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dai tetti delle case scaraventavante addosso sassi, vasi di fiori, acqua bollente, mobili, quanto venia loro alle mani. La guardia civica s’instituì quasi per incanto; con essa un comitato che distribuiva danaro alle famiglie bisognose dei combattenti. Il grido della rivolta diffondevasi ben presto per tutta l’isola. Messina, Trapani, Catania, Termini, Siracusa sursero ribelli al cieco e feroce governo. I preti, i frati, col crocifisso alla mano, eccitavano sulle barricate il popolo a’ sentimenti generosi e gagliardi, alla conquista de’ proprii diritti; e’ dicevano:

«Gesù Salvatore morì sulla croce per redimere la oppressa umanità! E noi pure, ad imitazione del primo martire, spargiamo il nostro sangue e moriamo per la religione della Patria e della Libertà!»

Il re, instigato dal ministro Del Carretto, dal monaco Cocle suo confessore e dai gesuiti, non vedeva la politica tempesta che d’ogni lato scoppiava, e in Ruggiero Settimo, nel principe di Villafiorita, nel conte Pietro Aceto, nell’avvocato Marocco e in altri cui i Palermitani affidavano la direzione della pubblica cosa, ei credeva una gente tutta intenta a rubare. Laonde, spediva immediate più vapori da guerra alla volta dell’isola, comandati dal fratel suo, il conte dell’Aquila, par isbarcar truppe su varii punti, attaccare Palermo e bombardarla senza discrezione nessuna. Ma i forti erano già nelle mani degl’insorti; i regii, occupanti la importantissima posizione di Monreale, avevano fatto fuoco sur una deputazione dei consoli stranieri che chiedeva al generale una tregua per mettersi in salvo; lo insulto alla bandiera di pace e l’ostinato rifiuto muovevano la flotta inglese ad intervenire, il cui comandante facea noto a Don Luigi di Borbone che, ov’egli avesse tirato sulla città, avrebbe dato ordine a’ suoi artiglieri di mandare a picco il navilio del re. A tale intimazione, il principe tornava celeramente in Napoli, la quale città parea cangiata in un campo di guerra; e novelle che subito si sparsero accrebbero la non mai tranquillata agitazione. Il dì innanzi la provincia di Salerno era insorta, e la ostile gendarmeria gittatasi disperatamente sul popolo, dopo brevi ed inutili sforzi, veniva in ogni loco schiacciata. I contadini della Basilicata avevano rotto il ponte sul fiume Poliere, ch’è sul confine delle due provincie, e distrutto i telegrafi che comunicavano con Napoli. Le Calabrie erano in piena rivoluzione. Le Puglie ne imitavan lo esempio. I comandanti dei presidii Abruzzesi chiedevano pronti rinforzi.

Re Ferdinando che in sè credeva incarnata la divina potestà, e stimava, unica condizione de’ popoli soggetti, la servile obbedienza; unica regola di governo, la tirannide; udendo dal fratello la impossibilità delle regali vendette in Sicilia per la inattesa attitudine della flotta inglese, e i patti di quel popolo compendiati nella costituzione del 1842, svenne per la interna ambascia, e abbattuto dal male discese a concessioni di riforme. A’ di dieciotto gennaio, con un suo primo decreto allargava i poteri e le attribuzioni della consulta «li Stato, dei consigli provinciali e dei municipii. Con un secondo, separava l’amministrazione civile e politica della Sicilia insulare da quella continentale. La popolazione della capitale non mostrandosi soddisfatta di tai mutamenti, il re decretava l’indomani