La Fortuna/La donna e la lente
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LA DONNA E LA LENTE (FIABA)
O alti pioppi che tutto vedete, Ditene dunque: Biancofiore ov'è?
C'era una volta, in un magnifico castello dell'Asia, una principessa molto bella e molto infelice.
Ella era orfana, si chiamava Biancofiore, ed era una meraviglia di bellezza; era anche immensamente ricca, i suoi dominii si estendevano fino al mare, aveva vesti trapunte d'oro e di gemme, collane di perle, serti di rubini: aveva tutto, ma le mancava l'amore. Perciò la principessa era profondamente infelice.
Una fata che presiedeva ai suoi destini, aveva decretato che Biancofiore concedesse il suo cuore soltanto al principe più bello, più valoroso, più intelligente della terra. E non soltanto il decreto della Fata, ma la volontà stessa della fanciulla, esigeva una così rara perfezione, poichè ella era orgogliosa e strana, e per amare aveva bisogno di sentirsi dominata. Ora, come la fama della bellezza e della ricchezza di Biancofiore aveva superato di gran lunga i confini del suo regno, quando la fanciulla compì i sedici anni cominciò una sfilata di principi che dai più lontani reami venivano a bussare alle porte d'argento del castello. La Fata chiamò Biancofiore, e le disse:
— Tu hai sedici anni, gli aspiranti alla tua mano cominciano ad arrivare: essi ti assedieranno e faranno il possibile per piacerti; sii cauta prima di decidere, e innanzi di fissare la tua scelta promettimi di guardare bene ogni uomo che ti si presenta attraverso a questa lente che non inganna. — E così dicendo le consegnò un cristallo rotondo e terso che un cerchio costellato di gemme incastonava. La principessa promise.
E tosto le porte d'argento furono spalancate, e grandi feste furono indette per ricevere gli ospiti: tornei, giostre, conviti, dove la bellezza il valore lo spirito avevano campo di rifulgere, e dove ognuno dei giovani principi gareggiava coll'altro per apparire in miglior luce agli occhi della principessa.
Biancofiore assisteva a tutti i festini avvolta nel suo manto regale che era verde a fiori d'argento: coi biondi capelli raccolti a diadema sul capo, era così bella da sembrare un'apparizione. Quando qualcuno dei principi le si accostava per parlarle, per porgerle un fiore, o per cantare un madrigale, ella sorrideva graziosamente, ma quando essi le sfilavano dinanzi nel chiuso recinto del torneo, alzava la mano che serrava la lente gemmata e ad uno ad uno li guardava fissamente attraverso al nitido cristallo. Essi caracollavano chiusi in scintillanti armature; la manina di Biancofiore ricadeva languidamente lungo il verde manto stellato d'argento, un velo di malinconia scendeva sul volto della principessa.
....Non poter amare.... non poter amare!... Non trovar mai l'uomo degno del suo amore!... Il più bello, il più valoroso, il più intelligente..., dov'era? Perchè non veniva?...
Altri principi arrivavano intanto alle porte del castello; altre feste ancora più splendide erano indette, e la principessa vi prendeva parte, sorrideva graziosamente, osservava i convenuti colla sua lente gemmata, ma il suo volto si faceva sempre più malinconico. Finalmente, un bel giorno, la Fata l'interrogò.
— Dunque, Biancofiore, hai scelto? hai deciso?... Nessuno di quelli che sono partiti, nessuno di quelli che sono arrivati, ti ha toccato il cuore? Neppure uno dei tre ultimi che spasimano d'amore per te?... Non trovi bello il giovinetto venuto dall'Assiria, il re adolescente dai lunghi occhi a mandorla, dai capelli inanellati, dalla barba prolissa, dal profilo di cammeo, sospiro di tutte le fanciulle di Babilonia?... Non ammiri la forza e il valore del principe Oláf, il guerriero dalle cento battaglie, l'eroe, la cui spada fa indietreggiare venti nemici?... Non apprezzi Alfeo, il greco, il re poeta, che così dolcemente improvvisa soavi carmi, che recita con tanta grazia le canzoni degli antichi rapsodi?... Biancofiore scosse la testa bionda e sospirò.
— Sì, l'assiro, è bello, ma sa troppo di esserlo. È profumato come una donna, porta troppi anelli alle dita e troppe gemme alle vesti; i suoi capelli sono lisci come il velluto; egli ride troppo spesso per mostrare il candore dei denti: deve passare ore ed ore davanti allo specchio. Oláf è valoroso, ma è feroce, pensa sempre a guerre, a cacce, a battaglie; i sentimenti gentili non hanno presa sul suo cuore; ignora la dolcezza di una casa, non sa parlare alle donne, e non accarezza i bambini. Il greco mi piacerebbe di più, ma quando incomincia a cantare non vorrebbe più smettere; egli non ride mai, e nel lungo studio degli antichi poeti i capelli si sono alquanto diradati sulle sue tempie. Infine, per esser dotato di tanto ingegno, mi guarda con occhi troppo imbambolati.
La Fata rise, e disse a Biancofiore:
— Sei molto difficile.
La fanciulla sedette ai piedi di lei come quand'era piccina, appoggiò la testa sui suoi ginocchi e cominciò:
— Mamma di Biancofiore — (ella la chiamava sempre così quando voleva ottenere qualche cosa) -: nessuno dei principi che sono venuti a cercarmi nella mia reggia mi piace; in nessuno di essi io trovo la bellezza, il valore, lo spirito, che valgano il mio amore. Essi mi si mostrano impennacchiati delle più belle piume, accesi dalla speranza di piacermi e dalla gelosia che li tiene continuamente in gara l'uno coll'altro: tutto ciò è molto antipatico, e li induce a manifestarsi forse peggiori di quello che sono. Lasciate che io abbandoni il mio palazzo, che esca dal mio reame, che viaggi il mondo e le corti, e che io studi gli uomini come sono in realtà, quando nulla li sprona a fingere, a posare, a mentire. Chissà che non riesca finalmente a scoprire quello che il mio cuore aspetta: il più bello, il più valoroso, il più degno?... Permettetemi la prova, mamma di Biancofiore; lasciatemi partire: in capo a un anno avrò scelto uno sposo.
La Fata arricciò il naso e rimase soprapensiero.
Benchè quelli fossero tempi in cui le fate godevano una grande autorità e le principesse una grande emancipazione, l'idea che Biancofiore girasse il mondo in cerca di uno sposo, le pareva grave e poco dignitosa. Ma la fanciulla le accarezzava gentilmente la mano, e la guardava con due occhi così dolci e supplichevoli che nessuno avrebbe potuto resistere. Vinta e convinta, la Fata domandò: — Chi ti accompagnerà?
Biancofiore rimase perplessa, ma fu un attimo. Giocondamente, ella battè le palme ed esclamò: — Elmìr!
Elmìr era suo cugino, il giovinetto orfano che viveva alla reggia con onori e diritti sovrani, tranne quello di regnare perchè figlio d'una schiava.
La Fata calcolò ad alta voce come riflettendo: — ....Elmìr.... la nutrice.... dieci cavalieri di scorta scelti fra i più fedeli.... Come farai a non essere riconosciuta?
— Mi dirò sorella di Elmìr: nessuno saprà che io sia la principessa Biancofiore le cui ricchezze suscitano tante cupidigie.
— Ed Elmìr vorrà seguirti?
— Vorrà — disse con sicurezza la fanciulla. — Anch'egli, come me, ama le avventure e muore dalla voglia di viaggiare un po' il mondo.
— Ne vedrai di crude e di cotte — ammonì la Fata — e non credo che gli uomini studiati da un altro punto di vista ti sembreranno migliori. In ogni modo prima di scegliere osservali attentamente colla lente che ti ho data, e sopratutto osserva coloro che ti dicono d'amarti: sono quelli che più facilmente riescono ad ingannare.
