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usarono altri mezzi, e per doglioso puntiglio posero la loro influenza al di sopra degli interessi generali, mal fecero pregiudicando temporalmente alla cosa pubblica e scipando l’armonia delle rappattumate opinioni.

Intanto sulla piazza principale di Livorno le grida sempre più addoppiavansi. Il popolo minuto chiedeva armi e la nomina di una Deputazione che queste fornisse a soddisfazione universale. Dalla folla escirono i nomi che dovevano comporla. Tra essi era quello di Francesco Domenico Guerrazzi — il supposto autore del bullettino — e di alcuni suoi parteggiatori, cui furono uniti alcuni altri che si avevano opposti interessi all’avventata impresa. Gli eletti presieduti dal capo del Municipio dichiararonsi in una notificazione i legittimi rappresentanti del popolo, a lui promisero le armi volute, esortandolo però da ogni tumulto ulteriore, col quale — dicevano — essere impossibile il governare. Raggiunto lo intento, ecco che le creature rinnegavano la eccitata autorità che le avea fatte potenti. Ma, in quello stante un motu-proprio del principe, disapprovando l’accaduto, invitava la popolazione al ripristinamento dell’ordine. La maggioranza dichiaravasi per esso; i quattro male innestati rappresentanti, veraci amatori del pubblico bene, si ritraevano dall’ufficio; la Università di Pisa, il Municipio, la ufficialità della guardia cittadina condannarono que’ tumulti. Di Firenze giungeva in Livorno il marchese Cosimo Ridolfì, ministro dell’interno, collo scopo di sciogliere la Deputazione. Ma, gli eletti dal popolo non volevano dimettersi che pel volere del popolo. Allora, la gente minuta che abita il quartiere detto di Venezia, stanca di più sopportare una minorità che nelle sue adulazioni nuoceva ai di lei veri interessi e del paese, chiese le armi, nobilmente rifiutandone le munizioni, per far rispettata la legge e non mirare allo eccidio di alcuno. La sera del nove vennero arrestati quali eccitatori de’ passati tumulti il Guerrazzi; il Mastacchi; il Rossetti; un tal Roberto, soprannomato Ciccio; il Carovoli; il Romiti; il Dominici; il dottor Mugnaini; il negoziante F. Rupp; il Lilla; l’Ansuini; il La Cecilia col suo famigliare; i Vignozzi padre e figliuolo; e Riccardo Frangi. Cotesti incriminati vennero condotti in Porto-Ferraio per subirvi un regolare processo. Siffatto provvedimento parve ad alcuni un atto di debita giustizia; ad altri di sapiente prudenza; ad altri ancora, una tradizione di antiche asprezze in un governo nuovo; ed ai più, una severità — forse necessaria — pur troppo spinta.

Brevi i moti di Livorno. Non così quelli delle due Sicilie, ove la legalità conculcata e depressa drizzava la fronte, forte de’ suoi diritti e vie più forte per le governative enormezze con cui si pretendeva acquetarla. Ultima parte della Penisola, questo regno, diviso dal procelloso stretto del Faro, e meglio dai politici artifizi de’ suoi reggitori, fu sempre popolato da gente smaniosa di libertà, che quel suo nobile pensiero vide pur sempre affogato in un mare di lacrime e di sangue.

Nell’un paese, memorie di frequenti invasioni, di nuovi re, di domestiche brighe, di celate congiure; culla di uomini dal genio, acuto, immaginoso ed ardente, o dall’animo grande e magnanimo pari all’antico, o forniti di tristizie e di viltà senza pari. Nell’altro, tradizioni di odii efferati, di politiche e individuali vendette, di eccidii tremendi, di amor senza limite pel nido natio e di cimenti estremi,