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che lor si fornisce e ne castiga i provveditori se il trova cattivo, o non abbondante; ei fuma nelle lor pipe, si asside plebeamente a famigliar consorzio con essi, largisce loro sigari, vino e pecunia, e con lamentosi propositi gli separa dalla causa popolare, dicendo:
«I miei buoni sudditi non mi amano, perchè sedotti dai liberali. Questi mi vogliono morto per poi manometter facilmente lo esercito e arrivare a’ loro fini, cioè, la distruzione della famiglia e la divisione della proprietà. Ma, chi serve con affetto il suo re, come lo comanda la nostra santa religione, può passare ufficiale e avere la croce di S. Ferdinando.»
E quei soldati vedendosi carezzati in tal guisa, inorgogliscono e divengono cieco strumento di tirannide contro i generosi, i quali altro non chieggono che la giustizia ed il mantenimento delle carpite libere franchigie. Oltre a questi, il re si ha un’altra armata, disciplinata dalla ignoranza, dallo interesse, dalla paura, che il principe rassegna negl’impiegati compromessi per la causa del dispotismo, i quali si avrebbero il carcere, o la pubblica infamia a cose mutate; e ne’ preti, ne’ gesuiti, ne’ frati d’ogni colore, che dai pergami, dai confessionali predicano al popolo minuto, la libertà della stampa essere una invenzione diabolica per iscardinare la fede di Cristo, la Costituzione un oltraggio fatto alla sacra persona del re. E tutte le arti, e molte menti e moltissime braccia servono in quell’infelice paese ad allumare le civili contese, a dar martirio al libero pensiero, a crocefiggere il cuore agli uomini caldi e zelosi del pubblico bene. Studi nefandi e molesti, impossibili altrove; pur facili in Napoli per le ragioni anzidette.
Sur un terreno talmente viziato e corrotto — donde però escirono primi i palpiti di libertà, ove la tirannia più gavazzò nel sangue di cittadini illustri, ove gli strazi furono più lunghi, più gravi, più fieri — sedettero ministri del nuovo regno costituzionale, per le relazioni estere il duca di Serra-Capriola, presidente del consiglio; per gli affari interni il cavalier Francesco Paolo Bozzelli; per le finanze il principe Dentice; per la giustizia il barone Cesidio Bonanni; pe’ lavori pubblici, agricoltura e commercio il principe di Torella; per la pubblica istruzione il commendatore Gaetano Scovazzo; per la guerra il brigadiere Garzia. Fu nominato presidente della consulta generale del regno il principe di Cassero, Antonio Statella. Alla direzione della polizia venne preposto Carlo Poerio, poco innanzi escito dal carcere, uno tra i più benemeriti campioni delle italiche libertà. I novelli ministri — tranne lo Scovazzo, siciliano, uomo incorruttibile, indipendente, severo, amatore caldissimo della gran patria — erano politici della vecchia scuola e non all’altezza delle idee de’ tempi. L’assunzione però del Bozzelli, anch’egli imprigionato poco stante per cautele di sospettosa polizia, sembrava ad ognuno una bastante guarentigia perchè la costituzione non la fosse cosa monca e derisoria, ma efficace, vera, di fede. Come quest’uomo rispondesse alle generali speranze a suo luogo dimostrerò.
Ora, prima ch’io più continovi la narrazione de’ fatti italiani, sento il debito di arrestarmi per fare co’ leggitori attenti — che non il mio povero ingegno, ma la importanza del subbietto a me somministra — alcune riflessioni sulle cose avvenute