Biancofiore rassicurò la Fata con mille promesse, e, leggera come una gazzella, corse a ordinare i preparativi della spedizione.
Biancofiore, Elmìr e la scorta erano in viaggio da due mesi; avevano visitato le più grandi corti orientali, e non ancora la fanciulla aveva scelto uno sposo. Anzi, era più che mai imbarazzata dallo spettacolo che le offrivano gli uomini.
Non più protetta dal fasto della sua reggia, dalla potenza del suo nome, dalle lancie dei suoi soldati, e ritenuta da per tutto sorella di Elmìr, cioè semplice principessa nata da morganatiche nozze, Biancofiore aveva dovuto rinunciare a qualche illusione. La sua splendida bellezza attirava come sempre gli omaggi, ma erano omaggi un po' differenti da quelli a cui era abituata quando sedeva sul palco reale, avvolta nel verde manto stellato; in che cosa consistesse la differenza, la fanciulla stessa sulle prime non sapeva spiegare: erano sfumature, un rispetto meno profondo e meno vigile, un'eccessiva audacia nei madrigali, che mal velavano lo scopo obliquo. La lente le aveva detto il resto: volevano il suo amore, ma non la sua mano, i suoi baci, ma non il suo cuore. Offesa e ferita, Biancofiore disse ad Elmìr:
— Elmìr, questi uomini perdono la tramontana. Quando mi sapevano ricca e potente si pavoneggiavano davanti a me come tacchini, strisciavano ai miei piedi come schiavi, erano pronti a qualunque viltà pur di strapparmi un sorriso, ad affrontare il ridicolo per un mio capriccio. Ora che mi credono povera, mi dànno uno spettacolo ancora più nauseante: ritengono che una fanciulla povera possa considerarsi una preda sicura spettante al più sfrontato. Come posso io scegliere fra questi uomini?
Elmìr sollevò i grandi occhi pensosi in faccia a Biancofiore, e rispose:
— La donna e l'ubbriachezza sconvolgono il cervello agli uomini: entrambe li inducono a svisare la loro vera natura. Indossa abiti maschili, studia questi principi da uomo a uomo, partecipa alla loro vita, osservali come sono quando la donna non fa loro perder la testa, e forse troverai in essi qualche buona qualità.
Biancofiore domandò: — Tu sarai con me?
— Io non ti lascerò un attimo: sarò come la tua ombra.
E Biancofiore si vestì da uomo, si tagliò i capelli, cinse la spada.
Montò su di un cavallo nero come la pece a fianco di Elmìr, e, sotto il nome maschile di Assur, riprese il pellegrinaggio.
....Che bel giovinetto era Biancofiore sotto le spoglie di Assur!...
Alto, svelto, cogli occhi scintillanti nel delicato viso, e i ricci al vento, di galoppo sul nero cavallo!...
Lungo i fiumi dalle sponde fiorite di loto, attraverso le praterie verdi e sterminate, Biancofiore ed Elmìr s'inebriavano di luce e di libertà. Dietro a loro i cavalieri di scorta, neri come fantasmi, cavalcavano in silenzio.
A dir vero, per essere un uomo, Biancofiore era un po' troppo ciarliera. Ma bisognava compatirla. Dacchè si era travestita ed aveva cambiato sesso, il mondo le appariva sotto un aspetto così strano e inaspettato, che non poteva trattenersi dal comunicare rumorosamente le sue impressioni ad Elmìr. Cavalcando al suo fianco, ella cinguettava come un uccellino. E i suoi discorsi erano spesso comicamente desolati.
— Elmìr! — diceva. — Sei mesi sono passati, abbiamo girato cento corti, e nulla ancora, nulla!... Che dirà la Fata?... Uomo bello, intelligente, valoroso, dove sei?... Dove battere la testa per trovarti?...
Elmìr la incoraggiava ad aver pazienza. Ma anch'egli cominciava ad essere stanco, e sopratutto sfiduciato, di quel pellegrinaggio. Fedele alle promesse, la fanciulla non abbandonava un istante la sua lente gemmata, e attraverso ad essa guardava la vita con così fredda chiaroveggenza, con intuizione così profonda, con così fine ed acuto spirito critico, che nessun uomo arrivava ad incarnare per lei l'ideale sognato. Oltre a ciò, ritenuta dovunque un giovanetto, ed ammessa senza diffidenza nell'intimità dei principi che si recava a visitare, ella aveva avuto occasione di conoscere certi retroscena, di valutare certi sentimenti, che non avrebbe mai sospettato. Spalancando i begli occhi ingenui, Biancofiore interrogava:
— È così, Elmir, è così, che gli uomini considerano la donna? È così che ne parlano?... questo, il loro linguaggio quando sono fra loro? Questo, il culto che le dedicano?... Questi, i loro costumi? Questi, i loro passatempi?... Ah, io non potrò mai più, mai più credere all'amore!...
Ed Elmìr si mordeva le labbra per aver consigliato l'audace esperimento. È vero che la purezza rezza di Biancofiore era tale che non prendeva macchia, nè si appannava, ma nondimeno ella usciva da quella prova inutile con qualche illusione di meno, e una certa amarezza in fondo all'anima. Ed Elmìr non perdonava questo a sè stesso, poichè ben sapeva che distruggere un'illusione è distruggere un po' di gioventù.
— Senti — diss'egli ancora -: facciamo un'altra prova. Fra i principi che vennero a cercarti alla reggia, mi pare che tre ti interessassero di più: il re Alfeo, il principe Oláf, e l'assiro dai lunghi capelli. Vuoi che andiamo a trovarli nei loro paesi dove potrai studiarli da vicino senza che sospettino di essere osservati? Cala la visiera, confonditi agli uomini di scorta, nessuno ti riconoscerà, e tu forse potrai legger più chiaro nella vita e nel cuore di quei tre che più degli altri ti parvero degni d'attenzione.
E così fecero. E cavalca via e cavalca per monti e per valli, per prati e per sentieri, arrivarono alla reggia d'Oláf.
Era calata la notte, e il principe, tornato dalla caccia, con tutti i suoi fidi sedeva a banchetto. Elmìr fu accolto con onore dal gran scudiero ed invitato ad entrare colla scorta nei suoi appartamenti; il principe l'avrebbe ricevuto il giorno seguente.
Una femminea curiosità spinse Biancofiore sulla veranda a scrutar colla lente verso il padiglione dove il banchetto avveniva.
La mensa principesca, i lumi, i fiori si avvicinarono così da sembrar di toccarli. Ed una ridda incomposta e triviale apparve agli occhi di lei: ministri, cavalieri, scudieri e paggi, intorno alle tavole saccheggiate, fra le coppe rovesciate e infrante, fra i lampadari mezzo spenti, cantavano sfrenatamente e bevevano... Ma dov'era Oláf? Due gambe poderose e due enormi piedi armati di sperone sbucavano di sotto alla tavola ed una mano scintillante dell'anello reale: i cani la leccavano mugolando: il principe era ubbriaco fradicio.
Elmìr e Biancofiore ne ebbero abbastanza e decisero di partire senza aspettarlo.
E cavalca via e cavalca, per monti e per valli, per prati e per sentieri, arrivarono alla corte del re Alfeo.
— Dov'è il re?... — chiese Elmìr presentando il sigillo colle armi della sua casa.
— Il re sta recitando dei versi alla corte riunita! — rispose solennemente il gran maestro delle cerimonie. — Biancofiore respirò. Meno male!... Non ci sarebbe stato pericolo di trovarlo nello stato di Oláf. Elmìr e la scorta furono introdotti.
