano a furia verso il Palazzo imperiale per ripetere lo insulto; ma, quivi erano a guardia altri soldati italiani, che colle armi al braccio dichiararono fermamente di non far fuoco sul popolo, servire di scudo alla famiglia dell’imperatore e non altro. La turba nèl ritirarsi di là tutta commossa dall’attitudine di que’ generosi, ode non lungi H rumore della moschetteria; e il suo mobile ingegno, d’intenerita che era, la fa disperata. Ognuno si urta, si spinge verso l’arsenale, verso le proprie case e verso i fondachi degli armaiuoli per munirsi di oggetti da offesa. Le truppe traggono spietatamente addosso agli ammutinati e molli cadono feriti e morti. Alle porte della città vengono collocate numerose artiglierie per impedirne Io ingresso. Ne’ sobborghi — tranne quello di Leopoldstadt — la rivoluzione infierisce e particolarmente in Mariahilf, ove le schiere fedeli fanno fuoco di moschetto dalle scuderie imperiali. Il comandante generale arciduca Alberto presentasi a cavallo alla testa di una compagnia di zappatori, e tenta placare la popolare effervescenza; gli studenti rispondono volere ad ogni costo la Costituzione. È ordinato il fuoco, cui succede una scena di massacro tremendo dalle due parti. Altre truppe accorrono e si assembrano, disarmate però ben presto dallo esempio degli artiglieri viennesi, i quali, nel plauso de’ sollevati, tolgono le baionette dai loro archibugi al comando di muovere alla carica. Durante la notte vi fu luminaria generale per solennizzare il fausto evento della fuga precipitosa del principe di Metternich. Tanta reliquia d’affetto lasciava nel suo paese natio quell’uomo d’ingegno minuzioso, cauto e mezzano, ch’ebbe fama e sventura [p. 53 modifica]dalle necessità del presente, da lui procacciate, non antivedute giammai. Le milizie si ritirarono nelle caserme, e presidiarono il Palazzo imperiale. Il popolo armato e vittorioso tutelava l’ordine ne’ sobborghi, secondo il vario senno di quei che la ventura e l’ardire avevano fatto suoi capi il di innanzi.

La lutta continuava anche il giorno quattordici. L’arciduca Alberto veniva dimesso dal comando generale e surrogato dal principe di Windischgraetz. Nominavasi il conte Hoyos generale della guardia cittadina, la quale già rassegnavasi a venticinque mila uomini. Verso sera erano pubblicati i decreti sulla convocazione degli Stati e sullo abolimento della censura.

La rivoluzione di Vienna — cui facevano eco le parziali sommosse degli Stati riuniti — era un fatto cotanto strano, che appena pareva credibile. Ognuno stupiva nell’udir come un popolo che l’astuto dispotismo aveva ammollito colle orgie, colle voluttà, colle abitudini feudali, e spaventato co’ tormenti della più raffinata crudeltà, si fosse un giorno rizzato puro e decoroso di virtù cittadine colla minaccia sulle labbra e nel pugno al cospetto de’ suoi politici tentatori. Cosi, Iddio! Gli auspici! che avean presieduto a que’ moti sortivano la origine stessa de’ nostri; la religione del vero immutabile sposata all’amor patrio, rovesciante in un abisso il seggio della dispotica ipocrisia.

I grandi avvenimenti occorsi in Italia e fuori — che come tremuoto scuotevan la terra — non potevano rimanere celati agli abitanti nella Lombardia e nella Venezia, che anzi, per mille mezzi, le novelle penetravano al di là della custodita frontiera. Erasi saputo il trionfo di Palermo, poi quello di Napoli. Spargevasi in seguito la voce delle Costituzioni date a’ Piemontesi, a’ Toscani, a’ Romani e della proclamazione della Repubblica in Francia. Giungeva quindi in Milano un dispaccio telegrafico dalla capitale austriaca che il governo portava a pubblica notizia in tai termini:

«Sua Maestà I. R. l’imperatore ha determinato di abolire la censura e di far pubblicare sollecitamente una legge sulla stampa, non che di convocare gli Stati de’ Regni Tedeschi e Slavi e le congregazioni centrali del Regno Lombardo-Veneto. L’adunanza avrà luogo al più tardi il 3 del prossimo venturo mese di luglio.

