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virtù, lo scrollamento di qualsiasi giogo e la difesa della libertà per cui la vita è cara. Ond’è che la mancanza dei su annunciati provvedimenti persuase nei primordi dell’anno in un punto della Penisola le fomentate moltitudini a sdimenticare il principio tranquillo, unificatore della nostra politica rinascenza. Intanto che le opinioni, gl’interessi, e le forze tutte si concentravano in uno scopo solo, quello della nazionalità, e il sentimento della ragione alimentavasi dai buoni nel cuore degl’ignari, parecchi che in quell’opera fraterna non avevano voluto togliere alcuna parte, fastiditi nel vedere amicate l’autorità e l’obbedienza, cominciarono dal mormorare parole di sprezzo sulle cose accadute, fecero quindi sorgere vani pretesti onde sconvolgere l’ordine pubblico e trarre da quelle ruine regole di ambizione e di vita nuova. Livorno, città popolosa e di commercio, e perciò interessata al mantenimento della quiete, vedevasi turbata or dagli operai, richiedenti una riduzione del lavoro, or dai facchini, tumultuanti per lo aumento delle mercedi; or dagli oratori di piazza, accusanti il ministero di fellonia, un cittadino di nazione, un tal altro di gesuitismo e di peggio. Il governo, sia che stimasse colla indulgenza ringrazionirsi siffatta gente, sia che fiducioso nella sua forza non temesse le loro mene, lasciò libero il campo al disordine. La sera del sei gennaio lo attruppamento si fece maggiore del solito; il frastuono era immenso; quei che capitanavano le masse gridavano essere la patria in pericolo, onde urgente la necessità di armarsi, imperciocchè nessuno potea più fidare in un ministero improvvido e traditore. Un anonimo, bollettino era affisso e commentato al pubblico con calde e furibonde parole. Quel foglio presentavasi come una parodia del celebre atto della Convenzione di Parigi. Nulla di più ovvio che un tale appello alle popolari passioni! Noi non ci trovavamo nelle politiche necessità in cui trovossi la Francia a di 23 agosto del 1793. Il principe era nel paese e non ancor palesemente reo in estranei maneggi; silenti i partigiani del passato assolutismo; i nobili, i poeti, i frati tutto avevano a sperare, nulla a temere; la gente di curia, plaudente ai fatti avvenuti come ad origine di migliore fortuna. In essi mancava adunque la legittimità della rivolta, eccitata non dal parlamento, non dal magistrato della città, non dalla volontà di tutto un popolo, ma da pochi uomini che l’amore di patria soverchiamente esaltava.

Certo; non la era lodevole in ogni cosa la condotta del ministero Ridolfi, il quale avendo trovate poche ed indisciplinate schiere non pensava punto ad aumentarle, ad istruirle, e dondolavasi in uno stato d’inoperosa tranquillità; come se, riformandoci a dispetto de’ trattati Viennesi, non dovessimo recuperare tosto o tardi la italiana indipendenza a prezzo di sacrifici e di sangue. Gli antichi ordini erano stati distrutti; gli era mestieri edificarne di nuovi, e prima d’ogni cosa ricomporre una forte milizia che sicurasse l’autonomia nazionale; instituir quindi ordini politici, mercè i quali la opinione pubblica potesse farsi legalmente palese, e basare un’amministrazione che sapesse diffondere la vita propria su tutti i punti della circonferenza sociale. Lo ufficio dei pensanti e degli antichi settari di libertà era quello di dirigere col consiglio gli atti governativi e di soccorrere alla riedificazione dell’ordine legale coll’ordine morale. Quelli che