Alfeo stava recitando con grande enfasi un carme di sua creazione e non si interruppe. Solo quand'ebbe finito di recitare, e la corte d'applaudire, mostrò di accorgersi di Elmìr, e gli andò incontro, e gli strinse le mani con parole molto belle e molto gentili. Parve a Biancofiore che in quei pochi mesi egli fosse diventato ancora più calvo, ma non vi diede importanza, felice di trovare finalmente un uomo che passava le sue serate in nobili occupazioni spirituali ed aveva il peplo d'un taglio irreprensibile e abbottonato fino al collo.
La riunione era poco numerosa ed intimissima. Ma per renderla più numerosa Alfeo non aveva trascurato alcun mezzo. Uno spirito di ben intesa democrazia guidava l'intellettuale re nella scelta del suo uditorio, poichè, oltre i ministri, i consiglieri, i gran scudieri, e perfino il guardacaccia, anche le schiave erano ammesse ad applaudire il loro signore.
Biancofiore guardava tutto ciò con molta simpatia. Benchè principessa asiatica, ella sapeva apprezzare il progresso dei tempi moderni e capiva che a questi lumi di luna un principe che vuol esser saldo sul trono deve appoggiarsi sul popolo. Ma, a lungo andare, una bella sera, osservando con sempre crescente simpatia ed interesse le mosse del saggio Alfeo colla sua lente, la povera Biancofiore.... si accorse....(oh Dio, non voleva credere ai suoi occhi la povera Biancofiore!...) si accorse.... che il re furtivamente fra un carme e l'altro pizzicava le schiave.
Pizzicava le schiave!...
È vero che alcune erano ancora roride dei lavacri dell'Ilisso, altre venivano di lontano e parlavano strani idiomi, ed egli le idealizzava poi nei suoi versi, ma ciò non toglie che fai suoi atti e le sue parole vi fosse una leggera stonatura e che mentre le sue parole erano sempre idealmente nobili e delicate, i suoi atti troppo spesso rasentassero la volgarità. Nondimeno, passato il primo moto di contrarietà, Biancofiore gli avrebbe perdonato, poichè ormai sapeva che in quell'argomento tutti gli uomini sono eguali, e il migliore vale il peggiore, ma un altro fatto sopraggiunse, o meglio un'altra scoperta, a metterla fuori della grazia di Dio. I versi che il re Alfeo recitava ogni sera con tanta enfasi, non erano suoi!
Decifrando una superba poesia che recava la firma e la corona di Alfeo, la fanciulla scoprì sotto i caratteri di lui l'impronta d'un altro nome: la poesia del re era la copia d'un'antica canzone! Attraverso al freddo nitore della lente la verità brillava di un duro e nudo rilievo.
Quando Biancofiore ebbe la certezza del fatto, proruppe con Elmìr in tali accenti di sprezzo e di ribellione che ci volle del bello e del buono a calmarla. Benchè ella fosse donna, era la lealtà fatta persona, e per nulla al mondo si sarebbe abbassata ad un'ipocrisia, a una viltà.
— Partiamo! — diss'ella ad Elmìr. — Non posso più respirare quest'aria! Andiamo in Assiria!
E cavalca via e cavalca, per monti e per valli, per prati e per sentieri, arrivarono in Assiria.
Era una chiara mattina, faceva un caldo tropicale, e di lontano essi videro biancheggiare la reggia e le sue cento terrazze, in un'abbagliante luce del sole.
Biancofiore istintivamente portò la lente agli occhi e guardò. I delicati trafori delle bifore, le balaustre adorne di animali strani e misteriosi, le colonne incrostate di preziosi marmi, d'un balzo le si appressarono. E, sulla più grande terrazza a specchio del fiume, ella potè discernere nettamente una figura a lei ben nota avvolta in un rosso mantello. Era il giovane re che prendeva il fresco. Due schiavi neri agitavano presso a lui gli enormi ventagli di piume variopinte, nessun occhio indiscreto turbava la regale siesta mattutina.
Ma... che aveva mai il giovane re sulla testa?... Che cosa gli deturpava le gote?...
Per poco Biancofiore non perdette l'equilibrio sotto la violenza del colpo. Il bel re, sospiro di tutte le fanciulle di Babilonia, il giglio aulente, il fiore di loto, il vaso di delizie, aveva attorto i suoi lunghi capelli intorno a innumerevoli papillotes, ed anche la sua barba, la sua serica barba, orgoglio dell'Assiria, aveva subìto il medesimo trattamento!...
Dopo il primo momento di sorpresa, Biancofiore fu presa da una tale ilarità da non poter più frenarsi. Rideva, rideva e rideva.... Curva sul collo del cavallo, cogli occhi umidi, la bella bocca rossa che scopriva due file di perle, ella rideva, rideva, rideva.... irrefrenabilmente... E la sua ilarità si era comunicata ad Elmìr, ai muti uomini di scorta, perfino ai cavalli, che si erano fermati, e scuotevano la criniera e la coda, e non ne potevano più. Infine la fanciulla fra una risata e l'altra ebbe la forza di mormorare ad Elmìr: — Scappiamo! — E tutti, ridendo ancora follemente, voltarono la briglia ai cavalli, e via al galoppo, in una bianca nuvola di polvere, verso la campagna, verso il verde, verso la libertà!...
Biancofiore si annoiava. Si ha un bell'atteggiarsi a donne superiori, e protestare che gli omaggi seccano, che gli adoratori sono un peso, che il sentir lodare la propria bellezza è insopportabile, ma, in fondo in fondo, quando si deve rinunciare a tutto ciò, si capisce che il supplizio è tra i meno feroci. Dacchè Biancofiore si era tramutata in Assur, e nessuno dubitava dell'esser suo, ella era trattata naturalmente dovunque colla familiarità e la noncuranza con cui è trattato un ragazzo. Ed ella si annoiava, si annoiava mortalmente. Sentiva la mancanza di quell'atmosfera di desiderio e di ammirazione a cui sono assuefatte le donne molto belle, sentiva la mancanza di qualcuno che le facesse la corte, che sospirasse per lei, magari inutilmente. Ella si guardò intorno e non vide nessuno che sospettasse nemmeno lontanamente che ella era una fanciulla, e la più bella fanciulla dell'Asia. Soltanto suo cugino Elmìr....
E siccome avevano in prospettiva un lunghissimo viaggio prima di arrivare alla meta fissata, un lunghissimo viaggio attraverso sconfinate solitudini, Biancofiore per passare il tempo ideò di farsi corteggiare da Elmìr.
Cominciò a guardarlo con insistenza da lontano, per poi sfuggire ostinatamente il suo sguardo, a sorridergli dolcemente, per poi trascorrere ore ed ore senza occuparsi di lui, a passare senza motivo dalla gaiezza alla malinconia, dalla loquacità al silenzio, dalla cordialità alla fredezza. Rifiutava il suo aiuto nello scendere e nel salire da cavallo, oppure si appoggiava alla sua spalla con languido abbandono. Elmìr non se ne dava per inteso. Egli accettava i capricci di lei come quelli di una bambina viziata e non mostrava di scrutare al di là. E il suo contegno affettuoso e sereno acuiva l'irrequietudine e il dispetto di Biancofiore.
— Ma che uomo è questo?!... É un pezzo di marmo, di legno, di ghiaccio?... — esclamò fra sè la fanciulla dopo aver esaurito tutte le sue ingenue arti per attirare l'interesse di lui. — Oppure.... oh cielo!... sarei per caso diventata brutta?...
Ella si guardò ansiosamente nello specchio. Ma lo specchio la rassicurò....No, ella era sempre la stessa; anzi la vita libera e selvaggia aveva dato alle sue delicate tinte di fiore un tono più caldo, ai suoi occhi uno splendore più intenso, più vivo. E, dacchè era fuor dalle fasce, tutti gli uomini avevano ammirato quella sua bellezza, l'avevano adorata come cosa divina: Elmìr soltanto, colui che le viveva sempre accanto, era cieco e indifferente. Ella guardò suo cugino con curiosità e con dispetto, come se lo vedesse allora per la prima volta, come per indovinare sulle linee del bel volto maschio e pensoso, il perchè dell'enigma.