«Milano, 48 marzo 1848.

«Il Vice-Presidente,
«O’ Donnell.»

U popolo milanese, agitato da continova febbre, non resse al nuncio delle imperiali promesse che a lui parvero un insulto, uno scherno. Il sentimento della propria dignità lo cacciò fuor delle case, delle officine; in un attimo fu redatto un indirizzo al municipio, in cui per esso chiedevasi al potere l’abolizione della polizia, concentrandola nel corpo municipale-, la libertà del pensiero; la guardia civica; l’abrogazione della legge stataria e lo instantaneo sprigionamento de’ detenuti politici; la reggenza provvisoria; la formazione di una rappresentanza nazionale; la neutralità delle truppe austriache, cui si sarebbe guarentita la sussistenza. Cotesti patti venivano energicamente rifiutati da chi reggeva il paese per l’Austria e davasi ordine a un centinaio di birri, guidati da un vecchio [p. 54 modifica]uffiziale, di custodire il palazzo della polizia. Allora nella strada de’ Pennacchieri alcuni arditi cominciarono a scomporre i lastroni e i ciottoli del selciato per formarne barriere. Le donne d’ogni condizione gittavan loro dalle finestre coccarde tricolori e medaglie votive al Pontefice. II palazzo di Santa Margherita fu attaccato, invaso; e l’archivio della polizia arso in parte cogli stipi e co’mobili ch’entro trovavansi. Un grido di rabbia a lungo represso echeggiò per le vaste contrade 13 «Viva Italia!» cui un altro rispondeva e più impetuoso d’assai «Fuori i barbari !» E il vessillo nazionale sorgeva sulle barricate che già asserragliavano le vie della bella città.

Il furore ministrava le armi. Vecchie sciabole, pistole, archibugi da caccia, tegole, sassi, tutto era buono per correggere le antiche ingiurie. L’audace impresa fece credere all’inimico il pericolo più grave di quel che realmente si fosse; laonde, dopo il fuoco della prima giornata, il maresciallo Radetzky si provò colle a minacce di domare i concitati spiriti e scrisse al municipio fosse disarmato il popolo; e aggiungeva:

«Mi riservo poi di far uso del saccheggio e di tutti gli altri mezzi che stanno in mio potere per ridurre all’obbedienza una città ribelle; ciò mi riescirà fecile, avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di cento mila uomini e duecento pezzi di cannone.»

Il suono delle campane a stormo fu la risposta dei Milanesi. Allora i nemici si chiusero in castello, traendovi a forza tutti quei cittadini che, smaniosi di novelle o di ordini, vennero presi nel riconquistato palazzo di città. Di quivi il Radetzky spinse i suoi armati — i quali nel vero sommavano a 46,000 uomini— sulla linea dei bastioni, alti terrapieni interni guerniti di alberi che, circuendo Milano, la separano dalla campagna. Presso ogni porta dispose grosso presidio con artiglieria, e ordinò che per le ampie strade, aprentisi loro dinanzi, muovessero risolutamente allo assalto delle barricate. Ma, dietr’esse erano i popolani che le proprie posizioni difendevano con accanimento grande. L’avvocato Enrico Cernuschi — giovane bravo, onesto, amato e rispettato da tutti, guida e consiglio ne’ comuni disegni — si moltiplicava per ogni dove, provvedeva alle armi, preparava in loco sicuro il quartier generale della insurrezione, riconduceva al suo posto il Podestà — ritemente de’ fatti illegali che allora si commettevano contro l’autorità costituita — e co’ buoni patrioti insisteva perchè si stabilisse un governo atto a bisogni del momento.

