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La festa volgeva al suo termine. Nei giardini reali le faci illanguidivano.

I festoni di rose che legavano un albero all'altro lungo gli interminabili viali, formando aulenti e snelle arcate che ondeggiavano al vento, si sfogliavano mollemente sovra le mense cariche di coppe, di vasellame antico e prezioso.

Siepi, cespugli, pergolati, boschi interi di strani immensi fiori purpurei, dai larghi petali carnosi, ardenti, vellutati, empivano la notte di uno snervante profumo; dagli incensieri una nebbia rosea s'innalzava: lenta, leggera, continua; e salendo si colorava del color dei fiori e come un gran velo di fiamma avviluppava il giardino e la folla. Rosse le faci semispente; rossi i regali gonfaloni ondeggianti; sanguigne di rubini le auree anfore e le tazze: sotto la falcata luna il giardino palpitava violento e misterioso.

Il barbuto re, dall'atletica figura, chiuso nella tunica di porpora bordata d'oro, ed i figli di lui, i sette principi che gli formavano intorno il più brillante stato maggiore che mai sovrano e padre avesse potuto sognare, avevano già lasciate le mense ed erano rientrati alla reggia. Alla tavola reale, coperta di pallidi damaschi e di trine, indugiavano soltanto Elmìr ed ï