— Sarà forse perchè sa di non poter aspirare alla mia mano....- pensò la fanciulla con un sospiro di sollievo. — Se potesse sperare....
E ideò un abile stratagemma. Un giorno, mentre il cugino riposava sotto la sua tenda, ella si arrampicò come uno scoiattolo sul più alto palmizio, e, lassù, scorticandosi le mani e arrischiando dieci volte di precipitare a terra, attaccò alla cima ondeggiante la lunga fascia azzurra che le serrava la cintura. Ella era appena discesa dall'ardua vetta, e ancora ansante e trafelata guardava l'opera sua con occhi furbi e soddisfatti, quando sulla soglia della tenda apparve Elmìr. La fanciulla compose il volto a solenne gravità, e gli additò la fascia azzurra che sventolava gaiamente al sole.
— Se tu riesci a staccare quel nastro dalla cima della palma, io forse sposerò te, Elmìr.
Elmìr guardò in alto, poi rispose tranquillamente:
— Non ci tengo affatto.
— Come?... — esclamò Biancofiore colpita in pieno petto. — Come?... Non ti piaccio?...
— Io ti considero come mia sorella.
— Ma se non mi considerassi come mia sorella, ti piacerei?... Mi sposeresti?... — insistette la fanciulla colla sua voce più insinuante, piegando la testolina, e guardandolo con civetteria.
— Io non sono il principe più bello, più valoroso, più intelligente della terra!... — rispose Elmìr ridendo francamente.
— Questo purtroppo è vero! — asserì con serietà Biancofiore, e di sottecchi spiò sul volto del cugino l'effetto delle poco amabili parole.
Ma egli era già lontano; aveva scorto laggiù verso il fitto della macchia, il cervo, il bel cervo dalle possenti corna, la cui presenza era stata segnalata dai cani fin dal mattino, ed inforcato d'un balzo il suo sauro a dorso nudo galoppava verso la fiera coll'arco teso e l'occhio scintillante.
....Eccolo!... Ritornava. Aveva colpito il cervo sulla fronte, fra le corna, e chiamava con un fischio i suoi uomini perchè ammirassero la bella preda. Biancofiore non si mosse. Rannuvolata e taciturna ella aspettò che il cugino la raggiungesse e non gli disse parola. E poichè dovevano levar le tende e partire, ella per la prima balzò a cavallo e si mise a galoppare davanti a tutti. Calava la notte. Elmìr non si lasciò distanziare e le fu accanto dopo pochi passi.
— Che hai, bambina?... Hai freddo? Ti senti male?
— Tu sei noioso come la nutrice, — disse sgarbatamente Biancofiore. — Temi sempre che abbia freddo, che sia malata: mi credi una vecchia d'ottant'anni?
— Io ho promesso alla Fata di ricondurti sana e salva alla reggia, e lo farò, — disse Elmìr. Biancofiore toccò colla cravache il collo del suo cavallo che scattò sui piedi posteriori con un balzo e un nitrito.
— Non ti sono grata affatto! — mormorò ella fra i denti, curvandosi sulla criniera.
— Questo non importa! — rispose Elmìr, e, afferrato per la briglia il cavallo di lei che sbuffava e tremava in ogni fibra, l'obbligò a fermarsi e avviluppò la fanciulla col suo mantello. Ella fremeva.
— Sono sotto un giogo! sotto un giogo! Egli crede di potermi dominare, crede che io abbia bisogno di lui, della sua difesa, della sua protezione, assume delle arie da padrone, mi fa soffrire!... Tutto questo non può continuare: non voglio che continui!...
E da quel momento non tralasciò occasione per ribellarsi al cugino, per cercare di imporgli la sua volontà, per fargli capire che la sua indipendenza non ammetteva limiti. Elmìr cedeva molto frequentemente e con molta gentilezza quando si trattava di pericolo esclusivamente suo, quando invece Biancofiore proponeva follie ed imprudenze che avrebbero esposto lei pure, era inflessibile. Un po' scherzando, un po' seriamente, egli rispondeva alla fanciulla:
— Tu mi sei stata confidata sana e salva e sana e salva ti riporterò!
— Ha paura! — mormorava fra sè Biancofiore. E tosto incominciava a intonare il panegirico di Oláf, del suo coraggio, delle sue lotte, delle sue vittorie. — Quello è un eroe!... L'amore di un uomo così, deve rendere orgogliosa una donna!
Non una parola usciva dalle labbra di Elmìr, nè un sorriso ironico balenava nei suoi occhi. Eppure egli sapeva la triste debolezza di Oláf...
— Non è neanche geloso! — fremeva la giovinetta. — Neanche geloso!... Che uomo è mai costui? Di che gelido marmo è fatto?... E che donna sono io, per non riescire in nessun modo ad interessarlo a me, nè colla dolcezza, nè colla severità? Del resto — diss'ella un giorno — ho fatto male ad impressionarmi così della complicata toilette del re d'Assiria. Ah, egli era molto bello!... Che occhi! che capelli! che denti!... E siccome ogni bellezza ha diritto ad una religione, egli in fondo non ha torto se consacra tante cure ai suoi capelli, alla sua barba. Che ne dici, Elmìr?... Tu, per esempio, sei sempre spettinato: se ti mettessi per qualche ora le papillotes come lui, saresti molto più bello.
Elmìr scoppiò in una risata.
— Che cosa c'è da ridere? — disse in tono di sorpresa Biancofiore. — Tu, non lo faresti?... E perchè?... Neppure se una donna che ti amasse molto (e la fanciulla calcò su quel molto) te ne supplicasse?...
— Non credo che una donna che mi amasse molto potrebbe desiderare che io diventassi un imbecille, — rispose Elmìr.
— Se tu lo facessi per amore, non saresti più un imbecille! — ribattè la fanciulla. — Che razza di concetto hai tu dell'amore?... Un uomo deve obbedire a tutti i capricci della sua donna se vuol essere amato da lei. (Ella non lo pensava, ma voleva ad ogni costo punzecchiare Elmìr, contraddirlo, indurlo a discutere, farlo arrabbiare). Ma Elmìr non si arrabbiò.
— Bambina! — diss'egli affettuosamente. — Tu non sai nulla.
Biancofiore diventò di fiamma, e sferzò l'aria più volte rabbiosamente col frustino.
— Bambina! bambina! — esclamò infine con impeto. — Tu mi chiami sempre bambina!... Io ne so quanto te. Io ho soltanto cinque anni meno di te. Io sono una donna. Sei tu che... — Stava per dire: — Sei tu che non te ne accorgi!... — ma si morse le labbra e ricadde in un imbronciato silenzio. Cavalcavano per una grande verde prateria, lungo un fiume immenso che pareva d'argento.
— ....Non credi che un po' alla volta avrei potuto indurlo a mettersene meno? — uscì a dire Biancofiore dopo un interminabile silenzio.
— Di chi parli?
— Oh bella, del re d'Assiria! delle sue papillotes!... Non credi che sposandolo.... potrei ottenere un po' per volta.... colla dolcezza.... che rinunciasse.... almeno a quelle della barba?...
— Credo di sì....colla dolcezza....- annuì Elmir. E a un tratto si guardarono in viso e scoppiarono tutti e due a ridere come due ragazzi, rappacificati e felici, come se le burrasche dei giorni scorsi fossero state cancellate da quella fresca risata. Per due giorni le cose procedettero a meraviglia. Come fratello e sorella, come quando erano alla reggia, essi erano tornati d'amore e d'accordo: sereni, felici del bel cielo azzurro, del gran fiume d'argento, della dolcezza dell'aria, del canto degli uccelli, di tutto e di nulla, che è appunto quello che basta alla felicità.