Sul podestà di Milano, conte Gabrio Casati, dirò molto in brevissimi detti. Egli era padre di due figliuoli; ed uno mandavalo ad erudirsi nella università d’Innsbruck e l’altro collocavalo nell’artiglieria piemontese. Quando se gli offersero i trecento gendarmi lombardi, vogliosi di concorrere alla cacciata degli stranieri, scriveva al Torresani-Landsfeld — il capo della polizia austriaca — per domandargli permesso di accettare la offerta. E allorché si pensò alla urgente necessità di stabilire un governo provvisorio, dopo molte esitanze, ei nominava una congregazione municipale, la quale alle ore otto della sera del 20 marzo emanava il seguente proclama:

[p. 55 modifica]«Considerando che, per la improvvisa assenza dell’autorità politica, viene di fatto ad aver pieno effetto il decreto 48 corrente della Vicepresidenza di Governo col quale si attribuisce al Municipio l’esercizio della polizia, non che quello che permette l’armamento della guardia civica a tutela del buon ordine e difesa degli abitanti, s’incarica della polizia il signor delegato Bellati, e in sua mancanza, il signor dottore G. Grasselli aggiunto, assunti a collaboratori del Municipio il conte Francesco Borgia, il generale Lecchi, Alessandro Porro, Enrico Guicciardi, avvocato Anseimo Guerrieri, e conte Giuseppe Durini». Quel magistrato non aveva la scienza delle rivoluzioni; e, mite, debole, officioso per natura, non seppe alzar l’animo all’altezza dei casi.

I combattenti chiedevano però altri uomini risoluti ed energici. E un consiglio di guerra sollecitamente instituivasi composto da Giulio Terzaghi, Giorgio Clerici, Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi. La pugna facevasi allora più conseguente allo scope. I prigionieri tedeschi vennero trattati dal popolo con molta umanità; mentre i nostri, caduti in mano dell’inimico, erano barbaramente trucidati. Tutte le contrade che potevano abbarracsi, io furono; nelle larghe vie, ove molto tempo richiedessi per farlo, i monelli gittavano sul selciato chiodi acutissimi a tre punte—i cosi detti triboli —congegnati in modo a presentarne sempre una valevole ad impedire le cariche della cavalleria. Ne’ luoghi più esposti allo assalto de’ tedeschi eransi apparecchiate nelle case alcune pompe per versare loro sul viso una terribile pioggia di acido solforico. Ogni finestra avea combattenti che bersagliavano le nemiche pattuglie, e molte donne dall’infima all’alta classe sociale furono vedute — armate di pistola o di moschetto — spargere la morte nelle avverse file.

Al terzo di il maresciallo spediva un maggiore croato a suo parlamentario. Il Casati intendeva accettare un armistizio di quindici giorni; gli altri vi si rifiutarono. La buona fede del Radetzky non poteva più illudere alcuno; imperciocché, dinanzi lo stesso ufficiale straniero, un prete accorreva per avvisare come un suo compagno predicatore, nella chiesa di S. Bartoiommeo, fosse stato ucciso insieme con molte donne e bambini che colà si trovavano. Il dado era tratto.

Gli era mestieri giuocar la partita sino alla vittoria. Il Municipio assunse ogni potere. Al consiglio di guerra veniva aggiunto un comitato di difesa, composto d’uomini coraggiosi e volenti. Le barriere si accrebbero; più numerosi i difenditori; le armi ritolte a’ tedeschi, contrassi si ritorcevano; la polvere, le palle si davano in abbondanza ai battaglieri, poi che gli edifici, ove in gran copia le munizioni erano accatastate» caddero in potere de’ popolani. Si pensò comunicare a que’ di fuori le liete novelle di dentro, e per ciò fare si spedirono palloni volanti che recassero a’ campagnuoli intercettati e agli abitanti de’ paesi vicini i proclami milanesi. L’un d’essi diceva;

«Fratelli! La vittoria è nostra. Il nemico in ritirata limita il suo terreno al castello e ai bastioni. Accorrete; stringiamo una porta tra due fuochi e abbracciamoci».

