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suoi. Elmìr diffidava. Un'inquietudine strana, quasi un presentimento di pericolo, gli mordeva il cuore.
Partita la corte, la folla degli invitati si era sparsa nei meandri dell'immenso giardino. Uomini ammantati di meravigliosi tessuti, colle tempie strette da enormi turbanti su cui scintillavano gemme, donne di cui gli occhi sotto il mistero dei veli sfavillavano più dei brillanti, passavano e ripassavano in una compostezza quasi ieratica: strana moltitudine tacita e ambigua che si rinnovava intorno alla mensa regale come un anello ondeggiante e tenace.
Elmìr vigilava, ed aspettava impaziente il diradar della folla per muovere coi suoi e partirsene. Il lampo di qualche occhio nero gli era sembrato sinistro, sinistro il riso su qualche femminea bocca dipinta, gli era sembrato persino che certi occhi si posassero con troppa insistenza su Biancofiore. Le ultime faci morivano. Di lontano, portati dal vento, i canti orientali giungevano.... forse dal mare.... forse dal deserto.... sommessi.... lenti.... malinconici.... di un angoscioso languore, di una voluttà quasi crudele.... Qualche fontana zampillante solcava di un guizzo luminoso il fogliame cupo degli alberi. A un tratto un bisbiglio si comunicò di gruppo in gruppo, raggiunse Elmìr ed i suoi.
— Le danzatrici!... Le danzatrici!...
Dodici fanciulle indiane, ignude, colle caviglie strette da larghi cerchi d'oro, si avanzavano tra i fiori agitando con moto ritmico