Ma all'alba del terzo giorno lo spiritello maligno che agitava Biancofiore si risvegliò.
Ella si destò di cattivo umore e incominciò a dire che aveva male a un piede e non poteva partire. In quel giorno appunto dovevano levare le tende e arrivare ad una grande città.
Elmìr pazientò fino a mezzogiorno, ma a mezzogiorno decise di partire in ogni modo per poter essere alla città prima di sera.
— Laggiù troverai un medico che ti guarirà il piede, — diss'egli a Biancofiore ostinatamente muta ed immobile. — Suvvia, bambina, arrenditi: fra una mezz'ora noi partiamo.
E, per amore o per forza, ella dovette cedere. Ma aspettava l'occasione per vendicarsi.
Arrivarono a un bivio.
— Prendiamo a destra, — disse Elmir. — Il cammino è più sicuro.
— Ma a sinistra è più pittoresco: prendiamo a sinistra, — contraddisse subito Biancofiore.
— Ma sai che il bosco è infido, che è infestato dalle tigri, e la notte non è lontana.
Biancofiore sorrise sprezzantemente.
— Hai paura? — diss'ella. — Io vado! E, senza attender risposta, cacciò gli sproni nel ventre del cavallo che partì come una freccia e s'internò nel bosco. Elmìr e gli uomini dovettero seguirla.
Il bosco era scuro, fitto, intricato e pauroso. Le foglie secche scricchiolavano sinistramente sotto le zampe dei cavalli, ma il silenzio intorno era lugubre, rotto soltanto da strane voci di uccelli sconosciuti appollaiati sugli alberi. Biancofiore precedeva la comitiva, ma di mano in mano che l'oscurità si faceva più nera ella si voltava furtivamente a misurar la distanza che la separava dai suoi compagni e una tentazione acuta la prendeva di raffrenar la corsa, di unirsi agli altri, di tornare indietro: era tanto scuro e tanto freddo, ed ella aveva molta paura.
— Se la tigre ci fosse davvero!... Se mi mangiasse!...
Ma l' orgoglio e l'ostinazione la spingevano avanti, cogli occhioni sbarrati e le mani tremanti.
A un tratto, ecco la tigre.
Tigre classica: orecchie ritte, mantello vellutato, occhi gialli fosforescenti, fauci spalancate. Tigre digiuna da quindici giorni.
Biancofiore cacciò un urlo; il cavallo fulmineamente si sbandò, fece un voltafaccia, e via, ventre a terra, in una fuga pazza e terribile. Elmìr e gli uomini sentirono l'urlo di Biancofiore e videro balenare a un tempo la fantastica forma del cavallo fuggente colla donna e il lampo sinistro degli occhi gialli della tigre in agguato. Elmìr si slanciò verso quegli occhi e i suoi uomini dietro a lui in falange serrata.
— Indietro tutti! — gridò Elmìr accoccando la freccia all'arco. — Lasciatemi solo! Raggiungete la principessa! Alla vostra guardia, se io muoio!
Il vento portò lontano le parole rotte e imperiose.
Gli uomini obbedirono all'istante; arrestarono a fatica i cavalli, tesero l'orecchio verso il lontano disordinato galoppo del cavallo di Biancofiore, poi si diressero tutti insieme a quella volta. Dopo una corsa sfrenata attraverso all'intricato labirinto dei sentieri e dei rami, la raggiunsero e l'accerchiarono. Ella era bianca come una morta, coi biondi capelli che le sfuggivano dall'elmetto d'argento; i suoi occhi più grandi e più azzurri nel viso pallido cercarono angosciosamente fra gli nomini che la circondavano la figura svelta di Elmìr.
Seguì un attimo di silenzio.... Infine, intuendo rapidamente quello che era avvenuto, la fanciulla lasciò sfuggire le redini e con un gemito cadde riversa sul dorso del cavallo e scivolò come corpo morto a terra.
Quando più tardi, ella finalmente rinvenne, e si guardò intorno, si trovò in una verde radura tranquilla, sotto un grande albero fronzuto. Elmìr era inginocchiato al suo fianco e teneva il polso di lei nella sua mano, la nutrice le bagnava la fronte con acqua di sorgente. Il cuore della fanciulla balzò, e gli occhi di lei appassionatamente si attaccarono al caro volto di colui che credeva perduto.
— Elmir, sei tu?... E la tigre?... — mormorò ella con un filo di voce, temendo ancora di essere sotto l'inganno di un sogno troppo bello.
Elmìr fece un cenno, e un cavaliere presentò a Biancofiore un gran piatto d'argento: su di esso la testa e la coda della tigre, contornate di fiori, si pavoneggiavano con tranquilla civetteria.
— Eccoti la mia caccia d'oggi, — disse Elmìr. — Ti avverto però che un'altra volta lascerò placidamente che tu serva di colazione alla tigre.
— Taci!... — supplicò Biancofiore cogli occhi pieni di lagrime. — Non rimproverarmi!... Ho avuto tanta paura, tanto dolore, per te!...
E, soggiacendo nuovamente alle terribili impressioni e alle fatiche della giornata, ella svenne ancora sotto gli occhi di Elmìr.
Alcuni giorni più tardi, essi sedevano fuor della tenda, in una fresca mattina.
Biancofiore intesseva una piccola ghirlanda di fiori gialli ed azzurri appena colti sulla riva del fiume, ed Elmìr sommessamente cantava. Ma la fanciulla era inquieta, preoccupata e nervosa. Erano in viaggio verso l'ultima tappa, quella che doveva segnare la fine del pellegrinaggio: verso la reggia splendida e celebrata del Sire d'Ayèban che aveva sette figli maschi, l'uno più bello, più intelligente, più valoroso dell'altro.
— Fra tre giorni saremo a Kartùzar! — disse Elmìr smettendo di cantare. — Dicono che quella città sia la più bella d'Oriente, la perla dell'Asia, e che il giardino della reggia, il celebre Giardino Rosso, sembri un giardino incantato.
— Tu hai un ritratto, — rispose Biancofiore. — Tu hai un ritratto, e lo baci ogni sera. Di chi è quel ritratto?
Elmir tacque e guardò lontano, forse la cerulea linea dei monti in fondo all'orizzonte, forse l'airone che in lenti giri fendeva l'aria.
— Di chi è? — insistette Biancofiore.
I begli occhi di Elmìr si erano fatti più seri, il profilo di lui diritto e imperioso si era improvvisamente fatto più duro. Ed egli ancora guardava lontano.
— Perchè non vuoi dirmelo? — ripetè la fanciulla. — Perchè non vuoi dirmi che è della tua innamorata?... Forse io la conosco, se mi dici il nome!... Parla: perchè ne fai mistero?... È forse brutta, o di condizione troppo modesta?... Dimmi, insomma, dimmi! — esclamò ella in tono di supplica insieme e di comando.
Elmìr taceva.
— Allora ti dirò io molti nomi di donne, donne del nostro paese!... — disse Biancofiore. — Ma prima.... mettimi sulla buona strada, ti prego!... La donna del ritratto è una dama, un'attrice, una camerista, o una ballerina?...
Elmìr impallidì, e afferrò impetuosamente i polsi della fanciulla; pareva che stesse per pronunciare delle parole aspre e violente, ma si passò la mano sulla fronte e si contenne. Disse semplicemente:
— È mia madre. — E la sua voce vibrava d'infinita malinconia.
Biancofiore si sbiancò in viso, e chinò gli occhi.
