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reggia, gridando evviva alla Costituzione ed al re. Ad un segno dato dal palagio, un altro segno — tutto di sterminio e di morte — dava Santelmo, forte che siede a cavaliere della bellissima città. Ma, la minacciosa intimazione non s’ebbe altro effetto che lo incuorare vie più il popolo ai soliti evviva; il che, osservato dal generale Roberti, il comandante di quella ròcca, questi opinò meglio valesse l’offerire la propria dimessione di quello che unire al suo nome il ricordo della ruina di Napoli e dello strazio de’ suoi concittadini. Un tale atto — a’ dì che corrono sventuratamente sì raro! — onora altamente quel leale soldato.

Due uomini indefessamente e per vario effetto consigliavano il principe. L’uno, monaco passionista, nato di basso e tristo seme, scaltrissimo ed ignorante, godente di una autorità senza limiti, ricco per troppe e subite ricchezze, acquisite a furia di concussioni e di angherie, voleva il brutto arbitrio durasse, senza cui temeva perduti lo ufficio, il favor, le dovizie. L’altro, uomo d’ingegno e di molta ambizione, onesto soldato sino al 21, per vaghezza d’oro, di possanza, di onori e di titoli insudiciando quindi e anima e nome, liberale per progetto, negli atti tiranno, sbracciavasi a persuadere il re a tutto concedere pel momento; imperciocchè, ei stimava le sevizie e le stragi scatenare la furia del popolo contro di lui, od almen nuocere alle proprie dittatorie mire.

Le grida della piazza — quantunque acclamanti — giungevano col suon di minaccia all’orecchio del timido ed ostinato Borbone. Vedeva l’area immensa, dai portici di San Francesco di Paola alla reggia, gremita di bandiere tricolori e di genti di tutte classi precedute da un carro, ove il duca di Proto, Trincherà ed un altro cittadino sostenevano un albero d’ulivo, da cui pendevano — simbolo di pace, di unione, di forza — nastri pontificali, piemontesi, borbonici, toscani, siculi, nazionali. La paura di cose peggiori e il dispetto contro i prìncipi di Roma, di Toscana e di Piemonte — autori, a suo credere, di tanti mali — lo vinsero. E ordinò al conte Statella, generai comandante la piazza di Napoli, di notificare alle moltitudini adunate ch’egli avrebbe tutto concesso e di avvertire il passionista monsignor Gode di non più appressarsi alla corte. E al generai Filangieri dava lo incarico di chiedere la spada in suo nome al ministro della polizia, marchese Francesco Saverio Del Carretto, e d’intimargli la subita cacciata dal regno. Principesca vendetta!

Così il giorno cessava nel plauso delle genti napoletane; le quali vedevano partire pria che annottasse i due loro nemici; l’uno per Malta, l’altro per Francia, seguiti dalle maladizioni di tutto un popolo.

L’indomani un decreto del re, contrassegnato dal duca di Serra Capriola — il quale doveva comporre il nuovo ministero — promulgava le basi della Costituzione che pubblica si renderebbe entro il periodo di dieci giorni. Colla Sicilia si firmò un armistizio di breve durata, nel qual tempo gli abitanti dell’isola dovessero formulare i loro desiderii onde sottoporli alla sovrana sanzione. Il re passò in rivista le truppe seguito da numeroso stato maggiore. Il popolo lo acclamava con festa grondo; ed egli, inteneritone sino alle lacrime e ponendo