Ed un altro ancora:

«Noi gittiam dalle mura questo foglio per chiamare tutte le città e tutti i [p. 56 modifica]comuni ad armarsi immantinente in guardia civica, facendo capo alle parrocchie, come si fa in Milano; e ordinandosi in compagnie di cinquanta uomini, che si eleggeranno ciascuna un comandante e un provveditore, per accorrere ovunque la necessità della difesa lo imponga. Aiuto e vittoria!»

Quegli aerei messaggeri istupidivano vie più i croati, che gli vedevano minacciosi sorvolare sulle loro teste, e cadendo su lontane comuni in Lombardia, nel Piemonte, nel Piacentino, erano segnale di sollevamento e di fremito. Dalla Svizzera accorsero ben cinquecento armati. Ne vennero ancora di Como, di Monza e di Varese. Eia porta Tosa fu stretta d’assedio dalla parte esterna della città e contemporaneamente dalla interna. I nostri, malgrado lo spesso tuonar delle artiglierie, avanzavano sempre e guadagnavano terreno. Alcuni ingegneri avevano inventato barricate mobili che proteggevano i feritori ognora incalzanti. Praticando interne comunicazioni nelle case a diritta, gli animosi penetrarono ano all’ultima che ha di rimpetto il corpo di guardia della porta e sotto aveva i soldati. Dalle finestre di quella casa e dal tetto, essi fecero strazio de’ loro nemici con un fuoco incessante di moschetteria e con alcune bottiglie di birra attorniate da un grosso strato di gesso, le quali caricate a mitraglia e gittate al basso colla miccia accesa, davano un terribile scoppio e più terribile distruzione facevano. Dopo lungo, ostinato conflitto, la porta cadeva in potere dei nostri, guidati all’assalto dallo intrepido Luciano Manara.

Era già nostro il Duomo, d’onde i tirolesi furono fatti di viva forza sloggiare. Luigi Torelli e Scipione Bagaggia avevano sulla sua aguglia innalzato il nazionale vessillo. Nostri il palazzo della Corte, quello di Finanza, de’ Criminali, la piazza dei Mercanti. Al Genio vi fu accanito combattimento; ma le truppe dovettero cedere non al numero, sibbene al coraggio straordinario di pochi uomini, tra i quali noterò a memoria d’onore il nome del popolano Sottocorni, che arditamente muoveva incontrò al grandinar delle palle col nome allor prestigioso di Pio IX sul labbro, col sentimento profondo della nazionalità nel cuore. Il nemico cominciava a ritirarsi già da ogni parte; penuriava di viveri; e disteso siccom’era lungo la cerchia de’ bastioni — linea di dodici chilometri all’incirca — riesciva sempre più malagevole ai capi il fornirne agli affamati soldati; e non avendo tregua nè notte, nè di, questi erano sfiniti dalle fatiche, dagli stenti, dal sonno. Un valente giovane, il Colombo, erasi impossessato, non lungi della dogana di Viarenna, di una parte del bastione. La porta Comasina, assalita dal di fuori e di dentro, non avendo potuto resistere al doppio urto, cedeva ai campagnuoli che l’aprivan di forza. Gl’imperiali si erano perciò trovati disgiunti sulla curva de’ terrapieni. Ove più a lungo l’avessero occupata, la battaglia del popolo sarebbe stata quivi finita. A fitta notte si ritiravano nel castello. Questo venne assalito, e dopo parecchie ore di fuoco, espugnato. Il nemico escì fuori offeso vivamente dalle archibugiate del popolo. Il maresciallo tenne consiglio. Ei conosceva da qualche tempo la nuova politica e le ambiziose mire di re Carlo-Alberto; ma assai più temeva la effervescenza del popol suo. Le truppe regie pertanto potevano giungere da un momento all’altro. Gli esploratori gli recavano triste novelle della [p. img modifica]ATTACCO DI PORTA TOSA IN MILANO [p. 57 modifica]insurrezione di fuori. Il disordine e l’ammutinamento guadagnavano il suo esercito.