Un impeto di vergogna, di tenerezza, di pentimento, le strinse il cuore: avrebbe voluto afferrare le mani di Elmìr, baciarle, chiedergli perdono in ginocchio, ma non osava dir nulla, non osava neppure guardarlo in viso, nè piangere. Ah, cattiva!... cattiva e stupida!... Come avrebbe potuto egli mai più perdonare?... Da mesi, da mesi, da quasi un anno ella lo tormentava, metteva a prova la sua pazienza, lo punzecchiava coi dispetti, coi capricci, colla superbia, coll'ironia.... Perfino in quello che gli era più sacro, perfino nella memoria di sua madre, aveva trovato modo di ferirlo e di offenderlo!... Cattiva e stupida!... Eppure.... non era cattiveria, no, quella che l'aveva spinta ad insistere così inopportunamente sul ritratto: era uno strano sentimento che ella non sapeva ancora forse spiegare.... Pensando che quell'imagine ogni sera baciata da Elmìr fosse di una donna a lui cara, e cara per amore, ella aveva realmente sofferto, tremato.... Soffriva ancora.... No, non era cattiveria, no, la sua; era paura, gelosia, dolore, era a.... Ma come, come farlo capire ad Elmìr, che ormai forse la disprezzava, che la giudicava leggera, superba e fredda, incapace d'un sentimento e d'un pensiero? Come dirgli?...
Un pudore quasi doloroso sigillava le sue labbra: quanto più soffriva, quanto più amava, quanto più era donna in tutto il significato di debolezza e di abbandono, tanto più si ritraeva in sè stessa, avvolgeva la sua anima di veli.... Sola, sotto la sua bianca tenda, ella pianse le più disperate lagrime.
Ma, nei giorni seguenti, con ogni mezzo, pur nel silenzio, come una donna sa, cercò di farsi perdonare. Elmir del resto non aveva verso di lei cambiato contegno; in ogni atto, in ogni momento, le dimostrava deferenza e sollecitudine. Soltanto quando Biancofiore nei lunghi pomeriggi tentava di condurlo a parlare della sua infanzia, dei ricordi suoi più lontani, più intimi e più cari, la fronte di lui si faceva scura, le labbra restavano ostinatamente mute.
— Non mi perdona! non dimentica!... — gemeva fra sè la fanciulla. — Così mi punisce! — ed ogni giorno penetrava furtiva nella tenda di lui e deponeva alcuni fiori sotto all'imagine di sua madre.
Elmìr trovava quei fiori e taceva. Ma i suoi occhi posandosi su Biancofiore si addolcivano talvolta di un'improvvisa tenerezza. I giorni passavano. Aveva egli perdonato? Una sera egli cantava sommessamente.
— Che cosa canti, Elmir? — chiese con timidezza Biancofiore, tremando che egli si chiudesse ancora in quel silenzio sdegnoso che così profondamente la feriva.
— ... E una vecchia canzone che «ella» sempre cantava....- rispose Elmìr.
— Oh, insegnamela!... La musica ne è così strana, e le parole così dolci....«Ella» te la cantava ogni sera?...
— ....Ogni sera.... quando il sole calava dietro i monti, mi prendeva sulle sue ginocchia, e cantava....- diss'egli quasi parlando a sè stesso. — Era per lei l'ora della malinconia.... Cantava le canzoni della sua patria.... poichè la sua patria non l'aveva mai potuta dimenticare.
— E tu ricordi tutte le sue canzoni?...
— No, non tutte, purtroppo!... — proruppe dolorosamente Elmìr. — La nostalgia di qualche parola ch'ella mi disse e che più non rammento mi persegue di continuo.... Di una canzone che mi cantò fino agli ultimi giorni, una canzone tanto triste e tanto bella, ch'ella preferiva, non rammento che un verso, un verso solo....
....O Tessaglia, o campi aperti....
e darei dieci anni di vita per ricordarla intera!...
— ....Ma tu almeno ricordi il suo viso! — disse Biancofiore. — Io di mia madre non rammento nulla, nulla!... Io non ho avuto mamma: perciò sono così cattiva.
Elmir le accarezzò la mano. — Tu non sei cattiva.... Sei una povera bambina sventurata.
— Ah, è vero, Elmìr!... Tu solo puoi capire, tu solo!... quanto in mezzo a tutti gli splendori io sia sola ed infelice!... Sola!... in mezzo a gente che mi teme e che mi adula senza amarmi! Sola!... Quand'ero piccina, ed avevo più bisogno di tenerezza, d'amore, ma anche di verità, di disciplina, io non sentii che la voce della Fata che mi ripetè senza posa che ero bella, potente, ricca, e che tutto mi era concesso, tutto mi era dovuto! Mi mancò l'appoggio di una mano dolce e forte.... Come posso io non essere divenuta stupida e cattiva?... Il solco lasciato da questa infanzia desolata rimane forse per tutta la vita....- mormorò Biancofiore con accento di profonda amarezza.
Tacquero entrambi. Era la prima volta, la prima volta ch'ella disserrava il suo cuore, e non se n'era accorta.
— Ah, se avessi un bambino mio, quanto, quanto bene gli vorrei!... — esclamò la fanciulla ad un tratto, sollevando impetuosamente il capo.
Si fissarono negli occhi ed ella arrossì. Improvvisamente, provarono un leggero imbarazzo l'uno di fronte all'altro; si accorsero di essere soli, nella campagna deserta, al cadere del sole. E non c'era filo d'erba che non fosse fresco, nè fiore intorno, nè alito di vento, nè stormir di fronda, che non dicessero: primavera, speranza, amore....
— Sarà....- disse Biancofiore a suo cugino che l'accompagnava ai suoi appartamenti dopo un fastoso banchetto dato in loro onore dal Sire di Ayèban. — Sarà vero.... Sono belli, valorosi, intelligenti: hanno tutto, tutto quello che io avevo sognato, tutto quello che la Fata desiderava per me.... e anche di più....e nondimeno.... che devo dirti?... non mi piacciono. No, no! Credo che non sceglierò il mio sposo neppure in mezzo a loro!...
— Pensa che è l'ultima tappa, — rammentò Elmir. — L'anno di viaggio è già quasi trascorso, e tu hai promesso alla Fata.... Aspetta ancora prima di rinunciare definitivamente all'idea di una scelta... Osserva meglio; rifletti... Domani ci sarà la gran festa notturna nel Giardino Rosso del palazzo d'estate, avrai campo di rivedere i principi e di pensare....
— Aspetterò! — rispose con un sospiro Biancofiore. — Poichè tu lo vuoi!... — e tese la mano a suo cugino che la baciò, e scomparve.
— Non mi ama! — pensò dolorosamente la fanciulla. — Non mi ama!... — E si nascose per piangere.
La festa volgeva al suo termine. Nei giardini reali le faci illanguidivano.
I festoni di rose che legavano un albero all'altro lungo gli interminabili viali, formando aulenti e snelle arcate che ondeggiavano al vento, si sfogliavano mollemente sovra le mense cariche di coppe, di vasellame antico e prezioso.
Siepi, cespugli, pergolati, boschi interi di strani immensi fiori purpurei, dai larghi petali carnosi, ardenti, vellutati, empivano la notte di uno snervante profumo; dagli incensieri una nebbia rosea s'innalzava: lenta, leggera, continua; e salendo si colorava del color dei fiori e come un gran velo di fiamma avviluppava il giardino e la folla. Rosse le faci semispente; rossi i regali gonfaloni ondeggianti; sanguigne di rubini le auree anfore e le tazze: sotto la falcata luna il giardino palpitava violento e misterioso.
