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Per due giorni le cose procedettero a meraviglia. Come fratello e sorella, come quando erano alla reggia, essi erano tornati d'amore e d'accordo: sereni, felici del bel cielo azzurro, del gran fiume d'argento, della dolcezza dell'aria, del canto degli uccelli, di tutto e di nulla, che è appunto quello che basta alla felicità.
Ma all'alba del terzo giorno lo spiritello maligno che agitava Biancofiore si risvegliò.
Ella si destò di cattivo umore e incominciò a dire che aveva male a un piede e non poteva partire. In quel giorno appunto dovevano levare le tende e arrivare ad una grande città.
Elmìr pazientò fino a mezzogiorno, ma a mezzogiorno decise di partire in ogni modo per poter essere alla città prima di sera.
— Laggiù troverai un medico che ti guarirà il piede, — diss'egli a Biancofiore ostinatamente muta ed immobile. — Suvvia, bambina, arrenditi: fra una mezz'ora noi partiamo.
E, per amore o per forza, ella dovette cedere. Ma aspettava l'occasione per vendicarsi.
Arrivarono a un bivio.
— Prendiamo a destra, — disse Elmir. — Il cammino è più sicuro.
— Ma a sinistra è più pittoresco: prendiamo a sinistra, — contraddisse subito Biancofiore.
— Ma sai che il bosco è infido, che è infestato dalle tigri, e la notte non è lontana.
Biancofiore sorrise sprezzantemente.
— Hai paura? — diss'ella. — Io vado!