La città imbaldanzita diventava sempre più inespugnabile e forte. Onde, divisi i soldati che gli rimanevano in tre colonne, si avviò verso Lodi colle artiglierie, co’ bagagli, co’ molti feriti, con più di trecento famiglie d’ufficiali, cogli sventurati suoi statichi, e cogl’impiegati stranieri .che ancora insultavano alla terra de’ lunghi patimenti e della combattuta libertà. Ma per celare la sua ritirata e per allontanare al possibile un attacco sanguinoso alle spalle, fece battere tutti i tamburi, tuonare tutte le sue artiglierie ed ardere gli edifici che trovavansi alla sua portata.

I cinque giorni delle cittadine battaglie erano costati allo esercito imperiale ben quattro mila morti. I quattrocento cannonieri si riducevano a cinque il dì della fuga. Noi non avemmo a lamentar molte perdite presso le barricate, ove si tentò far rinascere più glorioso e più grande lo amor della patria. Ma, ne patimmo assai gravi per le atrocità commesse dai soldati tedeschi, che ne’ punti interni più vicini alle porte della città, ne’ sobborghi e nel Castello commisero prove della più efferata barbarie. Intere famiglie derubate ed arse nelle loro case; bambini in fasce palleggiati e raccolti sulla punta delle baionette; donne ridotte brutti cadaveri e strettamente legate alla persona del vivo marito; altre oscenamente insultate nel corpo al cospetto de’ padri, degli sposi, de’ figli; prigionieri mutilati in barbaro modo, od acciecati, o massacrati. Nella seconda corte del Castello a destra fu rinvenuta una diligenza con un calesse, svaligiata la prima, l’altro bruciato; non lungi erano sette cadaveri d’uomini spogliati in parte e stranamente atteggiati; due gambe femminili, che dalla dilicata carnagione e dalla eleganza della calzatura dovevano aver appartenuto a persona agiata e distinta, annunziavano la morte di due giorni; nella diligenza era uno scialle coperto di fango e di sangue, ed in un fosso d’acqua corrente altre membra donnesche. In alcune cascine a due miglia della città, contadine dalle orecchie e dalle dita mozzate. La fierezza non mai satolla di strazi, disposatasi all’avarizia! I soldati italiani nel primo dì del combattimento, o trassero in aria, o rifiutaronsi di caricare i loro fratelli. Chiusi nel forte, vi stettero per quattro giorni senza cibo alcuno, e mezz’ora prima che il maresciallo sgomberasse da quel covaccio di fiere, stenuati e mal certi sui piedi, vennero cacciati di prigione e a poca distanza moschettati. Ho descritto orrori incredibili, pur veri!.... Il soldato, fatto feroce per la morte de’ suoi compagni, toglie per sua propria la causa cui serve, e a’ nemici palesasi allora aspro, crudele, disnaturato; ma, ei divien mostro orrendo, indomabile, quando i capi che il debbono frenare, lo scatenane invece a’ mali atti. Onde, abbominevol peccato di lesa—civiltà commisero i tristi che a’ loro inferiori ritolsero il freno della disciplina e pensatamente gl’imbestiarono.