Il barbuto re, dall'atletica figura, chiuso nella tunica di porpora bordata d'oro, ed i figli di lui, i sette principi che gli formavano intorno il più brillante stato maggiore che mai sovrano e padre avesse potuto sognare, avevano già lasciate le mense ed erano rientrati alla reggia. Alla tavola reale, coperta di pallidi damaschi e di trine, indugiavano soltanto Elmìr ed ï suoi. Elmìr diffidava. Un'inquietudine strana, quasi un presentimento di pericolo, gli mordeva il cuore.
Partita la corte, la folla degli invitati si era sparsa nei meandri dell'immenso giardino. Uomini ammantati di meravigliosi tessuti, colle tempie strette da enormi turbanti su cui scintillavano gemme, donne di cui gli occhi sotto il mistero dei veli sfavillavano più dei brillanti, passavano e ripassavano in una compostezza quasi ieratica: strana moltitudine tacita e ambigua che si rinnovava intorno alla mensa regale come un anello ondeggiante e tenace.
Elmìr vigilava, ed aspettava impaziente il diradar della folla per muovere coi suoi e partirsene. Il lampo di qualche occhio nero gli era sembrato sinistro, sinistro il riso su qualche femminea bocca dipinta, gli era sembrato persino che certi occhi si posassero con troppa insistenza su Biancofiore. Le ultime faci morivano. Di lontano, portati dal vento, i canti orientali giungevano.... forse dal mare.... forse dal deserto.... sommessi.... lenti.... malinconici.... di un angoscioso languore, di una voluttà quasi crudele.... Qualche fontana zampillante solcava di un guizzo luminoso il fogliame cupo degli alberi. A un tratto un bisbiglio si comunicò di gruppo in gruppo, raggiunse Elmìr ed i suoi.
— Le danzatrici!... Le danzatrici!...
Dodici fanciulle indiane, ignude, colle caviglie strette da larghi cerchi d'oro, si avanzavano tra i fiori agitando con moto ritmico lunghi veli a lamine scintillanti. Erano adolescenti, quasi bimbe ancora: il seno piccolo e rigido, il corpo svelto voluttuosamente flessuoso fra il palpitar dei veli, gli occhi precocemente cerchiati di bistro. procedevano a semicerhio, nude fra i rossi fiori. Un fremito solcò la folla.
— Partiamo! — disse Elmìr risolutamente, e, seguìto da Biancofiore, intorno a cui si serrò la scorta, si diresse verso l'uscita del misterioso giardino.
La folla si aperse e si richiuse al loro passaggio come un'onda.
Raggiunsero la gran porta, la varcarono, trovarono i loro cavalli, balzarono in sella. La strada serpeggiava tortuosa tra i boschi; in fondo in fondo la città bianca pareva addormentata.
— Sai? — disse Biancofiore regolando il passo del suo cavallo su quello del cavallo di Elmìr. — Sai? Li ho guardati bene colla lente. Uno ha la bocca troppo grande, l'altro il mignolo della mano destra un po' più lungo di quello della sinistra, il terzo parla troppo, il quarto troppo poco, il quinto.... che ha il quinto?... Ah sì, forse un capello bianco... il sesto....
Non potè continuare. Fulmineamente una masnada di uomini a cavallo, incappucciati di nero fino agli occhi, era sbucata dalla macchia e li accerchiava, tra il guizzar dei pugnali.
Una voce beffarda risuonò.
— Straniero, perchè te ne fuggi misteriosamente, quando le belle fanciulle giungono a danzare? Quale prezioso bottino nascondi, straniero, che ti fa disertare in piena notte le voluttà dei giardini incantati?...
Istintivamente la mano di Elmìr corse alla spada, ma il pensiero del pericolo di Biancofiore gli attraversò l'anima. Ingaggiare una zuffa cogli sconosciuti significava forse perdere la fanciulla. Perciò egli tacque fremendo, e spronò il cavallo.
Ma la voce beffarda raddoppiò l'insulto. — Hai forse rubato il vasellame prezioso alla mensa del re?... Oppure una schiava al corteggio dell'imperatrice?... Tu non parli, straniero! Male nascondi col tuo silenzio il tesoro che vuoi celare ai nostri occhi: sia una coppa d'oro, o una donna, non la porterai intatta al tuo paese! A noi!...
— A me!
I cavalli cozzarono impennandosi, le spade e i pugnali scintillarono al lume della luna. Con un violento strappo Elmìr obbligò il suo cavallo a piazzarsi dinanzi a quello di Biancofiore, le fece scudo di sè stesso, circondò la fanciulla di un cerchio inaccessibile segnato dal rotear della sua spada. Gli altri tumultuosamente stretti intorno al loro signore si battevano come leoni. Calavano i fendenti l'un dopo l'altro sui cavalieri e sui cavalli; già due uomini di scorta erano caduti nel sangue, già la masnada degli assalitori stava per soverchiare il drappello di Elmìr. Ma i banditi miravano di cogliere la donna viva, e ben sapendo che per averla bisognava passare sul cadavere di Elmìr, tutti insieme infierivano contro di lui e lo flagellavano di colpi.
Egli si batteva selvaggiamente; difendeva con freddo furore prima che la sua vita la salvezza di Biancofiore: quasi solo contro dieci, erto sul cavallo, pallido e scapigliato, vivente baluardo a colei che non doveva essere offesa. Pareva che il pensiero di lei avesse dato al suo corpo mortale la divina invulnerabilità e la forza degli antichi eroi. E anch'ella, la giovinetta, aveva tratto il pugnale, e in silenzio preparava la sua mano perchè non tremasse. Ad un tratto Elmìr si lasciò sfuggire la spada e cadde riverso sul cavallo; una pugnalata gli aveva squarciato il braccio, ed il sangue sgorgava a fiotti dalle vene recise. Con un urlo Biancofiore si gettò verso di lui, ma i banditi le furono sopra, ed uno di essi la ghermì alla cintura, un altro si curvò sghignazzando su Elmìr per finirlo. Già l'arma nuda balenava sul capo di lui quando si udì un fischio lungo, acutissimo, di tra gli alberi. Fulmineamente, gli uomini neri abbandonarono la preda, si gettarono nella macchia e scomparvero.
Elmìr era svenuto. Biancofiore, col pugnale in pugno e gli occhi annebbiati d'angoscia, gettò intorno uno sguardo smarrito. Solitudine. Il galoppar dei cavalli si allontanava. La fanciulla fece un cenno ai pochi uomini che le restavano; in un baleno sciolse dalla cintura la sciarpa azzurra e ne fasciò il braccio squarciato di Elmìr, poi pianamente lo sollevò di sotto le ascelle e coll'aiuto dei suoi lo caricò sul cavallo, l'assicurò alla sella, salì dietro a lui, reggendo con una mano le redini, e colla spalla la testa del ferito.
Inerte, bianco, come se la morte avesse già sulla sua fronte impresso il suo bacio, Elmìr posava per la prima volta il capo sulla spalla di Biancofiore, ed il suo sangue inzuppava la sciarpa azzurra e colava sulle vesti e sulle mani della fanciulla. Ella non piangeva. Cautamente, senza una parola, poichè nel silenzio stava forse la salvezza, la lugubre carovana s'internò nel bosco. E cammina, e cammina, e cammina... I cavalli andavano leggeri sull'erba, quasichè fossero consci del loro còmpito, quasichè partecipassero con umani sensi alla fuga... Per ore ed ore, nel bosco nero, in un silenzio di morte, andavano, portando quel corpo insanguinato di cui ogni scossa poteva segnar l'ora ultima. E cammina, e cammina, e cammina.... Dove sostare?... dove trovare un asilo che non fosse infìdo?... Non una casa, non una fonte.... Ombra... solitudine che parevano non dover finire mai più... E cammina, e cammina, e cammina...
Finalmente gli alberi si fecero meno fitti, la natura meno selvaggia, ed un rumore strano colpì gli orecchi di Biancofiore. Era come il fruscio del vento, ma più morbido e più forte insieme, più dolce e più possente, armonïoso. E cammina, e cammina, e cammina!... Ed ecco a un tratto, improvvisamente, il mare!... Il bel mare glauco ed azzurro, sconfinato, tranquillo, colle sue spume dolci scintillanti al sole!... Il mare!...
L'alba s puntava.
Biancofiore arrestò i cavalli, scivolò a terra, svincolò Elmir, e dolcemente, appassionatamente, come una mamma può fare del suo bambino adorato, l'adagiò sul lido. Bagnò un fazzoletto nell'acqua marina e glielo posò sulla fronte, appoggiò l'orecchio al cuore di lui. Debolmente batteva. Allora, con tutta l'anima nella voce, china su quel pallore di morte, Biancofiore lo chiamò:
— Elmìr!... Elmìr!...
E il mare sorrideva, e il sole era dolce e tiepido, ma egli non rispondeva.
— Elmìr!... Elmìr!...
E il suo accento era tale che i guerrieri di scorta si sentirono spezzare il cuore e si ritrassero cogli occhi umidi. Accasciata sulla sabbia, colla bocca sulla bocca del ferito, ella lo supplicava, lo supplicava disperatamente, delirante d'amore e di dolore, colle parole più dolci e più ardenti, quasichè dipendesse da lui rompere quel silenzio lugubre, quell'immobilità sinistra.
— Elmìr!... Apri gli occhi! Guardami! Sono io, sono la tua Biancofiore che ti adora!... Non farmi impazzire d'angoscia, Elmìr!... Guardami, guardami, rispondimi, amor mio!... Non farmi morire!... Abbi pietà di me!... Ti amo tanto!... E tu non mi rispondi!... Elmìr!...
Il ferito socchiuse finalmente gli occhi e si guardò intorno attonito. Dov'era?... chi gli stava presso?... Fece per sollevarsi sul gomito, e l'immane ferita gli strappò un gemito di dolore, vide il braccio fasciato, e in un lampo ricordò. Affannosamente raccolse le forze, si sollevò sul busto.
-Sàlvati! — implorò egli. — lasciami qui! Torna in patria colla scorta! Fuggi! Non perderti per me! Fuggi, Biancofiore, senza attendere un attimo! — E ricadde spossato.
Allora ella si scostò un poco da lui, pur restando in ginocchio, e le lagrime cominciarono a grondare dai suoi occhi.
— Perchè vuoi che io mi salvi — diss'ella — senza di te?... Che m'importa di salvarmi, se ti perdo?... Che m'importa di ritornare in patria senza di te?... Io ti amo. Dove sei tu è la mia patria. Se tu morirai ti seguirò. Ma se anche tu m'ami un poco, Elmìr, se comprendi il mio cuore per te.... non respingermi! Lasciami qui con te.... Poichè, «tu», sei la felicità che ho cercato tanto lontano, e l'avevo accanto; «tu», sei l'amore che sognavo, e per monti e per valli ho camminato per trovarti, amor mio.... Lasciami, lasciami restare con te!...
E come Elmìr col gesto più che colle parole ripeteva il consiglio di salvezza, ella si curvò ancora sulla sua bocca, e gli domandò in un soffio:
— Dunque non mi ami, dunque non mi ami, Elmìr?...
Il ferito la guardò.
— Io ti adoro.
— Amor mio! Mio sposo! Mio amore! Penosamente, egli fece ancora cenno di diniego, e cercò di respingere la fanciulla.
— Ma perchè dunque? Perchè?
Con voce appena intelligibile egli sussurrò: — La Fata.... la lente....
Biancofiore arrossì con violenza al richiamo, e con impeto selvaggio strappò dalla cintura la lunga catena che reggeva la lente e la spezzò. Poi cogli occhi scintillanti d'amore e d'audacia scagliò la lente nel mare.
Elmìr era nuovamente svenuto. Una barca colle vele bianche solcava le onde e si avvicinava alla riva.
Biancofiore agitò il mantello, e chiamò con disperata voce:
— Soccorso!...
La moltitudine attendeva dall'alba sulle mura della città cogli occhi intenti verso la sconfinata distesa azzurra del mare. Di là la principessa doveva ritornare. Un anno e un giorno era passato, ed ella non era ancora ricomparsa. Come mai mancava al suo patto? Come mai?...
I gonfalonieri, i banditori, le damigelle, gli scudieri, usciti sugli spalti ad aspettare, si ripetevano l'un l'altro lo stesso angoscioso dubbio. I più impazienti si rivolgevano alla Fata che era ella pure venuta ad attendere sulla grande terrazza quasi lambita dalle onde, e dissimulava a mala pena la sua inquietudine. L'ansia aumentava di ora in ora; la sera si avvicinava.
Infine, sull'ampia distesa azzurra delle acque si delineò una fragile imbarcazione dalle vele bianche, una povera barca da pescatori. E la barca lentamente si avvicinò, si avvicinò; toccò terra, si arrestò cullandosi sulle onde calme. Una barella fu deposta sul lido e su di essa giaceva un giovinetto colla fronte sfregiata da una lunga cicatrice e la mano destra mozza; dietro a lui una fanciulla, dagli occhi stranamente profondi e azzurri, i ricci biondi intorno all'appassionato viso, le vesti semplici e disadorne, poi pochi uomini laceri e affaticati come mendicanti.
La strana comitiva si fermò sotto alle mura della città, sotto la grande terrazza di dove la Fata scrutava l'orizzonte. La fanciulla bionda staccò dalla cintura una fascia azzurra inzuppata di sangue e di lagrime e la sventolò tre volte in aria in faccia al suo popolo. La Fata aguzzò gli occhi.
— Possibile?!...
Ma il cuore del popolo riconobbe prima di lei la sua signora, e la moltitudine proruppe in un grido frenetico:
— Biancofiore! Biancofiore! Biancofiore!
La principessa alzò gli occhi e sorrise alla patria. E tosto furono spalancate le porte della città, e la Fata, i dignitari, i gonfalonieri, i banditori, le damigelle, gli scudieri, volsero incontro ai pellegrini. Sulla gran piazza, dinanzi al tempio, la comitiva lacera e affaticata e il corteo scintillante di gemme e di stendardi, si trovarono di fronte. Il popolo, una gran siepe umana, intorno, in silenzio.
— Dunque — disse la Fata — hai trovato il principe più bello, più valoroso, più intelligente della terra?
Biancofiore additò Elmir, steso sulla barella, pallido come un morto, col volto sfregiato, e la mano mozza.
— Eccolo. È lui.
La Fata sussultò, ma si contenne. Domandò sottovoce alla fanciulla:
— L'hai guardato attraverso alla lente?
Biancofiore mormorò:
— Lo amo.
La Fata insistette per la seconda volta:
— L'hai visto attraverso alla lente?
Biancofiore arrossì, ma rispose con voce ferma:
— Sì! — e i suoi occhi accarezzarono la fronte di Elmìr, la sua mano gli sfiorò lievemente i capelli.
La Fata allora si volse alle genti e disse:
— È lui!
E allora le trombe cominciarono a squillare, i gonfaloni si alzarono tre volte nell'aria in segno di gioia, i banditori spronarono i cavalli, per tutto il reame corse un brivido di allegrezza.
— Biancofiore, la dolce principessa che avevamo quasi perduta, è tornata al suo reame, ha finalmente scelto uno sposo: il più bello, il più valoroso, il più intelligente principe di tutta la terra! Sia gloria a lui! Gloria e felicità!...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E la Fata non seppe mai che Biancofiore aveva mentito, o meglio che aveva senza saperlo affermato una verità. Ella aveva infatti guardato Elmìr attraverso a una lente, la lente che ogni donna crea per l'uomo che ama, l'unica attraverso cui la perfezione sia possibile: la lente dell'amore.