Dopo tanta vittoria — che l’impeto e la necessità avevano operata — i Milanesi erano stanchi, rotti e spossati dalle fatiche de’ cinque giorni; gli era appena se potevano reggersi in piedi. Tutti coll’animo avrebbero voluto inseguir lo inimico, stringerlo a’ fianchi, distruggerlo. Ma, quantunque volle le forze lo [p. 58 modifica]avessero loro permesso, quel movimento abbisognava d’un capo esperimentato che riunisse ogni fede; era pur mestieri le masse dei liberi battaglieri si organizzassero. Tra i cantici, il novero delle molte prodezze e l’abbandonata allegria non si potea pensarvi su più che tanto. E poi, quell’uscire contro una soldatesca — benchè in fuga — ordinata, impensieriva i più. Dietro una barriera ogni uomo è soldato; avvegnachè, a lui non occorra una regolare distribuzione di viveri, nè legge, nè ordinanza alcuna; ei può sfamarsi nella prossima casa e dissetarsi presso la vicina fontana; carica il moschetto a volontà sua; compie azioni generose che il cuore gli detta; palesasi io circostanza valente pari a un antico. Ma, in campo aperto il suo impetuoso valore diviene dannoso ove non venga regolato dal senno di chi lo guida; egli debbo combattere a posta d’altri e non sua; altrimenti, la disoiplinatezza del nemico — quantunque inferiore di animo e di numero — le atterra e lo infuga. Nullamena, parecchi che l’adorazione d’Italia spingeva innanzi, partirono. Non avevano uniformità darmi, di reggimento. Erano cenventinove animosi giovani appartenenti a povere, agiate o nobili famiglie, i quali — sapendosi come il debito di ogni lombardo non fosse interamente saldato sui cittadini asserragli — senza provvedimenti, senza vesti di ricambio, col solo moschetto dei cinque giorni, spensieratamente, ma colla esaltazione dell’eroismo, seguivano il bravo Luciano Manara, che lasciava moglie, figliuoli, abitudini di lusso, tutto, per rispondere ai voti del cuor suo, concorrere al conquisto della patria indipendenza, o morire. Il generale Teodoro Lecchi gli faceva raggiungere in Treviglio da una legione di Ticinesi e di Comaschi — milledugepto uomini all’incirca — capitanati dal Torres, uom ricco di tutti i difetti che seco traggo il soverchie dell’arditezza; e dal marchese Trotti, già ufficiale negli usseri ungheresi, braccio e pensiero della recente sommossa popolare di Como. Le turbe di contadini gli miravano passar sulla via, immote, trasognate; la lunga schiavitù aveva loro pietriQcato il cuore. Alcuni altri, mossi da quel magnanimo esempio, prendevano diversa strada. Giunti a Marignano, videro la desolazione del paesello, le tracce delle commesse barbarie; fumavano ancora le bruciate case; erano tuttora insepolti i cadaveri di quelli che avevano voluto opporsi al saccheggio e alle libidini de’disumanati stranieri. A Lodi, altre incredibili e nefande cose! Con tali atti malvagi il maresciallo guidava la difficile impresa di sicurar le sue schiere ne’forti verso cui si avviava; e se le rapine, i delitti giovavano sommamente a tenerle fide e zelose a prò dello impero, collo spavento e con crudeli misure tendeva ad infrenare la rivoluzione pullulante sotto i suoi passi. Qualche vendetta traeva il dolore incitato dalle stragi. E so di egregia donzella, libera di genio e di cuore — di cui per prudenza velerò il nome — che a compenso dell’assassinio di Carlo Porro, ano degli statichi che il Radetzky portò via di Milano, scaraventò addosso ad un ufficiale austriaco un pesante vaso di fiori che gli ruppe una spalla. Un croato minacciolla col suo archibugio. Ed ella, «Tira, vile ladrone!» a lui disse. II colpo falliva; e la imperterrita giovanetta veniva a forza ritratta dalla finestra.

Intanto i volontari milanesi, cui era stato detto non si dilungassero tanto [p. 59 modifica]dalle patrie mura, sentendo bucinare attorno come il nemico — raccolte maggiori forze ne’ presidii vicini e riunitosi a que’ che attendevano di Venezia — sarebbe in pochi dì ripiombato sulla insorta città, incontanente di Lodi tornarono là d’ond’erano partiti.

Ma, in Milano il perìcolo di nuovi assalti era svanito. La immensa materia ribellante, che per tant’anni fermentava in Italia, come vulcanica lava sorgeva per ogni dove ad abbattere, ad isterpare il dominio odioso dello straniero. Il dolce nome di patria non più conteso sfiorava sulle labbra di tutti. Era un contento, una festa che sentia del delirio. E siccome l’antica speranza parve al popolo la fosse coapiuta ed immensa fiducia nudriva sull’amica fortuna, questo tornò alle usate faccende, ai piaceri. I Milanesi si piacquero assaporare sorso a sorso la gioia del riportato trionfo. Colpa non delle masse — le quali sogliono giudicar tatto indigrosso — ma di quelli che, scarsi nella sapienza de’ nuovi stati, continuarono ad essere i sopra dò della pubblica cosa.